04/07/2017 – Un nuovo comune policentrico per la nuova Italia

Un nuovo comune policentrico per la nuova Italia

Enti locali 3 luglio 2017, di Andrea Piraino

Pubblichiamo la seconda ed ultima parte dell’intervento di Andrea Piraino, svolto al Seminario tenutosi al Centro Bachelet della Luiss, il 29 maggio 2017, su “Riforme necessarie e possibili a volere costruire sul serio un sistema di autonomie responsabili”

 

Pubblichiamo la seconda ed ultima parte dell’intervento che Andrea Piraino ha effettuato al Centro Bachelet della Luiss a Roma, il 29 maggio scorso, sul tema delle “Riforme necessarie e possibili a volere costruire sul serio un sistema di autonomie responsabili”. Clicca qui per visualizzare la prima parte.

Con riferimento a questa relativamente nuova istituzione, come è noto e generalmente riconosciuto, si tratta di una esperienza pressoché fallimentare sia sotto il profilo dell’identità  che dell’assetto organizzativo e funzionale. Solo che si fa molta fatica a individuare quale sia la causa prima di questo ennesimo intervento sbagliato del legislatore nazionale strattonato tra l’esigenza di creare un nuovo sistema di governance delle Città e la resistenza insuperabile  dei Comuni-capoluogo di volere continuare ad essere un tutt’uno indivisibile. Ora è qui che si colloca il problema che impedisce al nuovo sistema di governo delle Città metropolitane di manifestarsi in tutta la sua carica innovativa e funzionare ad un livello qualitativo più alto del vecchio sistema per enti unitari e separati dove appunto emerge il potere centralizzato del grande Comune (capoluogo) che a causa di questa sua configurazione unitaria tende a fagocitare tutti gli altri Comuni dell’area  e quindi a creare condizioni di resistenza di questi ultimi ad aderire pienamente al governo della Città metropolitana. Ma proprio per questo, allora,  il problema vero, come cennato, non è quello del sistema di governo metropolitano ma quello del grande Comune-capoluogo che non può restare unitario ma  deve articolarsi in una serie di Comuni (o Municipi) decentralizzati ed, a loro volta, strutturati in quartieri o in “zone omogenee” in modo tale da realizzare una nuova forma di organizzazione policentrica che interagendo con gli altri Comuni dell’area ritenuta metropolitana e corrispondente al territorio dell’ex Provincia costituisca un vero sistema di relazioni paritarie e federali. Creando, così, le premesse per distinguere finalmente le funzioni di area vasta da attribuire al governo della Città metropolitana da quelle comunitarie di base, collegate cioè all’esercizio dei servizi alla persona, da collocare in capo ai Comuni dell’area.

Ed è proprio con riferimento a questi ultimi che emerge la crisi che attanaglia, al di là del rapporto con il sistema metropolitano, il grande Comune, il quale a causa della sua eccessiva dimensione e della logica centralistica che lo guida risulta assolutamente inadeguato ad erogare servizi efficienti, efficaci e, soprattutto, equi in un settore come quello del welfare  personale e famigliare che si fonda su rapporti face to face e quindi fondati sulla conoscenza personale, sulla fiducia reciproca che mai un’organizzazione mastodontica e centralistica come il grande Comune può garantire. Crisi che peraltro, da quando nel nostro Paese la dottrina, prima, ed il legislatore, dopo, hanno fatto un’opera di rimozione del principio di decentramento per sostituirlo con quello di sussidiarietà, ha accentuato i suoi già pesanti effetti negativi  coinvolgendo per di più in essi gli altri enti territoriali e segnatamente  quelli di area vasta.

L’affermazione appena fatta può sembrare un po’ paradossale ma come da tempo ha messo in evidenza una attenta lettura di S. MANGIAMELI è difficilmente oppugnabile. Infatti, il principio di sussidiarietà si differenzia dal principio di decentramento in quanto non implica l’assegnazione delle funzioni  esclusivamente ai rami periferici del sistema istituzionale ma può significare anche l’attribuzione, per motivi di esercizio unitario, delle stesse ai livelli più alti dell’ordinamento, imponendo così di definire un assetto delle competenze in base alle concrete capacità di operare dei vari ambiti istituzionali. Insomma, la sussidiarietà non agisce esclusivamente in favore dei rami bassi del sistema perché la sua ratio operativa mira ad un assetto istituzionale improntato alla sola efficienza del sistema e quindi può benissimo imporre, seppure in termini dinamici,  un’allocazione legislativa delle competenze indirizzata verso l’alto.

