08/03/2021 – Gestione indiretta dei servizi culturali di valorizzazione e per il pubblico dopo la l.120/20: necessità di riclassificazione.

PREMESSA: UNA NOVELLA CHE ESCLUDE IL PPP ED IL TERZO SETTORE DALLA GESTIONE DEI SERVIZI DI VALORIZZAZIONE E PER IL PUBBLICO

L’art.8 comma 7-bis della L.120/2020[i] ha apportato alcune modifiche al Codice dei Beni Culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42: in particolare: a) all’articolo 115 comma 3, primo periodo, le parole: “delle attività di valorizzazione” sono state sostituite dalle seguenti: “ovvero mediante l’affidamento di appalti pubblici di servizi”; b) all’articolo 115 al comma 4, terzo periodo, dopo le parole: “di cui all’articolo 114” sono state aggiunte le seguenti: “ferma restando la possibilità per le amministrazioni di progettare i servizi e i relativi contenuti, anche di dettaglio, mantenendo comunque il rischio operativo a carico del concessionario e l’equilibrio economico e finanziario della gestione”; c) all’articolo 117, comma 3, sono stati aggiunti i seguenti periodi: “Qualora l’affidamento dei servizi integrati abbia ad oggetto una concessione di servizi ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera vv), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, l’integrazione puo’ essere realizzata anche indipendentemente dal rispettivo valore economico dei servizi considerati. E’ ammessa la stipulazione di contratti di appalto pubblico aventi ad oggetto uno o più servizi tra quelli di cui al comma 1 e uno o piu’ tra i servizi di pulizia, di vigilanza e di biglietteria[ii]”.

Per come si vede, la novella ha ristretto le possibilità di gestione indiretta dei beni culturali di appartenenza pubblica alle sole forme della concessione servizi e dell’appalto e non alle altre forme del PPP o del project financing, per come previsto nell’ancora vigente DM 29 gennaio 2008[iii] che al comma 6 richiama il project financing di cui “agli articoli 152 e seguenti del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

Tanto è reso evidente, non solo dalla lettera immutata del comma 3 dell’articolo 115 (“concessione a terzi”) del D.Lgs 42/04 e dalla nuova versione dell’articolo 117, comma 3 C.b.C. che fa riferimento alla concessione di servizi ex-articolo 3, comma 1, lettera vv), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, ma anche dal riferimento fatto dal comma 4 dell’art. 115 C.b.C. al solo “rischio operativo”, espressamente previsto per le concessioni in forza dell’art. 3 comma 1 punto vv) e dell’art. 165 comma 1 del D.Lgs 50/16) e non anche ai “rischi di costruzione, domanda e disponibilità” proprio dei PPP a norma dell’art. 180 comma 3 del Codice Contratti.

Ed ancora, nonostante il tanto parlare sulla socializzazione dei beni culturali per gli scopi sussidiari di solidarietà, oggi tanto apprezzati dalla Corte Costituzionale (si veda più avanti), la novella ipso iure esclude che venga applicata la normativa delle concessioni servizi, prevista dal Codice dei Beni Culturali, ai servizi di interesse generale non economici, ovvero ai servizi sociali di interesse generale[iv] che interessano la cultura. Infatti, l’art. 4 c.2 della Dir.2014/23/UE e l’art. 164 c.3 del D.gs 50/16) escludono possa essere applicata la normativa sulle concessioni a tali servizi di interesse generale di tipo sociale e non economico.

In altre parole, i nuovi articolati escludono gli operatori del terzo settore dalla gestione dei servizi di valorizzazione e dei servizi al pubblico appunto perchè tali operatori rendono servizi di tipo non economico cui non si applica la normativa sulle concessioni di servizi. Salvo che tali enti del terzo settore partecipino e vincano gare di appalto: cosa quanto mai improbabile considerati i presupposti di gara di cui alla valutazione comparativa sulla sostenibilità economico-finanziaria della gestione indiretta, previsti all’art. 115 comma 4 C.b.C.. 

Al di là delle previsioni fatte nel Codice del Terzo Settore[v], manca, poi, una specifica norma di collegamento tra il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio con detto Codice del Terzo Settore, cosa che invece la L.120/20 ha fatto con riferimento ad alcuni richiami fatti nel D.Lgs 50/16 e smi al Codice del Terzo Settore. 

 Al di là della ragionevolezza di tale scelta di esclusione fatta dal legislatore rispetto alle conseguenze per la redditività dell’offerta culturale lasciate dalla crisi pandemica, crediamo, dunque, rebus sic stantibus, a questo punto di evoluzione normativa, ineludibile procedere ad una riclassificazione delle possibili modalità di gestione dei servizi al pubblico per il patrimonio culturale in titolarità pubblica e, più specificamente, per i luoghi della cultura.

Questo il perimetro di ricerca che ci proponiamo con il presente saggio. Ci scusiamo sin d’ora per ogni eventuale approssimazione causata, oltre che da nostre insufficienze, dalla vastità degli argomenti spazianti dal regime dei SIEG[vi] o SSIG agli aiuti di Stato, dalla normativa di public procurement Europea ed Italiana alla normativa italiana in materia di terzo settore.

 

LE ESPERIENZE DI PPP NEL SETTORE DEI BENI CULTURALI

In altra sede[vii] abbiamo spiegato le gravi ragioni di congiuntura economica internazionale, poi precipitate nell’ Eurostat 2010[viii], che hanno condotto il legislatore a scelte[ix], giustificate sul piano dell’urgenza, ma forse non meglio ponderate dal punto di vista della costituzionalità e della coerenza con l’ordinamento giuridico tanto in termini di contrattualistica pubblica come in quelli della specificità normativa sui beni culturali. Sugli strumenti indicati dal legislatore della decretazione delegata del Codice dei Contratti Pubblici, ovvero, concessione, finanza di progetto, PPP, etc., tutti riassunti nella Parte III relativa alle concessioni e nella Parte IV del Codice dei Contratti Pubblici relativa al Partenariato Pubblico Privato (PPP[x]) da tempo ci si interroga sulla validità degli stessi strumenti per la realizzazione di interventi di conservazione e valorizzazione per i beni culturali[xi].

La Sezione di Controllo della Corte dei Conti[xii], in un suo rapporto di qualche anno fa sulle sponsorizzazioni ed il partenariato pubblico privato, ha evidenziato l’insuccesso degli istituti della finanza di progetto e concessione causa la totale assenza di iniziative[xiii].

In proposito, la Corte dei Conti nella Relazione citata scrive che “interferisce con la disciplina generale del project financing la normativa in materia di tutela contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio. Il codice prevede, infatti, un doppio regime di autorizzazioni in relazione ai beni appartenenti al patrimonio culturale e, segnatamente: – un controllo preventivo della soprintendenza sul progetto e sull’esecuzione dei lavori volto a prevenire manomissioni o alterazioni pregiudizievoli dei caratteri distintivi del bene culturale (art. 21); – un controllo da parte della soprintendenza sull’uso del bene culturale diretto ad evitare pregiudizi per la conservazione del bene e il decoro della sua immagine (artt. 57-bis e 106).

