04/01/2018 – Strane definizioni di produttività nella pubblica amministrazione

Strane definizioni di produttività nella pubblica amministrazione

 
Pubblicato il 3 gennaio 2018  di Luigi Oliveri

 

Egregio Titolare, poco tempo addietro avevamo appreso che la produttività fosse qualcosa di trascurabile. Se, tuttavia, poteva aleggiare il sospetto che oltre ad apparire un dettaglio poco importante, il concetto stesso di produttività non fosse del tutto chiaro, ora ne abbiamo la conferma grazie all’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore il 2 gennaio 2018 dal sottosegretario alla Funzione Pubblica, Angelo Rughetti.

 

L’intervistatore rileva che la pre-intesa del contratto collettivo nazionale per ora limitata ai soli 250.000 circa dipendenti di ministeri ed agenzie, sia poco orientata alla produttività, tanto che gli 85 euro lordi di incremento medio sono stati tutti destinati agli incrementi della parte fissa delle retribuzioni; e chiede se per caso si sia persa di vista la mitologica valorizzazione del merito.

Il sottosegretario, però, non ha dubbi e nega l’assunto: “noi abbiamo mantenuto quel criterio, e con il contratto identifichiamo che cosa significa “produttività”. In questo ambito rientrano per esempio anche le indennità di turno, perché se si tiene attivo un ufficio per un numero di ore più ampio si aumenta la “produttività” del servizio”.

Ecco, caro Titolare. Grazie a questa intervista scopriamo un postulato che era sfuggito: produttività “significa” ampliare il numero delle ore lavorative: dunque, introdurre un turno in più o anche solo limitarsi ad estendere in ogni caso l’orario di apertura degli uffici (al pubblico, si spera) significa essere maggiormente produttivi.

Queste poche parole che sintetizzano la visione del concetto di “produttività” che da anni ed anni viene propugnata nella pubblica amministrazione spiegano meglio di qualsiasi altro il perché dei continui fallimenti di ogni tentativo di ragionare di produttività nell’amministrazione pubblica.

Persino questi pixel, gentilmente ospitati, abituati a ragionare da borbonici legulei sanno che la produttività è una grandezza piuttosto complessa, composta da rapporti. In termini generali, la produttività è quella frazione che al numeratore ha la quantità del prodotto realizzato (output) e al denominatore le risorse impiegate allo scopo, come capitale e lavoro (input).

Ragionare di produttività parlando soltanto di un elemento del complesso rapporto che sta sotto, e cioè delle ore di lavoro, non può che fuorviare.

Come dice, Titolare? Le viene in mente il paradosso del barman? Sì. A proposito di produttività, ci si chiede se sia da considerare più bravo e produttivo il barman che sa fare 100 caffè al giorno, o il barman che sa vendere 100 caffè al giorno. È evidente che per vendere 100 caffè bisogna saperli fare, ma che saper fare 100 caffè non significa necessariamente venderli tutti.

Questo paradosso spiega la complessità che sta dietro al concetto di produttività; complessità che richiede la capacità di analizzare con chiarezza quali siano i costi da affrontare per realizzare i “prodotti” e, simmetricamente, quali siano le modalità per incrementare la produttività o riducendo gli input, o aumentando gli output o con azioni combinate tra i vari fattori.

Pensare che la produttività sia collegata esclusivamente all’incremento dell’orario di apertura degli uffici è molto diffuso nell’ambito del sistema del lavoro pubblico. L’Aran, l’agenzia che negozia i contratti collettivi nazionali di lavoro con i sindacati, con un parere del 18 giugno 2015 ebbe a sostenere la possibilità di finanziare proprio indennità di turno con risorse da destinare a piani di miglioramento della produttività che prevedessero l’ampliamento degli orari d’ufficio.

Nessuno pare porsi la domanda fondamentale: ma, l’incremento dell’orario di apertura degli uffici (che, si ribadisce, si spera sia riferito all’orario di apertura al pubblico) serve a qualcosa o a qualcuno?

Proprio perché la produttività non può che essere il rapporto tra output ed input, l’estensione di un turno può avere un senso esclusivamente se correlata alla rilevazione della necessità di erogare i servizi necessari anche durante il maggior periodo di apertura. Altrimenti, ovviamente si tratterebbe di una misura organizzativa solo fine a se stessa, capace esclusivamente di incrementare gli input, senza alcuna attenzione agli output.

Il problema, caro titolare, è che fin troppo di frequente nella pubblica amministrazione vengono considerati “progetti di produttività” idee come questa.

La riforma Brunetta aveva creato la Civit (Commissione Indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), ente che avrebbe dovuto avere il compito di elaborare strumenti da estendere a tutte le pubbliche amministrazioni per formulare piani di incremento della produttività, mediante indicatori di risultato chiari e precisi. Non se ne è fatto nulla, la Civit è anche stata chiusa e nessuno si interessa minimamente della questione.

Sicché, ci si trova ancora di fronte a formulazioni equivoche o imprecise, che scambiano per produttività un semplice incremento del fattore lavoro, slegato dagli effetti in termini di maggior prodotto, soprattutto perché la pubblica amministrazione conosce poco quello che produce e, dunque, nemmeno riesce a misurarlo.

 

Forse, il problema è che molte volte non è nemmeno chiaro che parte rilevante delle attività della pubblica amministrazione più che da valutare in base alla produttività, sarebbero da misurare in termini di capacità reale di fronteggiare i fabbisogni connessi all’esercizio di diritti. Aumentare l’orario di lavoro di servizi di reperibilità, protezione civile, sicurezza, istruzione più che un incremento di produttività è semplicemente l’adempimento a doveri istituzionali.

Accanto al tema della produttività, dunque, occorrerebbe tenere ben presente che molti dei servizi resi dalla pubblica amministrazione sono doveri e che il primo tra tutti i risultati consiste nel saperli rendere. La produttività, poi, va misurata sul come li si rendono, con quali tempi, costi e metodi.

Allo scopo, sarebbe sufficiente estendere alla PA alcuni dei chiari e misurabili parametri considerati come risultati di produttività, previsti dal decreto interministeriale 25 marzo 2016 che regola gli sgravi del salario di produttività per le aziende private, come ad esempio rapporto tra fatturato e numero dei dipendenti (facilmente modificabile nelle PA in rapporto tra spese correnti e numero dei dipendenti), oppure indici di soddisfazione o riduzione dei tempi di lavorazione.

Ma, caro Titolare, in un ordinamento nel quale si esclude che la PA possa usufruire degli sgravi per il salario di produttività, ragionare appunto di produttività, indicatori, rapporti, risultati e merito non può che risultare difficile.

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