Diversamente, invece, il principio di decentramento. Che consiste in un processo di ripartizione delle competenze tra centro e periferie per promuovere il livello di governo  di un sistema più prossimo ai cittadini al fine di realizzare una gestione stabile ed efficiente delle funzioni amministrative al servizio delle comunità locali. O, in altri termini, un criterio di attribuzione delle competenze che si collega al principio di autonomia al fine di rafforzare le istituzioni locali riconosciute dall’art . 5 della Costituzione e promosse dall’art. 114 ad enti territoriali costitutivi della Repubblica.

Ora, l’aver sostituito il principio di decentramento con quello di sussidiarietà  ha implicato nell’opinione scientifica ed ancor di più in quella politica che l’attenzione dapprima  si spostasse all’esterno del Comune polarizzandosi sulle altre istituzioni, in particolare quelle intermedie rispetto alla Regione, e poi che si concentrasse esclusivamente sul piano delle funzioni amministrative da allocare tra i vari enti locali, così perdendo la capacità di cogliere e fare emergere che la questione che si aveva di fronte e per la quale era necessario intervenire sul sistema locale in crisi  riguardava il problema politico dell’incremento della partecipazione dei cittadini alla gestione in prima persona delle vicende  che li riguardavano comunitariamente e soprattutto di quelle dello sviluppo della democraticità del governo locale. Non solo. Ma si smarriva anche la consapevolezza che tutti i grandi Comuni avessero ormai raggiunto dimensioni tali da rendere difficile il governo con i tradizionali strumenti amministrativi e che la loro crescita sembrasse creare nuovi problemi politici ed organizzativi imputabili alla perdita del senso di comunità, alla difficoltà di garantire lo standard dei servizi sociali, alla crisi della partecipazione democratica dei cittadini.

Circostanze tutte che sicuramente avrebbero fatto emergere come la questione dei grandi Comuni si sarebbe potuta  affrontata ed in qualche modo risolvere se si fosse andati nella direzione della  riscoperta e del completamento di quel processo di decentramento iniziato per spinta autonoma nei primi anni ‘60 del secolo scorso e poi sviluppatosi a seguito dell’emanazione della legge 278 del 1976 negli anni ‘70/’80.

Il non avere imboccato questa strada ed anzi, a partire dalla riforma della 142 del 1990, averla di fatto completamente abbandonata ha determinato non solo una mancanza di soluzione agli innumerevoli problemi di governo comunale in territori strategici per le istituzioni democratiche ma ha contribuito ad aggravare quelli di tutto il governo locale non adeguatamente messo a sistema nel suo fondamento.

Per convenirne non c’è bisogno di riconoscere  che tra decentramento e crescita di strutture pluralistiche e di partecipazione dal basso al governo del Comune vi sia una connessione immediata.  E’ indubbio, però, che una correlazione positiva tra dimensioni urbane e livello di decentramento così come, ad esempio, tra dimensione complessiva delle spese comunali e grado di articolazione del processo decisionale vi sia. Il che, naturalmente, non significa che si debba  accedere alla mitologia del decentramento come soluzione a tutti i mali della crisi urbana. Ma che di certo è un dato oggettivamente riscontrabile  che esso possa costituire una sorta di risposta  al problema di come organizzare politicamente le  tensioni emergenti in un sistema altamente urbanizzato  e spesso anche industrializzato.

Basti considerare che tutti i grandi Comuni hanno ormai raggiunto un’ ampiezza della popolazione ed una vastità della superficie comunale, anche se  discontinuamente abitata, che soltanto se policentricamente organizzate potranno evitare il decadimento  della qualità della vita civile,  la precarietà della convivenza con le comunità di  immigrati sempre più presenti nelle periferie ed, infine, il caos urbanistico  determinato dal ruolo del terziario con il suo connesso potenziale attrattivo rispetto ai territori circostanti.