Tale doppio regime autorizzatorio della Soprintendenza, necessario per il peculiare valore del patrimonio oggetto di investimento, ha verosimilmente reso non attrattivo l’investimento causa il forte rilievo del rischio burocratico tanto in termini di rischio di costruzione[xiv] quanto di rischio di disponibilità[xv], per rimanere nei termini delle definizioni Eurostat 2004 e di cui all’art.3 aaa), bbb), ccc) del Codice Contratti Pubblici vigente.  

E’ ovvero comprensibile che un investitore privato si ritiri da ogni proposito d’investimento per la realizzazione di opere pubbliche nel settore laddove incomba la spada di Damocle di un’eventuale mancata autorizzazione sull’esecuzione dei lavori o sulla gestione del bene oggetto di investimento.

La detta genericità[xvi] forse ha contribuito al fallimento applicativo dell’istituto concessorio esteso ai lavori.

E’ vero, ma è anche vero che l’operazione di PPP richiede costi elevati già in fase di impostazione e per giustificare tali costi (progettazione economico-finanziaria[xvii], tecnica, auditing bancari, valutazione dei rischi, etc) è necessario un costo elevato di investimento minimo.

In altri termini l’investimento medio per i servizi, essendo basso rispetto ai normali project finance per i lavori, non si rivela conveniente rispetto ai normali parametri dei mercati finanziari. Aumentare tali costi artificiosamente porterebbe per contro a non rispettare il parametro del value for money, ovvero la giustificazione della convenienza per l’amministrazione della scelta del PPP rispetto ai tradizionali appalti di servizi[xviii]

“Affinché tale convenienza sussista è auspicabile che le amministrazioni affidino la gestione di servizi culturali utilizzando non soltanto un’integrazione dei servizi interna ad una medesima struttura, ma anche un’integrazione territoriale, che coinvolga la gestione di più servizi relativi a più centri culturali disseminati sul territorio. Ciò potrebbe favorire economie di scala nella gestione dei servizi e rendere più conveniente l’operazione anche per il soggetto privato che dovrà ottenere una remunerazione adeguata della gestione del servizio in grado di generare, nella fase di gestione, flussi di cassa sufficienti a rimborsare il debito contratto ed il capitale di rischio[xix]”.

Altra dottrina parimenti scrive: “I pochi casi di ricorso efficace a tali strumenti denotano come maggiori possibilità di successo possano aversi ove essi siano inseriti in più ampie strategie di riqualificazione territoriale (formulate nell’ambito di piani strategici di sviluppo culturale)[xx]”.

Eppure tante speranze erano state suscitate da detti strumenti[xxi].

In tempi di ristrettezza di bilancio e Fiscal Compact, con la scure di Eurostat[xxii] gravante sulle speranze di indebitamento, il project finance era sembrata un’alternativa vera[xxiii] al fine dell’intrapresa di politiche di valorizzazione e conservazione dei beni culturali.

Si era anche sperato di attivare forme di PPP istituzionale a mezzo delle società in house o anche a mezzo di fondazioni di partecipazione[xxiv]. Qualche anno fa autorevole dottrina, sulla scorta della vicenda della positiva risposta dalla Corte di Giustizia Europea[xxv] sulla questione dell’ammissibilità della scelta del concessionario all’interno di un bando per la scelta del socio privato, interpretò con grande favore gli effetti di tale sentenza anche come soluzione per lo scollamento tra art.112 ed art.115 del D.Lgs 42/04[xxvi]. In altri termini, l’autore vedeva, rispetto alle mancate attenzioni del mercato rispetto alla finanza di progetto nel settore culturale, una possibilità di rilancio a mezzo del PPP istituzionale oggi legittimato, non solo da sentenze della Corte di Giustizia Europea[xxvii], ma anche dall’art.5 del D.Lgs 50/16 ed, in particolare, dal comma 3 dello stesso articolo sulla gestione in house.

Le cose non sono andate per come auspicato in nessuno dei casi.

Una precisazione per limiti di tempo e spazio, non esaminiamo la vexata questio dell’applicazione o meno del project finance al settore culturale come anche il tema cruciale del rapporto tra tutela/valorizzazione economica e fruizione del patrimonio culturale. Nota giurisprudenza ha esaminato la questione della destinazione ad un pubblico servizio non totalitaria con gestione privata di una parte (minoritaria) del bene culturale[xxviii]. Ci limitiamo in nota a fare rinvio alla migliore dottrina in materia[xxix].

 

EUROSTAT E PATRIMONIO CULTURALE

Prima di affrontare il tema della riclassificazione di cui al titolo, occorre però fare una breve digressione al fine di capire le ragioni di un certo recente cambiamento di atteggiamento da parte del legislatore e della esclusione, per come visto prima, de iure, del PPP e della finanza di progetto dal novero dei sistemi per la realizzazione di lavori sui beni culturali.

Da tempo l’Ufficio Eurostat della Commissione Europea, per obblighi legati ai vincoli di bilancio[xxx], vigila sull’indebitamento degli Stati. Uno dei principali oggetti di attenzione è il settore dei PPPs[xxxi].

Tra le tante condizioni per rimanere off-balance, ovvero non gravanti sull’indebitamento dello stato, i progetti devono ricevere un totale di agevolazioni non superiore al 50% del valore[xxxii] degli asset oggetto di investimento[xxxiii].

Considerato che le opere in PPP nel settore dei beni culturali richiedono quasi sempre (causa la natura nella maggior parte dei casi “non calda” del settore) contributi pubblici a titolo di prezzo al fine del raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario, difficilmente si potrà rimanere sotto la soglia del 50% di sostegno pubblico rispetto al valore degli asset oggetto di investimento (49% oggi è il limite fissato dall’art. 180 comma 6 del Codice Contratti).

Il settore culturale richiede, sempre e comunque, qualche forma importante di sostegno: tali sostegni in termini di agevolazione fiscale (exemptions from liabilities), di contributi a fondo perduto su stato di avanzamento o in conto gestione (no-refundable milestone payments), di prestito bancario (loan), di partecipazione di capitale (equity), di garanzia per la copertura del rischio (financing guarantees), ect., comunque cumulati non devono superare, però, il 50% sul valore, secondo un documento Eurostat Epec del settembre 2016[xxxiv].

Il problema è che Eurostat considera quale indebitamento pubblico da collocare on-balance[xxxv] anche le agevolazioni, equities, garanzie, etc, a regime di mercato date a progetti di investimento in project finance da enti locali e da finanziarie pubbliche (non solo, dunque, i fondi perduti!!).

Ergo, a causa delle dette decisioni “soft-law” di Eurostat, ove esterne alla normative di esenzione che vedremo tra breve, lo Stato Italiano dovrebbe essere obbligato, comunque, a collocare tali progetti in PPP on-balance, ovvero gravanti sul debito pubblico, rendendo, probabilmente, vano il senso e l’impianto stesso del Decreto Legislativo 228/11[xxxvi] mirato a portare, invece, il carico debitorio off-balance ovvero sui privati concessionari.

