04/03/2020 – Dichiarare il falso sui propri redditi può comportare il sequestro preventivo della carta del reddito di cittadinanza

Dichiarare il falso sui propri redditi può comportare il sequestro preventivo della carta del reddito di cittadinanza
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
 
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 5289, del 10 febbraio 2020 (nella stessa giornata è stata emessa una sentenza fotocopia la n. 5290/2020) ha rigettato il ricorso di un contribuente avverso la sentenza del Tribunale; per i giudici di legittimità dichiarare il falso sui propri redditi può comportare il sequestro preventivo della carta del reddito di cittadinanza (Rdc).
Il fatto
Con ordinanza del giugno 2019, il Tribunale ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di una contribuente avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale, in quanto indagata, con il marito, per il reato previsto dall’art. 7L. n. 26/2019, perché in concorso tra loro, per ottenere il beneficio economico del “reddito di cittadinanza” dichiaravano il falso, attestando lo stato di disoccupazione di entrambi, quando in realtà svolgevano attività lavorativa di addetto al laboratorio di pasticceria e rosticceria in un locale, come accertato dai carabinieri, che effettuavano un servizio di osservazione nel luogo predetto percependo un compenso pari a euro 180,00 a settimana.
Il Tribunale ha ritenuto infondata la prospettazione difensiva, basata sull’assunto che l’ISEE necessario al fine di dimostrare di rientrare nei parametri reddituali indicati dalla legge sarebbe stato richiesto l’8 febbraio 2019 e rilasciato in data 12 febbraio 2019 in concomitanza con l’inizio dell’attività lavorativa della contribuente, la cui retribuzione non avrebbe comportato il superamento del limite massimo di ISEE annuo per ottenere il beneficio economico e, dunque, I ‘obbligo di comunicare la variazione. In particolare il Tribunale ha rilevato che l’autodichiarazione presentata ai fini della concessione del beneficio è dell’8 marzo 2019 e, perciò, riferita a un momento in cui il marito svolgeva attività lavorativa da oltre un mese. Ha, inoltre, evidenziato l’anomalia della situazione, rappresentata dal fatto che, al momento del controllo da parte della polizia giudiziaria, risultava svolgesse lavoro senza regolare contratto, mentre, solo successivamente, era stata documentata l’esistenza di un contratto di lavoro semestrale.
Avverso l’ordinanza l’indagata, ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione, deducendo sulla premessa che la variazione di reddito ritenuta penalmente rilevante, legata alla nuova attività occupazionale svolta dal marito, si sarebbe prodotta in un momento successivo al rilascio della documentazione ISEE necessaria per la domanda del reddito di cittadinanza. Secondo la difesa, sarebbe dubbia l’esistenza di un obbligo di comunicare tale variazione di reddito non essendosi comunque verificato il superamento della soglia richiesta dalla legge, pari ad euro 9.360,00 annui (art. 3, comma 4, D.L. n. 4/2019), per la concessione del beneficio, dal momento che il reddito percepito sarebbe di 180,00 euro settimanali, per un contratto di durata semestrale.
Il reddito di cittadinanza: cenni
La normativa vigente (art. 1D.L. n. 4/2019), istituisce il reddito di cittadinanza, descrivendolo “quale misura unica di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, a garanzia del diritto al lavoro, nonché a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”.
L’istituto assume la denominazione di “pensione di cittadinanza” nel caso di nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni, adeguata agli incrementi della speranza di vita, fermi restando gli stessi requisiti di accesso e le stesse regole di definizione previsti per il reddito di cittadinanza, salva differente previsione. Nel caso di nuclei già beneficiari del Rdc, la Pensione di cittadinanza decorre dal mese successivo a quello del compimento del sessantasettesimo anno del componente del nucleo più giovane.
E’ prevista la possibilità che la pensione di cittadinanza possa essere concessa anche nei casi in cui, fermo restando il requisito dei 67 anni in capo ad uno o più componenti il nucleo familiare, ricorra anche il requisito della convivenza “esclusivamente con una o più persone in condizione di disabilità grave o non autosufficienza, …. di età inferiore al predetto requisito anagrafico”.
E’ riconosciuta ai nuclei familiari in possesso di taluni requisiti l’accesso al Reddito di cittadinanza (Rdc) e alla Pensione di cittadinanza (con alcune espresse e limitate esclusioni), regolando, altresì, i rapporti tra il beneficio in esame ed altri strumenti di sostegno al reddito.
In particolare, per l’accesso al beneficio concorrono cumulativamente diversi requisiti, con riferimento al criterio della residenza e del soggiorno, del reddito e del patrimonio e del godimento di beni durevoli.
Il Rdc può essere richiesto, dopo il quinto giorno di ciascun mese, presso il gestore del servizio integrato (di cui all’art. 81, co. 35, lett. b), D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133) (Poste Italiane S.p.A.).
La richiesta può essere effettuata anche in modalità telematica accedendo con SPID al portale www.redditodicittadinanza.gov.it.
Le richieste di Rdc possono essere presentate anche presso i Centri di assistenza fiscale previo convenzionamento con l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale.
Il modulo di domanda, predisposto (art. 5, co. 1, D.L. n. 4/2019), con provvedimento dell’INPS, sentito il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, è allegato alla circolare dell’INPS circolare n. 43, 20 marzo 2019, ed è pubblicato sul sito internet dell’Istituto, www.inps.it.
Le informazioni contenute nella domanda di Rdc devono essere trasmesse dagli intermediari all’INPS entro dieci giorni lavorativi dalla richiesta.
