09/06/2020 – Donazioni, contributi e concessioni: le frontiere per eludere le norme sugli appalti

Donazioni, contributi e concessioni: le frontiere per eludere le norme sugli appalti
 
Infuria in questi giorni la polemica riguardo i camici ospedalieri nella regione Lombardia. Donazione, oppure “acquisto pentito” trasformato in donazione, a causa di conflitti di interessi connessi alle relazioni di coniugio e affinità dei titolari della ditta col Presidente della regione?
Non abbiamo, qui, elementi per esprimere alcuna valutazione. Una sola cosa appare abbastanza chiara e da essa si può trarre spunto per l’allargamento dell’approfondimento a fenomeni che riguardano in modo sempre più diffuso gli acquisti: la “donazione” pare abbia preso le mosse da un ordine di acquisto da parte di Aria, la centrale acquisti regionale lombarda, direttamente rivolto all’azienda donante, senza gara. La quale, in conseguenza dell’ordine ha emesso fatture commerciali, salvo poi stornarle allo scopo di non ottenere il pagamento.
Posto che le cose siano realmente andate così, non si può non evidenziare l’equivoco evidente in cui sono incorsi tanto Aria spa, quanto il fornitore.
L’aspetto più eclatante dell’equivoco sta nella procedura seguita. Infatti, la “donazione” appare essere stata trattata alla stregua di una fornitura, tanto che Aria ha individuato l’operatore economico, poi rivelatosi donante, mediante, come già rilevato, un ordinativo commerciale di fornitura. Può anche darsi che tale ordinativo avesse la specificazione della sua finalizzazione alla regolazione del rapporto tra le parti. Ma, anche così fosse, gli errori procedurali sono plateali.
La donazione, infatti, non è e non può minimamente essere un contratto soggetto al codice dei contratti ed alle sue procedure, comprese quelle volte all’affidamento diretto, per alcune ragioni semplicissime.
In primo luogo, la donazione non è da nessuna parte regolata e prevista dal codice dei contratti come oggetto della propria disciplina.
In secondo luogo, il codice dei contratti contiene la disciplina pubblicistica finalizzata a regolare l’acquisizione di beni e servizi, con la PA nella posizione di committente e gli operatori economici come appaltatori di lavori o servizi, e come fornitori di beni e prodotti, nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, cioè corrispettivo: la PA ordina per coprire un proprio fabbisogno, l’operatore economico esegue ed ovviamente matura il diritto alla controprestazione, cioè il pagamento.
Il codice dei contratti stabilisce le regole mediante le quali la PA giunge all’individuazione del proprio contraente, in modo da rispettare la concorrenza, l’imparzialità ed il buon andamento. La PA assume l’iniziativa di manifestare pubblicamente l’intenzione di attivare la commessa (è il provvedimento a contrattare previsto dal codice dei contratti, necessario per la cosiddetta “evidenza pubblica”) e poi procede nell’iter, selezionando l’operatore economico tramite gara, oppure, nei casi consentiti, anche sulla base di un affidamento diretto.
L’iniziativa, quindi, nell’ambito degli appalti commerciali e corrispettivi, è della PA; gli operatori economici rispondono alle iniziative nell’esercizio della loro attività commerciale, per ricavare il profitto connesso, secondo lo schema dell’appalto.
Questo schema non ha nulla a che vedere con la donazione. Essa, ai sensi dell’articolo 769 del codice civile “è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.
Dunque, nella donazione non vi è corrispettività o sinallagma; una parte arricchisce l’altra, subendo necessariamente un simmetrico depauperamento economico/patrimoniale, senza che nella parte ricevente, il donatario, insorga nessuna obbligazione verso il donante.
Nella donazione, l’iniziativa è ovviamente del donante, che autonomamente si muove per donare per mero spirito di liberalità denari, patrimoni o beni al donatario, il quale ha solo da scegliere se accettare o meno.
Il codice dei contratti, quindi, non c’entra assolutamente nulla. Non ha alcun senso, infatti, un avviso pubblico o comunque la consultazione di imprenditori da parte di un ente come l’Aria, che ha lo scopo di curare il procurement, per indurre a donare, come se la donazione potesse essere frutto di un’iniziativa del donatario.
Si finisce per creare tantissimo caos e confusione, se si intende gestire la donazione applicando regole e fattispecie che assolutamente non riguardano questo istituto.