La scelta che sembra, invece, avere prevalso, lo anticipiamo, è quella di sottrarsi al rischio della “censura” di Eurostat e considerare le spese per lavori per il patrimonio culturale quali spese giustificate dagli obblighi di tutela previsti dalla Costituzione per finalità sociali e non per finalità di mercato, per come previsto da legge (“prevalente vendita dei servizi sul mercato” art. 165 c.1 D.Lgs 50/16) con riferimento alle concessioni per lavori e gestione.

Si è probabilmente considerato che il rimanere nella definizione commerciale mercatistica del valore finanziariamente “bancabile” e misurabile potrebbe comportare, comunque, il rischio di fare rientrare il tutto nell’indebitamento pubblico, causa la necessità di contributi pubblici per il settore.[xxxvii]

Fatto sintetico riassunto di alcuni punti in tema dei vincoli di bilancio discendenti dal Fiscal Compact, serve ora una breve introduzione alla problematica degli aiuti di Stato e PPP nel settore culturale. Poi vedremo le conseguenze legislative determinate dalle scelte fatte per affrontare le problematiche arrecate da Eurostat.

 

GLI AIUTI DI STATO NEL SETTORE DELLE CONCESSIONI CULTURALI: BREVE RASSEGNA DEI TEMI IN MATERIA DI CONCESSIONI PER SERVIZI AL PUBBLICO SU BENI CULTURALI IN TITOLARITA’ PUBBLICA Di recente si è discusso molto (anche a sproposito[xxxviii]) sul tema dell’inserimento degli appalti per lavori ed attività culturali all’interno della nozione degli Aiuti di Stato[xxxix]. Serve, seppure brevemente, riassumere i termini salienti del problema.

Le norme cardine che regolano oggi la materia degli aiuti di Stato sono gli articoli 107-109 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). In particolare, l’articolo 107 TFUE, nel suo primo comma, fissa un chiaro ed ampio divieto alle misure che costituiscono aiuti di stato, prevedendo letteralmente: “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Ai sensi dell’art. 107, le condizioni che debbono dunque sussistere per aversi aiuti di Stato sono: l’origine statale dell’aiuto (aiuto concesso dallo Stato o mediante risorse pubbliche); l’esistenza di un vantaggio a favore di talune imprese o produzioni; l’esistenza di un impatto sulla concorrenza; l’idoneità ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri.

I menzionati criteri sono cumulativi e devono, pertanto, essere soddisfatti tutti affinché il sostegno si configuri come aiuto di Stato. Ne consegue che se uno dei criteri non è soddisfatto, il sostegno pubblico non costituisce un aiuto di Stato. 

Rientrano tra gli aiuti compatibili, ai sensi dell’art. 108, paragrafo 3.d del TFUE, le misure adottate dagli Stati membri per promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio culturale quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune.

Con sentenza sul caso Leipzig-Halle del dicembre 2012, sul tema la Corte di Giustizia UE stabilì che i gestori di infrastrutture in PPP (partenariato pubblico privato) svolgono in linea di principio un’attività economica e che, pertanto, nel momento in cui ricevono fondi pubblici per costruire una nuova infrastruttura o ampliare infrastrutture esistenti, sono beneficiari di aiuti di Stato[xl].

La Commissione Europea con documento Ares (2012)834142 – 01/08/2012, poco dopo, segnalò la “possibile presenza di aiuti di Stato nei progetti infrastrutturali in PPP”…per musei e monumenti storici più grandi che godono di fama internazionale … ove non è possibile escludere un effetto sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati Membri. La valutazione dipende dall’effettiva/potenziale capacità di attrarre visitatori stranieri[xli].

Il legislatore europeo, a quel punto, è dovuto intervenire disciplinando il finanziamento pubblico delle infrastrutture e delle attività culturali nell’ambito del Regolamento UE n. 651/2014 relativo ad alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato.

Seppure il regolamento autorizzi, da una parte, il finanziamento integrale delle attività culturali causa la mancanza di copertura finanziaria (cosiddetto funding gap), dall’altro lato, ha stabilito per la prima volta l’applicabilità delle regole degli aiuti di Stato e della concorrenza al settore culturale, applicazione prima ristretta al “settore dell’industria creativa” come quella degli audiovisivi, per esempio.

Nel caso non si possa escludere l’aiuto di Stato, l’art.53 del Regolamento UE 651/2014, ha, comunque, previsto la non necessità delle notifica per alcuni investimenti, definiti “in regime di esenzione”. L’articolo ha fissato un elenco di situazioni il cui finanziamento può costituire aiuto di Stato in regime di esenzione tale da comprendere qualsiasi attività in campo culturale (musei, siti archeologici, monumenti, archivi, biblioteche, teatri, sale da concerti, spazi culturali e artistici, il patrimonio immateriale, compresi i costumi e l’artigianato del folclore tradizionale, attività di educazione culturale e artistica, programmi educativi e di sensibilizzazione del pubblico).

L’articolo riguarda gli aiuti agli investimenti, compresi gli aiuti per la creazione o l’ammodernamento delle infrastrutture culturali, ed al funzionamento. La soglia di notifica prevista è per investimenti per la cultura e la conservazione del patrimonio € 100 milioni per progetto; per il funzionamento la soglia è di € 50 milioni, per impresa per anno (poi innalzati rispettivamente a 150 mln e 75 mln[xlii]).

Se l’art. 53 ammetteva alcune attività nel regime di aiuti pur esentandole dal regime di notifica, per contro, il 72° considerando del medesimo regolamento ha, tuttavia, ristretto il campo ammettendo che il finanziamento in campo culturale può “non comportare aiuti di Stato qualora non riguardi un’attività economica o quando non incida sugli scambi intracomunitari”.

Se è il caso di attività economica o che incida sugli scambi intracomunitari, gli Stati Membri possono, se ritengono, invocare un SIEG, ovvero l’applicazione della normativa in materia di Servizi di Interesse Economico Generale. In tal caso si applicherebbero i principi della comunicazione SIEG[xliii], tratti dalla sentenza Altmark[xliv], de minimis[xlv], Decisione 21/2012[xlvi]). In caso di notifica, la Commissione farà la valutazione della compatibilità con il mercato interno sulla base della Comunicazione SIEG e del summenzionato Articolo 107(3)(d) del TFUE.

Riassumendo, se da una parte il regolamento all’articolo 53 fa diventare aiuti di Stato esenti da comunicazione, in pratica, tutte le attività culturali, il considerando 72 ne restringe il campo di applicazione alle sole attività economiche e a quelle distorsive degli scambi tra Stati[xlvii].

Con la Comunicazione 262/16[xlviii] la Commissione Europea è stata chiamata a declinare ed interpretare le specifiche previsioni del Regolamento UE 651/2014.

Al punto 197 par. b) della Comunicazione 262/2016, la Commissione interpreta l’ultima parte del succennato Considerando 72 scrivendo: “la Commissione ritiene che solo il finanziamento concesso a istituzioni ed eventi culturali di grande portata e rinomati che si svolgono in uno Stato membro e che sono ampiamente promossi al di fuori della regione d’origine rischia di incidere sugli scambi tra gli Stati membri”.

