03/04/2018 – La responsabilità erariale non si trasmette agli eredi se i beni in successione sono «puliti»

La responsabilità erariale non si trasmette agli eredi se i beni in successione sono «puliti»

di Domenico Irollo

 

Se si dimostra che il patrimonio successorio si è costituito in capo al de cuius in tempi non sospetti e antecedenti alla condotta illecita dello stesso, che ha causato il danno erariale, gli eredi non possono essere chiamati a risarcire l’amministrazione danneggiata. A sancire l’innovativo principio è la sezione d’appello per la Regione Siciliana della Corte dei conti con la sentenza n. 53/2018.

Il caso 

La vertenza riguardava il caso della titolare di un’azienda agricola che aveva indebitamente percepito contributi europei Feaga (Fondo europeo agricolo di caranzia) dichiarando falsamente di avere la disponibilità giuridica di vari appezzamenti di terreno. Dopo il primo grado di giudizio la donna era stata condannata a ristorare l’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) 62mila euro circa in relazione a esborsi risultati non spettanti, riferiti alle annualità dal 2005 al 2012. 

La convenuta aveva proposto appello contro la condanna ma durante il processo la donna era deceduta. Il giudizio veniva quindi riassunto dal Pm contabile nei confronti dei quattro figli della defunta, suoi successori legittimi, atteso che il requirente riteneva sussistessero i presupposti contemplati dall’articolo 1, comma 1, della legge 20/1994. Questa norma subordina la trasmissione agli eredi del debito risarcitorio da danno erariale a due concorrenti condizioni: l’illecito arricchimento del dante causa e il conseguente indebito arricchimento dei suoi eredi, da intendersi come conseguimento di un concreto vantaggio economico, quale effetto diretto dell’arricchimento del loro dante causa, senza il quale, cioè, il patrimonio avrebbe avuto un valore inferiore.

La decisione 

Il collegio giudicante ha però respinto l’istanza risarcitoria della Procura generale valorizzando le prove fornite dagli eredi i quali avevano documentato come i beni ricompresi nell’asse ereditario loro devoluto a seguito della scomparsa della madre erano stati da questa acquisiti in epoca anteriore all’arco temporale (2005-2012) a cui risalivano i profitti illeciti in frode all’Erario, né lei aveva disposto donazioni in favore della prole dal 2005 in poi. 

I fratelli, inoltre, erano divenuti economicamente indipendenti parecchi anni prima del decesso della madre, svolgendo tutti attività lavorative retribuite, idonee ad assicurare loro redditi adeguati alle esigenze di vita personali e delle rispettive famiglie. Pur potendosi ipotizzare, pertanto, che la donna avesse tratto, a suo tempo, un illecito profitto personale, non vi era però prova che, all’epoca della sua morte, il patrimonio rientrante nell’asse ereditario avesse oggettivamente una consistenza maggiore di quella che presumibilmente avrebbe avuto ove non vi fosse stato l’illecito arricchimento.

L’interpretazione prevalente 

Sul punto la giurisprudenza contabile maggioritaria si è orientata diversamente, sostenendo al contrario che la ridotta consistenza patrimoniale dell’eredità, ovvero il fatto che il de cuius abbia lasciato soltanto beni acquistati prima del suo illecito arricchimento, sono circostanze inidonee a superare la presunzione di indebito arricchimento degli eredi. Secondo questa interpretazione, in presenza di un profitto illecito, anche un minor passivo ereditario configura il presupposto in questione, giacché quello che perviene agli eredi è pur sempre un patrimonio arricchito. A questo proposito, giova difatti rimarcare che una volta accertato l’arricchimento illecito del dante causa, l’indebito arricchimento degli eredi si presume fino a prova contraria, spettando pertanto agli aventi causa dimostrare che dall’illecito non sia derivato loro alcun vantaggio patrimoniale.

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