02/01/2019 – Mobilità senza nulla osta? Un’insensatezza che spesso riaffiora

Mobilità senza nulla osta? Un’insensatezza che spesso riaffiora

Nel disegno di legge delega di riforma della PA (qualcosa di molto diverso dalla “concretezza” minimale alla quale l’inquilina di Palazzo Vidoni aveva pur dichiarato di ispirarsi) riemerge un’idea già altre volte ipotizzata e, per fortuna, mai realizzata: eliminare il nulla osta come condizione della mobilità.

Si tratta di un’idea del tutto insensata, per quanto goda di larghi favori nella pubblica amministrazione, tendenzialmente da due tipologie di soggetti:

a)      i vertici, tanto politici quanto tecnici, delle amministrazioni, che così si esentano dal dover effettuare procedure concorsuali e inoltre possibilmente riescono ad “orientare” le mobilità così da scegliere chi meglio loro aggradi; e non sempre la scelta risulterebbe orientata verso i migliori, ma alte sarebbero le possibilità di designazioni dovute a “comune sentire” politico;

b)      molti dipendenti, per i quali si aprirebbe la possibilità di andare da un ente all’altro con piena libertà, aspetto non secondario quando per qualsiasi ragione la sede di lavoro non risulti pienamente gradita o soddisfacente.

Queste ragioni sono puramente speculative ed “egositiche”. Per quanto rispettabili, infatti, sono guidate da interessi esclusivamente circoscritti alla sfera dell’ente “ricevente” o a quella personale del dipendente. E’ molto da dubitare, però, della possibilità di attribuire a queste ragioni anche dignità di perseguimento di interessi pubblici collettivi.

Non v’è, infatti, dubbio che la “liberalizzazione” della mobilità comporti lesioni molto forti alla stabilità organizzativa delle amministrazioni pubbliche. Se un’amministrazione “ricevente”, per le ragioni viste sopra, si può considerare soddisfatta dal sistema “liberalizzato”, simmetricamente l’amministrazione dalla quale proverrebbe il dipendente si ritroverebbe priva di una pedina lavorativa e con la necessità di ripristinare l’organico. Magari, ricorrendo a quel punto a sua volta a procedure di mobilità, che inciderebbero sull’organizzazione di una terza amministrazione e così via.

Ogni principio di programmazione dei fabbisogni e delle assunzioni salterebbe per aria. Nessuna amministrazione avvierebbe la gestione operativa con un minimo di certezza sulle necessità del proprio organico, perché da un momento all’altro uno o più dipendenti potrebbero andar via grazie alla mobilità “liberalizzata”.

Il sistema previsto dal disegno di legge confida, evidentemente, su un’altra riforma, per altro anticipata dalla legge di bilancio 2019: la realizzazione di “concorsi unici” nazionali, che creino graduatorie molto ampie per profili professionali omogenei. Laddove questo sistema funzionasse, per le amministrazioni sarebbe possibile rimediare al vuoto di organico cagionato dalla mobilità “liberalizzata” non solo, quindi, attivando a propria volta una chiamata per mobilità, ma anche attingendo alla mega graduatoria nazionale.

Non è chi non veda, però, i gravi rischi organizzativi sottesi a questa eventualità. Infatti, per un verso occorre avere la prova nei fatti che il sistema dei concorsi unici nazionali sia capace di funzionare davvero presto e bene. L’esperienza sin qui vista per i simili strumenti di aggregazione degli appalti non conforta. Appalti enormi, per importi ed estensione territoriale, spesso si inchiodano per una singola vertenza di una ditta e non se ne esce. Da anni i soggetti aggregatori non sono in grado, ad esempio, di attivare una convenzione per gli arredi scolastici.

Basterebbe, quindi, il ricorso anche di un solo concorrente del concorso unico, per bloccare la procedura anche per anni: nel frattempo, le amministrazioni come potrebbero coprire il posto vacante? Solo con altra mobilità, innescando a catena altri disagi per altre amministrazioni.

In ogni caso, anche se il concorsone unico funzionasse, sarebbe necessario che la struttura centralizzata fosse capace di individuare tutte, ma proprio tutte, le figure professionali omogenee individuate dai fabbisogni delle pubbliche amministrazioni, per evitare buchi o scoperture. Cosa non semplice, visto che manca totalmente un data base dei profili professionali, risultando anche assente ancora una direttiva chiara su come determinarle; si aggiunga che la contrattazione collettiva ha – come era facile aspettarsi – mancato del tutto l’obiettivo posto dalla riforma Madia di rivedere i profili, con l’eccezione delle figure certamente non indispensabili connesse alla comunicazione istituzionale.

Sarà davvero capace una struttura centrale di indire concorsi per centinaia di figure professionali, soddisfacendo davvero i fabbisogni delle amministrazioni, in tempi rapidi, senza ricorsi e con piena efficacia?

La domanda è evidentemente retorica. Non vi è alcun dubbio che i tempi saranno lunghi, i ricorsi molteplici, gli stalli inevitabili.

Si dimentica, tra le suggestioni di mega sistemi centralizzati troppo grandi per poter funzionare senza intoppi e le istanze di tutelare presunti diritti alla mobilità dei lavoratori pubblici, che questi ultimi possono essere perseguiti dai dipendenti, senza alcuna forzatura ai sistemi e senza ledere i minimi principi di buona organizzazione. Nessuno, infatti, impedisce a ciascun dipendente pubblico che intenda avviare una nuova esperienza di lavoro nella PA di partecipare ai concorsi pubblici. In questo modo, il dipendente che risulti vincitore non ha bisogno di nessuna autorizzazione dell’ente di appartenenza: basta che si dimetta e prenda servizio presso quello nel quale ha vinto il concorso.

Allo scopo, forse, invece di inventare sistemi che finirebbero per indurre le amministrazioni a “rubarsi” i dipendenti tra loro, rendendo, si ribadisce, impossibile la programmazione e anche la stessa gestione in particolare negli enti di piccole dimensioni e con logistiche non fortunatissime (si pensi al problema irrisolto e quasi irrisolvibile delle sedi di segreteria dei comuni di piccole dimensioni), si potrebbe, ad esempio, pensare a sistemi di priorità nelle valutazioni di dipendenti pubblici che partecipino a concorsi pubblici per profili professionali simmetrici a quelli in godimento.

L’idea, invece, della mobilità senza nulla osta resta quello che è e che è sempre stata: un’insensatezza, come ha anche dovuto prendere atto chi ha preceduto l’attuale Ministro della Funzione Pubblica, quando nel 2014 fortunatamente recedette dall’idea di liberalizzarla. Un’idea assurda e dannosa, che però evidentemente a Palazzo Vidoni continua ad aleggiare.

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