La Comunicazione restringe, dunque, ulteriormente il perimetro di applicazione della normativa sugli aiuti di Stato nel settore culturale ai soli eventi culturali e alle istituzioni che svolgono attività economiche per come reso chiaro dall’incipit dello stesso punto b) che si rivolge a ”cultural events and entities performing economic activities”[xlix].

La Commissione al punto 34 della Comunicazione 262/2016, sviluppando il tema di cui al 72° Considerando, scrive che “talune attività concernenti la cultura, o la conservazione del patrimonio e della natura possono essere organizzate in modo non commerciale e, quindi, possono non presentare un carattere economico. Pertanto è possibile che il finanziamento pubblico di tali attività non costituisca aiuto di Stato”. Ed ancora “La Commissione ritiene che il finanziamento pubblico di attività legate alla cultura e alla conservazione del patrimonio[l] accessibili al pubblico gratuitamente risponda a un obiettivo esclusivamente sociale e culturale che non riveste carattere economico[li]. Nella stessa ottica, il fatto che i visitatori di un’istituzione culturale o i partecipanti a un’attività culturale o di conservazione del patrimonio (compresa la conservazione della natura), accessibile al pubblico siano tenuti a versare un contributo in denaro che copra solo una frazione del costo effettivo non modifica il carattere non economico di tale attività, in quanto tale contributo non può essere considerato un’autentica remunerazione del servizio prestato”.

Il punto 35 della Comunicazione 262/2016 afferma che: “Dovrebbero invece essere considerate attività di carattere  economico le attività culturali o di conservazione del patrimonio (compresa la conservazione della natura) (…) prevalentemente finanziate dai contributi dei visitatori o degli utenti o attraverso altri mezzi commerciali (ad esempio, cinema, spettacoli musicali e festival a carattere commerciale (…)”[lii].

Per come evidente i punti della Comunicazione 262/16 sopra esaminati si rivolgono esclusivamente ad attività e non a lavori di restauro di beni culturali, parlano di una capacità di redditività proveniente da sbigliettamento o altre entrate (contributi) provenienti dagli utenti e fanno un elenco, di tipo esemplificativo, che comprende “cinema, spettacoli musicali e festival a carattere commerciale”[liii].

Il termine “attività culturali” potrebbe, in effetti, comprendere alcune delle attività di servizio al pubblico di cui all’art.117, comma 2 punto g) del D.Lgs 42/04 e smi, la cui gestione è effettuata con le attività di valorizzazione regolate dall’art.115 del D.Lgs 42/04[liv].

Ancora una volta è però la stessa Comunicazione a restringere il campo: il cpv 207 della Comunicazione 262/16 fa sì, anzi, che un eventuale finanziamento per servizi aggiuntivi al pubblico ex-art.117 C.b.c., accessorio appunto a beni culturali restaurati, non incida in alcun modo negli scambi tra stati. L’ultimo periodo del cpv 207 infatti recita: “Inoltre la Commissione ritiene che di norma il finanziamento pubblico concesso per servizi comunemente aggiuntivi a infrastrutture (come ristoranti, negozi o parcheggi a pagamento) che sono quasi esclusivamente utilizzate per attività non economiche non abbia, generalmente, alcuna incidenza sugli scambi tra Stati membri in quanto è improbabile che tali servizi attraggano clienti da altri Stati membri e che il loro finanziamento abbia un’incidenza più che marginale sugli investimenti o sullo stabilimento transfrontaliero”.

Rimarrebbe fuori dal regime di non applicazione degli aiuti di Stato solo una parte delle attività riassunte al punto g) del comma 2 dell’art. 117 C.B.C. (“organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonchè di iniziative promozionali”), ovvero, appunto, le attività di “cinema, spettacoli musicali e festival a carattere commerciale”[lv] ed ovviamente i casi di attività dalla prevalente redditività basata sui pagamenti (contributi) dell’utenza. Le “imprese culturali”[lvi] concessionarie che per legge esercitano le “attività culturali” di cui alla categoria generale della “cultura e conservazione del patrimonio” più le altre ancillari dei servizi aggiuntivi, per come disciplinate dall’art. 117 comma 2 C.B.C. e dall’art.53 dello stesso Regolamento UE 651/14[lvii], possono essere, dunque, distinte in due tipologie: quelle che svolgono attività culturali di tipo economico, ed in particolare in senso lato di spettacolo o prevalentemente pagate dai contributi dei visitatori, e quelle che svolgono attività culturali di tipo non economico. Le prime sottoposte al regime degli aiuti di Stato e non sottoposte le seconde.

La specifica fatta, grazie alle pressioni del Governo Italiano, col cpv 207 della Comunicazione 262/16 , è stata fondamentale.

Un aiuto di Stato compatibile potrebbe, infatti, essere erogato solo a condizione che il beneficiario non sia “in difficoltà” a norma del Considerando 14 del Reg.651/14. Orbene, se si considera, come dice il Baldi, che “Nella gestione di un museo o nella realizzazione di un’iniziativa culturale, ben poche attività del settore, a causa di tali difficoltà, potrebbero beneficiare del finanziamento pubblico, assolutamente indispensabile per la loro sopravvivenza[lviii]”, si ha chiara la dimensione del problema che sarebbe sorto se il settore culturale in generale fosse rimasto aiuto di Stato, seppure in regime di esenzione.

La spiegazione del Considerando 72 da parte della Commissione con la citata Comunicazione Interpretativa ha, di fatto, evitato una possibile inelegibbilità a finanziamento dei concessionari della maggior parte dei servizi di valorizzazione come anche dei servizi al pubblico, “causa difficoltà economiche”.  

La Comunicazione non è un regolamento ma sembra avere, comunque, risolto il problema sorto con la succitata interpretazione della sentenza CGUE Leipzig-Halle del dicembre 2012.

Bisogna notare, infine, che comunque le classificazioni relative a “spazi culturali e artistici, teatri, teatri lirici, sale da concerto, spettacolo dal vivo[lix], cineteche, organizzazioni e istituzioni culturali e artistiche (art. 53 comma 2 punto a del Regolamento UE 651/14) e “eventi artistici o culturali, spettacoli, festival, mostre e altre attività culturali analoghe” (art. 53 comma 2 punto d del Regolamento UE 651/14) pur essendo state classificate quali “attività culturali economiche”, hanno identico “rilievo sociale” in Italia in forza dell’inquadramento delle attività di fruizione e valorizzazione culturale, ed in generale della promozione culturale di cui all’articolo 9 della Costituzione, all’interno dei livelli essenziali delle prestazioni a norma dell’articolo 01 del DL 146/2015.

Esaminiamo, dunque, quest’ultimo tema.

 

LA CULTURA LIVELLO ESSENZIALE DELLE PRESTAZIONI

L’ordinamento giuridico nel settore culturale in Italia è andato incontro ad una rivoluzione copernicana che ne ha ridefinito alcuni confini in conseguenza delle nuove regolazioni europee in materia di servizi di interesse economico generale e di interesse non economico. 