Per altro, nel caso di specie di Aria, pare mancare un elemento necessario per la stessa efficacia della donazione. Infatti, le notizie di stampa paiono affermare che i camici, per un valore complessivo di 513.000 euro, siano stati consegnati a seguito di un “ordine” commerciale. Il quale, altro non è se non una scrittura privata. Ma, ai sensi dell’articolo 782 del codice civile “La donazione deve essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità. Se ha per oggetto cose mobili, essa non è valida che per quelle specificate con indicazione del loro valore nell’atto medesimo della donazione, ovvero in una nota a parte sottoscritta dal donante, dal donatario e dal notaio“. E’ vero che la forma solenne dell’atto pubblico non è richiesta nel caso di donazione di “modico valore”; altrettanto noto è che la modicità del valore va rilevata in relazione alle condizioni economiche del donante, ma è innegabile che nel caso di specie, al di là della procedura certamente impropria, l’assenza probabile della regolazione della donazione mediante atto pubblico mette in seria crisi la stessa validità della donazione dei camici, visto che la cifra di oltre mezzo milione di euro di per sè appare non potersi in alcun modo considerare di valore “modico”.
Simili modalità caotiche e confusionali non sono, comunque, certo un’eccezione. Presso gli enti locali si va diffondendo sempre più un utilizzo spurio delle regole del codice dei contratti, sulla base di un’erronea concezione dell’autonomia di diritto privato o, comunque, dell’autonomia “manageriale” delle amministrazioni.
Si dimentica che la PA, a differenza del privato, dispone di un’autonomia di diritto privato molto limitata. A differenza dei privati, che entro comunque limiti precisi, possono “interpolare” le regole e gli istituti del codice civile, tanto da poter anche attivare negozi e contratti non espressamente regolati, la PA deve rispettare il principio di legalità e di tassatività delle regole. Non è, quindi, permesso combinare tra loro istituti, per creare quindi fattispecie nuove on non pienamente rientranti nella regola specifica da rispettare.
Una malintesa concezione delle donazioni, posta a ritenere possibile una “chiamata” di imprenditori perchè questi donino lavori, servizi o forniture, finisce per alterare, potenzialmente, gli equilibri giuridico-economici (e quindi anche la concorrenza e l’evidenza pubblica) regolati dalla disciplina specifica dell’istituto pensato dal codice dei contratti per spingere i privati, previa selezione pubblica, a sostenere spese di procurement della PA: la sponsorizzazione. Che è un negozio giuridico sinallagmatico. Se la PA vuol compulsare il mercato a finanziare direttamente lavori, servizi e forniture, il metodo è quello della sponsorizzazione, non altro.
Ma, le amministrazioni locali tendono sempre più a distorcere anche la propria possibilità di essere a loro volta soggetti attivi di erogazioni liberali, quali sono a tutti gli effetti i contributi che erogano a terzi.
I contributi dovrebbero consistere nella compartecipazione finanziaria ad iniziative interamente progettate e gestite da privati, che abbiano ad oggetto un interesse pubblico condiviso e l’idoneità a perseguirlo con modalità e mezzi non meno efficaci di quelli che appresterebbe l’ente pubblico, se provvedesse esso direttamente (principio di sussidiarietà).
Spesso, però, allo scopo di eludere (e quindi violare) il codice dei contratti, si fanno passare per contributi veri e propri affidamenti diretti, dal momento che si connette il contributo ad una prestazione di facere che non è autonomamente e previamente voluta ed organizzata dal privato, ma chiesta direttamente dall’ente locale. Il quale, quindi, pone in essere la simulazione di un’erogazione liberale, quando invece agisce da committente, non applicando di conseguenza le regole di individuazione del contraente previste dal codice dei contratti, molto più stringenti di quelle fissate in termini troppo general generici dall’articolo 12 della legge 241/1990 per le erogazioni a terzi.
Un altro sistema che sta venendo sempre più in voga per confondere le acque è quello di trattare appalti di servizi come concessioni di servizi.
Si fanno passare per concessioni prestazioni del tutto prive di rischio operativo (soggezione della gestione ai rischi economici da incontro domanda/offerta propri di un mercato aperto) e di piano finanziario comprendente costi di investimento e gestione, da tradurre in tariffa, in plateale violazione delle chiare condizioni poste dal codice dei contratti per attivare in modo corretto le concessioni.
Il “vantaggio” di questo modo di procedere consiste nella soglia, che è quella comunitaria di più alto livello, 5.350.000 euro, invece delle più basse soglie previste per gli appalti di servizi. Così, si attivano procedure anche negoziate sulla base di un “sotto soglia” solo fittizio, frutto dell’impropria qualificazione di un appalto come concessione. Un’elusione normativa che, per altro, l’Anac, nell’allegato 3 del Piano Nazionale Anticorruzione esemplifica come fattore tipico di rischio di corruzione o conflitto di interessi: “elusione delle regole di affidamento degli appalti, mediante l’improprio utilizzo del modello procedurale dell’affidamento delle concessioni al fine di agevolare un particolare soggetto“.
Il rimedio a questo modo distorto e caotico di procedere non può che essere uno: la reintroduzione di controlli preventivi di legittimità operati da soggetti esterni all’amministrazione procedente e possibilmente anche operanti da remoto, lontani dalla regione ove l’amministrazione opera.

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