Detto questo, e stabilita una volta per tutte la configurazione diffusa sul territorio dei nuovi Comuni (non più piccoli o grandi, quindi, ma policentrici), dovrebbe ora affrontarsi il tema dell’ordinamento degli enti di area vasta. Esso esula però dalla riflessione che abbiamo condotta fin qui e quindi lo prenderemo in considerazione solo per una breve conclusione del ragionamento svolto. Che ha inteso porre con chiarezza la necessità della riforma dei Comuni come primo e fondamentale passo per il riordino di tutto il sistema locale ma non sulla base del vecchio modello di un ordinamento per enti separati, soggettivanti le funzioni loro attribuite ed organizzati come centri di potere politico autoreferenziale ma come espressione di una nuova forma di relazionalità istituzionale collaborativa, cooperativa integrativa di cui da tempo si parla anche sotto lo stimolo della giurisprudenza della Corte costituzionale senza però indicare mai con precisione gli istituti e le procedure in cui dovrebbe materializzarsi. Anche perchè si deve mettere in discussione uno dei principali cardini dell’ordinamento repubblicano. Naturalmente non nella sua vera essenza ma nella interpretazione che ne è stata data.

Mi riferisco, come è facile capire, al principio di autonomia che non può continuare ad essere declinato in termini di sfera d’azione dell’istituzione cui è riferita libera dai vincoli dell’ordinamento generale ma deve essere reinterpretato come modo di essere solidale tra le organizzazioni che ne sono dotate per l’esplicazione di un autogoverno oltre che più efficace più partecipato. Il che consente allora di immaginare la possibilità di introdurre  un modello ordinamentale di tipo federale in cui Comuni, da un lato, e Città metropolitane e Province, dall’altro, sono legati da un vincolo istituzionale di comune appartenenza. Cosa che, peraltro, non è completamente aliena dalla logica della legge 56 del 2014. Ne è prova la norma che prevede l’elezione con sistema indiretto di secondo grado degli organi delle Città metropolitane e delle Province.

In verità tale opzione, com’è noto, nasce per raggiungere l’obbiettivo di risparmiare i costi delle indennità e dei gettoni dei titolari di questi organi. Ma il dato istituzionale che sicuramente emerge travolge per valore ordinamentale qualsiasi argomentazione di altra natura: gli organi delle Città metropolitane e delle Province, nella prospettiva della legge 56, risultano composti esclusivamente da amministratori comunali. Il che significa che tra Comuni, Città e Province viene a cadere ogni separazione ed alterità e si instaura tra le loro organizzazioni un continuum   che ne sancisce il legame federativo. Legame federativo che non è realizzato dall’associarsi di soggetti che restano separati e conflittuali quanto piuttosto dal collaborare e cooperare di organizzazioni che tendono sempre più ad agire in comune non trasformandosi però in strumenti di potere che infrangono la paritarietà delle istituzioni voluta dal nuovo art. 114 della Costituzione. In altri termini, Città metropolitane e Province non si pongono come soggetti autonomi diversi dai Comuni ma come un’unica struttura di collegamento di questi ultimi che così, costituendo un’organizzazione più adeguata  per il governo locale, dovrebbe riuscire a fornire servizi più efficienti  alle proprie Comunità. L’unica circostanza che va precisata è che in tale organizzazione federale non è assolutamente necessario che tutti gli organi della Città metropolitana e della Provincia siano eletti con un sistema di secondo grado. E ciò, in particolare, se svolgono, come prevede la 56/2014, funzioni differenziate. In questo caso, è sufficiente che lo sia solo l’organo di controllo ed indirizzo politico, ovvero il Consiglio, perché è in questa sede che si realizza l’incontro e la composizione degli interessi dei Comuni. Non è necessario, anzi, sarebbe contraddittorio, che lo fosse il Sindaco o il Presidente (con le rispettive Giunte) perché questi ultimi  esercitano una funzione di governo che consistendo in singoli atti di autonomia reclama una investitura olistica del soggetto sovrano che non può che essere conferita tramite elezione diretta da parte del Popolo.

Ma, come cennato, non è questa la sede per affrontare una simile tematica. Ciò che ora, in conclusione di queste note, invece si deve fare è rilevare che con la bocciatura operata dal Referendum del 4 dicembre 2016 non solo si è in definitiva chiusa una fase di false riforme costituzionali tentate arrogantemente da maggioranze di potere autoreferenziali ma si sono create le condizioni per un rilancio dello ‘spirito’ della Costituzione ed all’interno di esso del valore e del significato delle istituzioni locali non solo come organizzazioni paritarie alle altre costitutive della Repubblica ma anche come pilastri fondamentali di quella democrazia comunitaria che è tra le intuizioni più fulgide della Politica che animò l’Assemblea costituente.

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