L’art. 01 del DL 146/15 (convertito con modificazioni dalla L. 12 novembre 2015, n. 182) è stato antesignano del cambiamento[lx].

Esso stabilisce che tutte le attività riguardanti il patrimonio culturale devono essere comunque rese in quanto la tutela, la valorizzazione e la fruizione sono assurte al rango di diritti inclusi nei livelli essenziali delle prestazioni.

Il legislatore, in tal modo, prescrive ai pubblici poteri di garantire l’effettività delle stesse e, quindi, di conseguenza, di dare concreta attuazione a quelli che sembrano assumere i connotati di ulteriori “nuovi diritti sociali” a prestazioni riguardanti le attività principali relative ai beni culturali[lxi]. Ricordiamo che, ai sensi dell’art.120 comma 2 della Costituzione, in caso di mancato rispetto delle norme sulla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, lo Stato si può sostituire ad organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni[lxii].

Prestazioni, intese come diritti del cittadino e delle collettività, che devono essere comunque rese a prescindere, dunque, da considerazioni economiche o di capienza finanziaria.

Nello stesso senso, l’art. 4 della convenzione UNESCO, definisce “attività, beni e servizi culturali” quei beni o servizi che “…incarnano o trasmettono delle espressioni culturali indipendentemente dal loro eventuale valore commerciale”[lxiii].

L’articolo 111, 4° comma, del Codice dei Beni Culturali prevede che le attività di valorizzazione consentono di agevolare l’espletamento dei compiti di “utilità sociale per fini di solidarietà”, espressamente attribuiti dal legislatore alle iniziative degli operatori privati.

Altrettanto, l’articolo 30 comma 1 del D.Lgs 50/16 prevede che “Il principio di economicità può essere subordinato, nei limiti in cui è espressamente consentito dalle norme vigenti e dal Codice (Contratti), ai criteri, previsti nel bando, ispirati a esigenze sociali, nonché alla tutela (…) del patrimonio culturale (…).

Se a ciò si aggiunge l’obbligo di tutela costituzionale del patrimonio culturale e le correlate previsioni del diritto penale per la tutela, ne riviene che la protezione dello stesso patrimonio non può essere superata da valori o indicatori commerciali o finanziari[lxiv].

Il patrimonio deve essere, dunque, tutelato quale principio di identità collettiva e strumento della memoria nazionale nonché quale valore indefettibile della stessa convivenza umana, non rimesso a condizioni e subordinate di valore bancario o finanziario[lxv].

Bisogna, però, a nostro avviso, aggiornare il concetto “del diritto ad ottenere prestazioni pubbliche” ancora ancorato a visioni novecentesche. In un ottica di sussidiarietà orizzontale, ove i cittadini organizzati e le formazioni sociali del partenariato possono concorrere alla ideazione, organizzazione e gestione dei servizi culturali pubblici, i partenariati sociali e le economie della partecipazione impongono non più di parlare di diritti a prestazioni pubbliche pagate dalla fiscalità a carico del contribuente. Alla luce della su esposta normativa sui LEP e del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 comma 4 Costituzione, tale “pregiudiziale di copertura finanziaria pubblica” all’esercizio del diritto non è più attuale.

Senza alcuna copertura finanziaria pubblica la fruizione può essere, infatti, anche promossa e valorizzata da gruppi organizzati di cittadini a mezzo di strumenti quali le sponsorizzazioni culturali di cui alle forme speciali di partenariato o tramite social bonus o social lending[lxvi] o, ancora, sotto forma di baratto amministrativo[lxvii] a livello cittadino. 

Si deve piuttosto parlare di “diritti a fruire di opportunità” che il pubblico, questo sì, deve mettere a disposizione delle forze sociali e partenariali organizzate. Opportunità per concorrere, dunque, alla gestione, alla migliore fruizione del patrimonio e, con riferimento alla valorizzazione, anche ad investimenti promossi, sotto l’egida delle organizzazioni del terzo settore, a totale carico del privato.

Non si deve trascurare la considerazione che viviamo da anni ormai in uno scenario Cultura 3.0 caratterizzato da varie forme di attiva partecipazione culturale dove la distinzione tra produttori e utenti di contenuti culturali sta continuamente svanendo e nuove vie di creazione di valore sociale ed economico emergono attraverso la partecipazione[lxviii]. Il “diritto a fruire di opportunità” é, dunque, da intendere “a doppio senso” tanto per i cittadini quanto per le organizzazioni culturali del terzo settore, quali fruitori e, contemporaneamente, come ideatori, organizzatori e gestori dei servizi culturali stessi[lxix].

L’opportunità di cui si ha, pertanto, il diritto di fruire é anche il “diritto alla partecipazione” alla cultura tanto nel sopraccitato senso attivo (creativo) quanto nel (sempre più evanescente) senso passivo.

Tale diritto a fruire delle opportunità, generate dall’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale, inoltre, mette in armonia la logica aziendale e i valori culturali, per come emerge dalla lettura sistematica dell’art. 9 Costituzione insieme all’art. 97 Cost., all’art. 41 e all’art.119 Cost.[lxx].

Non è, dunque, più accurato dire che la mano pubblica è l’unica competente alle azioni sul patrimonio culturale, assumendo che l’art. 9 Cost. imponga, in qualche modo, una sorta di riserva a favore di una esclusiva gestione pubblica del patrimonio culturale. Verrebbero, infatti, pretermessi altri beni costituzionalmente protetti, come l’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost., ovvero l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Per tal via, si determinerebbe un ingiustificato favor per il pubblico, del tutto in contrasto con siffatti valori di pari dignità costituzionale, circostanza tanto più grave ove si consideri che tale opzione sarebbe sempre meno sostenibile dal fragilissimo equilibrio della finanza pubblica, oggi tutelato con i vincoli di bilancio di cui all’art. 97 della Costituzione[lxxi].

Pertanto, per come sostiene autorevole dottrina[lxxii], l’art.41 della Carta fa sì che ad agire sussidiariamente possano essere anche operatori economici profit, legittimati tanto quanto quelli no-profit.

Bisogna annotare, infine, una “inversione della polarità pubblico-privato” che ha caratterizzato l’intervento degli apparati pubblici nel senso che, nella dimensione della sussidiarietà orizzontale, la regola è rappresentata dal privato, mentre il pubblico costituisce l’eccezione[lxxiii].

Circa la determinante importanza che ha assunto la teoria e la pratica della sussidiarietà orizzontale, anche come deroga all’applicazione del Codice Contratti al settore sociale, si rimanda in nota in appresso, alle importanti sentenze della Suprema Corte: la 131.20 e la 255.20. Sul tema della sussidiarietà orizzontale applicata al terzo settore torneremo tra breve.

 

MODIFICHE AL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI E AL REGOLAMENTO: SCOMPARSA DI UN ISTITUTO TRAVAGLIATO

La parziale ripudia del principio di economicità espressa, e vista prima, dall’articolo 30 comma 1 del D.Lgs 50/16 trova sponda nella mancata riconferma e/o abolizione di ogni norma del Codice dei Contratti relativa al PPP o project finance[lxxiv] nel settore dei lavori sui beni culturali[lxxv].