Ai fini del riconoscimento del beneficio, l’INPS verifica, entro i successivi cinque giorni lavorativi, il possesso dei requisiti per l’accesso al Rdc, sulla base delle informazioni disponibili nei propri archivi e in quelli delle amministrazioni collegate. Con riferimento alle informazioni già dichiarate dal nucleo familiare ai fini dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), il modulo di domanda rimanda alla corrispondente Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), a cui la domanda stessa è successivamente associata dall’INPS.
L’INPS, previa verifica dei requisiti, definisce la domanda entro la fine del mese successivo alla trasmissione della stessa all’Istituto.
Allo scopo di promuovere misure di politica attiva del lavoro, nonché l’inserimento nel mercato del lavoro dei soggetti a rischio di emarginazione sociale, il legislatore (art. 8D.L. n. 4/2019) introduce incentivi per i datori di lavoro che assumono, con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, i beneficiari del Reddito di cittadinanza (Rdc).
In particolare, la predetta disposizione stabilisce, in caso di assunzione a tempo pieno e indeterminato del beneficiario del Rdc, l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore – con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL – nel limite dell’importo mensile del Rdc, spettante al lavoratore all’atto dell’assunzione, con un tetto mensile di 780 euro.
La sentenza della Cassazione
Per la Corte di Cassazione il ricorso è infondato. I giudici di legittimità osservano che l’art. 7D.L. n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 26/2019, prevede, al comma 1, che «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni»; al successivo comma 2, è affermato che «L’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni».
La Cassazione osserva che entrambe le fattispecie, la prima delle quali caratterizzata dal dolo specifico, si configurano come reati di condotta e di pericolo, in quanto dirette a tutelare l’amministrazione contro mendaci e omissioni circa l’effettiva situazione patrimoniale e reddituale da parte dei soggetti che intendono accedere o già hanno acceduto al “reddito di cittadinanza”.
Si tratta, cioè, di una disciplina correlata, nel suo complesso, al generale “principio antielusivo” che, come più volte affermato dalla Cassazione (cfr. sentenza n. 18107 del 16 marzo 2017), s’incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 Costituzione, la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; per cui, la punibilità del reato di condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico. Tale essendo la ratio delle due fattispecie incriminatrici dell’art. 7D.L. n. 4/2019, deve ritenersi che le stesse trovino applicazione indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio e, in particolare, del superamento delle soglie di legge. Né la necessità di un tale accertamento emerge dalla formulazione letterale della disposizione, nella misura in cui questa si riferisce, al primo comma, «al fine di ottenere indebitamente il beneficio» e, al secondo comma, al complesso delle «informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio».
La Cassazione osserva che entrambi i riferimenti devono essere, infatti, intesi come diretti a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte dell’amministrazione erogante, sulla sussistenza dei presupposti per la concessione e il mantenimento del beneficio e a differenziarli da quelli irrilevanti, senza che possa essere lasciata al cittadino beneficiario la scelta su cosa comunicare e cosa omettere.
E ciò, perché, come visto, il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale, quale il reddito di cittadinanza, il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino e amministrazione, che sia ispirata alla massima trasparenza, come emerge anche dai successivi commi del richiamato art. 7, che disciplinano, non a caso, un’ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative.
Tale conclusione interpretativa si pone, del resto, in armonia con quanto già affermato dalla Cassazione in relazione alla fattispecie penale di cui all’art. 95D.P.R. n. 115/2002, in materia di patrocinio a spese dello Stato, a norma del quale «La falsità o le omissioni nella dichiarazione sostitutiva di certificazione, nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle comunicazioni previste dall’articolo 79D.P.R. n. 115/2002 comma 1, lettere b), c) e d), sono punite con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549,37.
La pena è aumentata se dal fatto consegue l’ottenimento o il mantenimento dell”ammissione al patrocinio; la condanna importa la revoca, con efficacia retroattiva, e il recupero a carico del responsabile delle somme corrisposte dallo Stato».
In particolare, secondo la Cassazione (cfr. n. 6591 del 27 novembre 2008), integrano il delitto di cui al richiamato art. 95 le false indicazioni o le omissioni, anche parziali, dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio. E tale orientamento ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva delle sezioni semplici (cfr. n. 40943 del 18 settembre 2015), la quale ha anche precisato che si tratta di un’interpretazione che non si pone in contrasto con la Costituzione e, in particolare, con gli artt. 2324 e 27, Costituzione perché attinge al generale dovere di lealtà dei cittadini verso l’amministrazione, che consente l’anticipazione della tutela penale attraverso l’utilizzazione dello strumento del reato di pericolo, fatta evidentemente salva l’esclusione della punibilità di condotte nelle quali manchi l’elemento del dolo, sia pure eventuale. Si tratta di affermazioni che possono trovare applicazione, in via analogica, anche in relazione alla disciplina fissata dall’art. 7D.L. n. 4/2019, la quale non si differenzia in maniera essenziale da quella dell’art. 95D.P.R. n. 115/2002, in quanto entrambe appaiono dirette a sanzionare la violazione del dovere di lealtà del cittadino verso I’amministrazione che eroga una provvidenza in suo favore e non prevedono, perciò, la necessità di accertare la sussistenza in concreto dei requisiti reddituali di legge.
Per la Cassazione i principi appena affermati trovano applicazione anche nel caso di specie, in cui la ricostruzione fornita dalla difesa appare, comunque, ampiamente smentita dalla successione dei fatti, come correttamente riportati nell’ordinanza impugnata.
La Cassazione, in conclusione, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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