L’art. 197, c. 3, del vecchio d.lgs. n. 163/2006, prevedeva che la disciplina del promotore finanziario e della società di progetto si applicasse anche all’affidamento di lavori e servizi relativi ai beni culturali[lxxvi], nonché alle concessioni di cui agli artt. 115 e 117 del d.lgs. n.42/2004.  La previsione succitata non è stata, però, confermata.

L’art. 197, 3 comma del D.Lgs 163/06 è stato abrogato ma non sostituito con un simile articolato. Anzi.

Nel D.Lgs 50/16 art. 145 comma 3, si prevede che “per quanto non diversamente disposto nel presente capo, trovano applicazione le pertinenti disposizioni del presente codice”. Tale norma residuale non richiama la finanza di progetto e la concessione come strumenti per l’affidamento di lavori e servizi nel settore culturale. Al contrario nello stesso codice, nella parte relativa ai beni culturali si prevede il solo istituto delle “forme speciali di partenariato” di cui all’art.151 comma 3 del D.Lgs 50/16 e smi, ben poco compatibile con il PPP o concessioni in genere[lxxvii].

A corroborare queste considerazioni stava anche il DM 154 del 2017 recante il regolamento sugli appalti pubblici di lavori nel settore (in attesa del nuovo regolamento, si ci riferisce alla bozza del 16 luglio 2020)[lxxviii].

Il vecchio DPR 207/2010 al comma 7 dell’art. 242, infatti, sui progetti preliminari per i lavori riguardanti i beni del patrimonio culturale, richiamava espressamente “l’articolo 153 del codice in attuazione dell’articolo 197, comma 3, del codice”, relativo appunto alla finanza di progetto nel vecchio codice di cui al D.lgs 163/06.

Ed ancora il comma 8 dello stesso art. 242 sui progetti preliminari per i lavori riguardanti i beni del patrimonio culturale faceva altro riferimento alle “concessioni”.

Orbene tali riferimenti alla finanza di progetto ed alle concessioni nel regolamento sui lavori nei beni culturali, DM 154/17, come anche nella bozza del nuovo regolamento del luglio 2020, sono del tutto spariti.

Non basta. Ancora, nella documentazione elencata dall’art. 14 e ss. del dm 154/17 per i lavori sui beni culturali, oggi art. 296 della bozza di regolamento, non risultano da nessuna parte i piani economico-finanziari previsti dall’art.183 del D.Lgs 50/16 e smi per l’avvio della finanza di progetto e della concessione (ex-art. 165 comma 3 sempre del Codice dei Contratti Pubblici)[lxxix].

In altri termini, il RUP non chiede tra i documenti della procedura il documento essenziale, invece, per la finanziabilità e, dunque, realizzabilità dell’opera.

In queste condizioni parlare di un rinvio del Codice alle “pertinenti disposizioni” sul PPP e sulla finanza di progetto “per quanto non diversamente disposto” nel Capo III relativo alla normativa per i lavori sui beni culturali, non ha alcun senso per i procedimenti amministrativi concreti.

 

….MORE TEMPORE, IL CODICE DEL TERZO SETTORE

A tale riposizionamento normativo si devono aggiungere le novità del Codice del Terzo Settore (D.Lgs 117/17)[lxxx].

Il D.l. Semplificazioni, convertito con legge n.120/2020 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 14 settembre, ha reso più chiaro il rapporto tra il Codice dei Contratti Pubblici e il Codice del Terzo Settore rispetto all’affidamento di servizi, anche alla luce delle recenti sentenze della Corte Costituzionale n.131/2020 e 255/20[lxxxi], che hanno riconosciuto la strategicità costituzionale[lxxxii] degli istituti di co-progettazione e co-programmazione quale espressione della sussidiarietà orizzontale[lxxxiii].

L’articolo 30 comma 8, novellato dal Semplificazioni, ha poi disposto che, per quanto non espressamente previsto nel codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici nonché di forme di coinvolgimento degli enti del Terzo settore previste dal titolo VII del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241.

“(…)In forza dei principi sanciti dall’articolo 1 della L.241/90 gli affidamenti dei servizi sociali dovranno applicare i criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza. Insomma, così in prima battuta, sembra di potere affermare, come in conseguenza delle modifiche apportate dal Decreto Semplificazioni, per gli affidamenti di servizi sociali siano da preferirsi in futuro procedure comunque improntate ad un ampia apertura al mercato. Sia che si intenda procedere (come da parere del Consiglio di Stato[lxxxiv]) interpellando soggetti del terzo settore, sia che si proceda secondo il Codice dei Contratti (…)”[lxxxv].

Le sopraccitate sentenze della Corte Costituzionale ci fanno dubitare di tale futura “ampia apertura al mercato”.

Anzi, per citare la sentenza 131/20 “ lo stesso diritto dell’Unione (…) mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)”

Riteniamo, pertanto, che tra le forme di coinvolgimento degli enti del Terzo settore previste dal titolo VII del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 cui si dovranno applicare le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, non potranno non essere impiegate le convenzioni e gli accreditamenti di cui agli articoli 55 e 56 del Codice Terzo Settore[lxxxvi] in combinazione con le norme della L.241/90 in materia di accordi sostitutivi ed integrativi (art.11), le norme sulla semplificazione amministrativa (quali quelle sulle conferenze servizi, etc.).  

Ricordiamo brevemente le parti del CTS che più coinvolgono il settore culturale.

L’art. 5 rubricato “attività di interesse generale” prevede che gli enti del Terzo settore esercitano in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Si considerano di interesse generale le attività aventi ad oggetto, tra l’altro, interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42; di organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale (…).

L’art. 71 comma 3 del Codice del Terzo Settore prevede una ripetizione dei commi 303-305 articolo 1 della L.311/2004 per concessione di lavori di restauro e successiva gestione di beni culturali, concessione limitata, come nel DM 6 ottobre 2015, applicativo dei commi 303-305 articolo 1 della L.311/2004, a concessionari no-profit.

L’articolo 89 comma 17 del D.lgs 117/17, in attuazione dell’articolo 115 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 per la valorizzazione a gestione indiretta dei luoghi della cultura, poi, prevede che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni, gli enti locali e gli altri enti pubblici possono attivare forme speciali di partenariato con enti del Terzo settore che svolgono le attività sopra specificate. Tali enti del terzo settore sono individuati attraverso le procedure semplificate di cui all’articolo 151, comma 3 e all’art. 19 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, dirette alla prestazione di attività di valorizzazione di beni culturali immobili di appartenenza pubblica[lxxxvii].

L’articolo 151 comma 3 del Codice Contratti, novellato dal DL Semplificazioni[lxxxviii], prevede, come nel comma 17 dell’articolo 89 del Codice Terzo Settore, che tali interventi di valorizzazione di beni culturali immobili possano essere attivati da Regioni ed Enti Territoriali, nel rispetto dell’art.106 comma 2-bis del D.Lgs 42/04.  

 

TIRANDO LE FILA: A. LA NORMATIVA EUROPEA PER UN TENTATIVO DI SISTEMATIZZAZIONE INTERDISCIPLINARE

Come visto, al di là della contraddittoria recente normativa del DL semplificazioni, per come convertito nella L.120/20, il panorama ordinamentale Italiano si è spostato verso un concetto più sociale delle politiche culturali pubbliche (abbiamo detto prima al fine di uscire dalle forche caudine di Eurostat[lxxxix]).

Ancora gli stessi Trattati UE confermano per i SIEG questa impostazione: l’articolo 106 del TFUE prevede, infatti, un eccezione alla normativa generale mercatistica e pro-concorrenza che trova la sua deroga nei limiti in cui “l’applicazione di tali norme (sulla concorrenza) non osti all’adempimento della missione affidata alle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale”.

Ai sensi della Direttiva Bolkestein, Considerando 40 e art. 4 comma 8 della direttiva 2006/123/CE, “la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico” “gli obiettivi di politica culturale” rientrano nella nozione di «motivi imperativi di interesse generale[xc]”.

Il preminente interesse generale consente, per un’esigenza stimata in sé superiore, di derogare al principio della gara perché si riferisce ad interessi prioritari che prevalgono sulle esigenze stesse che sono a base della garanzia di  concorrenza. Come detto fra le ipotesi di deroga rientra anche la salvaguardia del patrimonio culturale e in genere dell’interesse storico-culturale, quand’anche su supporto commerciale, giacché valore in sé, dunque indipendentemente dalla considerazione economica, nonché qualificatore e attrattore turistico del contesto, e, dunque. come apprezzabile elemento di valorizzazione economica dell’intero ambiente circostante (in tal senso vedi l’importante sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, del 03/09/2018 n° 5157[xci]).

Se tanto vale per i servizi di interesse economico generale (SIEG) a fortiori vale per i “servizi sociali di interesse generale (SSIG)” per i quali l’assenza di un profilo economico esclude il ricorso al mercato mediante procedure competitive. 

Inoltre, l’Allegato 4 della Direttiva 2014/23/UE (recepita nell’attuale Codice dei Contratti Pubblici) fa una lista di servizi che possono essere procacciati dalle pubbliche autorità sul mercato (outsourced) tra essi sono: i “Servizi amministrativi, sociali, in materia di istruzione, assistenza sanitaria e cultura”[xcii]mentre l’art.19 della stessa Direttiva prevede che “Le concessioni per i servizi sociali e altri servizi specifici elencati nell’allegato IV che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva sono soggette esclusivamente agli obblighi previsti dall’articolo 31, paragrafo 3, e dagli articoli 32, 46 e 47”.

Pertanto, la citata direttiva 23/14 nel settore delle concessioni a privati per servizi nel settore sociale e nel settore culturale si applica solo nei principi relativi alla pubblicità.

I due settori stanno, dunque, insieme con riferimento ad un regime di deroga rispetto alla normativa unionale sulle concessioni.

Infine, lo ripetiamo, il comma 3 dell’art. 164 del D.gs 50/16 e smi dichiara la parte III del Codice, relativa alle Concessioni, inapplicabile ai servizi di interesse generale a carattere non economico e, parimenti, l’articolo 4 comma 2 della Direttiva 2014/23/UE recita: “I servizi non economici di interesse generale non rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva”.  

 

TIRANDO LE FILA: B. LA TIPOLOGIA DEI SERVIZI SOCIALI DI INTERESSE GENERALE

Riassumendo quanto sopra esposto, agli operatori del servizi sociali di interesse generale (SSIG), ovvero agli enti del terzo settore, ove affidatari di servizi di valorizzazione per beni culturali, non si appplica la normativa sulla valorizzazione (artt.115 e 117) del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, del Codice dei Contratti Pubblici in ordine alle concessioni, quella sugli aiuti di Stato (in quanto esercenti attività non economiche e non distorsive del mercato). Le loro attività non producono, inoltre, impatti sugli equilibri di bilancio.

Essi sono sottoposti ad un regime differenziato di public procurement (affidamenti), tra enti pubblici e soggetti del terzo settore, quali gli accreditamenti (art.11 L.328/2000), la co-programmazione e la co-progettazione (art.55 del D..Lgs 117/17), regime fondato sulla pratica e sulla regola della partecipazione[xciii], oggi confermato dalle due rivoluzionarie sentenze della Corte Costituzionale (sentenze n.131/2020 e n.255/20) prima citate[xciv].

Si applica, dunque, solo il Codice del Terzo Settore a mezzo dell’art. 89 comma 17 del D..Lgs 117/17 per gli enti del terzo settore iscritti al Registro Unico Nazionale Terzo Settore (RUNTS) ed oggetto di accreditamenti, ex-art. 55 c.4 e e/o convenzioni ex-art. 55 D.Lgs 11/17.

Unica eccezione all’esenzione dall’applicazione del Codice dei Contratti è che si applicano solo gli obblighi di pubblicità (ex-artt.19, art.31, par. 3, e artt.32, 46 e 47 della Dir.2014/23/UE).

Anche se la redditività dei loro investimenti è di tipo freddo, non è previsto che i ricavi possano provenire dal canone riconosciuto dall’Ente pubblico per la domanda di servizio, come nei PPP ai sensi dell’art. 180 c.2 e c.4. del D.Lgs 50/16.

Una domanda si pone: attesa la novella di cui all art.117 c.3 del D.Lgs 42/04, recata dal Decreto semplificazioni e dalla legge di conversione 120 del 2020, che fine fanno i PPP?

La legge 120 infatti prevede espressamente concessione servizi[xcv] ed appalti per la gestione dei servizi al pubblico[xcvi].

Abbiamo, però, visto che l’art. 4 c.2 della Dir.2014/23/UE e l’ art. 164 c.3 del D.gs 50/16 dicono che la normativa sulla concessioni servizi non si applica ai servizi di interesse generale non di tipo economico.

Ne consegue che ai servizi culturali, svolti da enti no-profit non economici (per attività di nulla o scarsa redditività, dunque “fredda”) anche a titolo dei contratti di forme speciali di partenariato di cui all’art. 89 comma 17 del D.Lgs 117/17, sarebbe logico si applicasse la normativa sui PPP, giacchè nei PPP i ricavi sono il canone riconosciuto dall’ente per la domanda di servizio ex-art. 180 c.2 e c.4. D.Lgs 50/16 (ricordiamo che i PPP sono relativi ad opere /attività fredde[xcvii]). Vista la previsione del nuovo comma 3 dell’art. 117 C.b.C. si può, dunque, in tali casi applicare l’istituto del PPP?

A giudicare da senso e lettera della norma novellata, è fuor di dubbio che il legislatore preferisca, invece, applicare il solo regime delle concessioni di servizio (e degli appalti, comunque non idonei agli enti no-profit) che, come dicevamo prima, si riferisce solo ad opere/attività calde ovvero redditive. Il legislatore ha inteso, dunque, i servizi al pubblico come un’attività redditizia.

Per come noto, invece, salvo alcuni casi come il Colosseo e pochi altri, il settore culturale è poco redditizio o non lo è affatto.

La crisi pandemica, le annunciate crisi pandemiche a venire[xcviii] e la conseguente necessità di riconversione ad una fruizione non in presenza ma a distanza, con tutti i problemi giuridici e di tutela dei diritti connessi all’uso di immagini e contenuti dei beni che verranno digitalizzati[xcix], renderanno, per molto tempo a venire, l’intero settore culturale “freddo” (anzi freddissimo).

Visto il fallimento di numerose compagnie aeree in conseguenza della crisi covid[c], la vendita dei titoli azionari di compagnie aeree da parte di grandi protagonisti della finanza internazionale[ci] e le visioni strategiche espresse dal World Economic Forum e da altre Agenzie Internazionali, quali UNESCO, OCSE, FMI, UNWTO[cii], etc., ci sembra di potere affermare che scomparirà con ogni probabilità il turismo di massa “mordi e fuggi”, per tornare ad un turismo affluente e di elite, di tipo semiresidenziale, come nei Grand Tour del 1700 e 1800. Sparirà ovvero la principale voce di entrata del sistema turistico culturale Italiano relativo non solo alla fruizione dei luoghi della cultura ma a tutto il sistema che vi gravita intorno, quale l’alberghiero, la ristorazione, i servizi, l’artigianato, etc[ciii]..

Non si può fondatamente ritenere, dunque, oggi, ma sopratutto, domani, l’offerta di gran parte del patrimonio culturale pubblico Italiano quale fonte redditiva di entrate relative a servizi classificabili quali servizi di tipo economico cui applicare la normativa sulle concessioni servizi per i servizi di valorizzazione e per il pubblico, per come previsto dal comma 3 dell’art. 164 del D.gs 50/16 e dall’articolo 4 comma 2 della Direttiva 2014/23/UE in combinato disposto con la nuova norma.

La qui commentata novella del comma 3 dell’art. 117 C.b.C, per come recata dal DL Semplificazioni convertito nella L.120/20, sembra, dunque, tecnicamente, illogica e contraria alla Direttiva Europea 2014/23 e, nel merito, fuori tempo rispetto alle conseguenze di lungo periodo della crisi. 

 

TIRANDO LE FILA: C. LA TIPOLOGIA DEI SERVIZI DI INTERESSE ECONOMICO GENERALE

I S.I.E.G. (servizi di interesse economico generale) saranno, dunque, i servizi al pubblico prevalentemente finanziati dai contributi degli utenti o attraverso mezzi commerciali (cinema, spettacoli musicali e festival a carattere commerciale, etc.) ai sensi del punto 35 della Comunicazione 262/16.

Dal punto di vista della normativa sugli aiuti di Stato gli aiuti ai concessionari in regime SIEG saranno esenti all’obbligo notifica (art. 53 reg.651/14) nè graveranno sugli equilibri di bilancio del fiscal compact.       

Dal punto di vista contrattuale, gli affidamenti possibili saranno o l’appalto pubblico (a norma dell’art.117 c.3 del D.Lgs 42/04, da poco novellato) o la concessione servizi (ex-art. 4 c.2 della Dir.2014/23/UE e art. 164 c.3 del D.Lgs 50/16) con conseguente redditività proveniente dalla prevalente vendita dei servizi sul mercato ex-art. 165 c.1 D.Lgs 50/16 per le concessioni e conseguente impossibilità di pagamento di canone da parte dell’Amministrazione per la disponibilità del bene, come nei PPP ai sensi dell’art. 180 c.2 e c.4. del D.Lgs 50/16.

Conseguentemente, e per logica propria della valutazione comparativa sulla sostenibilità economico-finanziaria della gestione indiretta, di cui all’art. 115 comma 4 C.b.C., la redditività delle attività intese come SIEG, sarà calda e comunque almeno tiepida.

Il rischio possibile sarà solo quello operativo[civ] come da uguale previsione tanto del nuovo articolo 115 comma 4, terzo periodo, quanto dell’art. 165 del D.Lgs 50/16.

Le deroghe possibili al Codice dei Contratti Pubblici consisteranno, ex Art. 106 TFUE e art. 12 comma 3 della direttiva 2006/123/CE, nella possibilità che nelle procedure di selezione si tenga conto dei “motivi imperativi di interesse generale” di cui al Considerando 40 e art. 4 comma 1 punto 8) della direttiva 2006/123/CE (Bolkestein) (per come previsto dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, del 03/09/2018 n° 5157).

Al fine della verifica delle fattispecie per l’esenzione nelle procedure di selezione dalle norme di public procurement europee, causa detti motivi imperativi di interesse generale, si applicherà la Comunicazione della Commissione Europea sui SIEG [COM(2007)725].

 TIRANDO LE FILA: D. LA TIPOLOGIA DEGLI OPERATORI ECONOMICI DI MERCATO

Le attività interessate alla terza tipologia sono quelle oggetto di investimenti per 150 mln di euro e/o spese funzionamento per 75 mln di euro e che, come sopra, riguardano servizi al pubblico prevalentemente finanziati dai contributi degli utenti o attraverso mezzi commerciali (cinema, spettacoli musicali e festival a carattere commerciale, etc.) di cui al punto 35 della Comunicazione 262/16. Per i detti investimenti e/o spese di funzionamento le amministrazioni finanzianti hanno obbligo di notifica alla Commissione Europea.

Si ricorda che in tali casi, ove le agevolazioni siano superiori al 49% del costo investimento complessivo, ex-art.180 c.6 D.Lgs 50/16, l’investimento avrà effetti sugli equilibri di bilancio Europei e sarà, dunque, classificato, on-shelf[cv]

Anche qui, come per i SIEG, ex-art.117 c.3 del D.Lgs 42/04, si applica o l’appalto pubblico (a norma dell’art.117 c.3 del D.Lgs 42/04) o la concessione servizi (ex-art. 4 c.2 della Dir.2014/23/UE e art. 164 c.3 del D.Lgs 50/16).

Ovviamente la redditività del settore, sarà di tipo “calda, ovvero caratterizzata da “prevalente vendita dei servizi sul mercato” ex-art. 165 c.1 del D.Lgs 50/16. Anche qui il rischio sarà di tipo operativo (ex-art. 165 D.Lgs 50/16).

La Commissione UE valuterà la compatibilità degli aiuti con la normativa sul mercato interno sulla base della Comunicazione SIEG e sulla base dell’Art. 107(3)(d) del TFUE.

Per obbligo di completezza si citano, infine, le tipologie di gestione istituzionale ed in-house richiedenti, la prima forma, la costituzione di soggetti giuridici (ex-art.112 c.5 del D.Lgs 42/04) ed il bando per il soggetto d’opera (per come previsto dalla pronuncia CGUE 15 ottobre 2009, n. C-196/08), mentre la seconda modalità (in-house) l’affidamento solo a società a totale partecipazione pubblica dell’ente concedente per gli effetti della pronuncia del Consiglio di Stato, V Sez.18.07.2017, n. 3554.

 

Gestione indiretta dei servizi culturali di valorizzazione e per il pubblico dopo la l.120/20: necessità di riclassificazione

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