18/01/2019 – Il Comune non risponde della propria inerzia per un contratto di cui è estraneo

Il Comune non risponde della propria inerzia per un contratto di cui è estraneo

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista

La Corte di Cassazione con l’ordinanza sentenza n. 31567, del 6 dicembre 2018, nel respingere il ricorso di alcuni privati nei confronti del Comune, ha affermato che l’ente locale non risponde della proprio inerzia se è chiamata in causa in un atto di cui risulta essere estranea.

Vediamo di analizzare l’interessante orientamento dell’ampia ordinanza emessa dalla Cassazione, riassumendo alcune aspetti di maggiore interesse per il presente commento.

Il contenzioso

Due cittadini privati chiamarono in giudizio nel corso del 2005, in Tribunale, il Comune chiedendone la condanna al risarcimento del danno (quantificato in quasi 5milioni oltre interessi e rivalutazione) da lesione del diritto di credito, sottoposto a condizione sospensiva, avente ad oggetto il maggior corrispettivo convenuto con terzo soggetto, per la cessione di quote societarie.

Tale lesione discendeva, in tesi, dal fatto che il Comune, adottando con ritardo provvedimenti amministrativi di propria competenza, aveva determinato il mancato avveramento della condizione pattuita.

Riassumendo molto sinteticamente la vicenda, era contestato al Comune il fatto che se si fosse fatto promotore dell’accordo di programma entro il termine del febbraio del 2000, come stabilito nel Protocollo d’intesa del luglio del 1999, questo sarebbe stato certamente concluso entro il dicembre del 2001 , e cioè entro il termine decennale previsto nel contratto di cessione di quote per l’avveramento della condizione cui era subordinato il loro diritto a un maggior corrispettivo.

Richiamata la giurisprudenza in tema di responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo, la Corte di merito ha rilevato l’insussistenza nella specie sia di un danno ingiusto, conseguente alla condotta della p.a., sia del coefficiente soggettivo richiesto per l’imputabilità a quest’ultima dell’evento dannoso.

Sotto il primo profilo, ha rilevato che:

– il Comune era estraneo al contratto di cessione di quote, e non poteva ritenersi vincolato al termine previsto per l’avveramento della condizione;

– essendo rimessa a sua volontà l’avveramento della condizione, ritenere che il mancato avveramento sia per essa fonte di responsabilità nei confronti della parte titolare della corrispondente aspettativa, significherebbe imputare al Comune una qualche responsabilità sul piano giuridico, che appare evidentemente inammissibile stante la sua completa estraneità agli assetti negoziali che dalla condizione direttamente e indirettamente scaturiscono.

La Corte del merito ha rilevato che il ritardato compimento di un atto amministrativo non può ritenersi fonte di responsabilità risarcitoria in modo automatico, occorrendo dimostrare, secondo la citata giurisprudenza, il dolo o la colpa dell’amministrazione, per il che l’appellante non ha apportato nel presente giudizio alcun elemento probatorio, ancorché di natura indiziaria.

Al riguardo non è senza rilievo, si soggiunge in sentenza, il fatto che nell’iter amministrativo non ha preso parte solo l’ente locale ma anche la Regione, con le conseguenti intuibili imputabilità a più soggetti dei vari segmenti che lo compongono nella sua interezza, oltre al fatto che non è rinvenibile un termine cogente per la sua definizione.

Avverso la sentenza sfavorevole i soggetti privati interessati si sono rivolti alla Cassazione con una serie articolata di motivazioni.

L’analisi della Cassazione

I giudici di legittimità evidenziano che i ricorrenti, con il primo motivo di ricorso , denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto applicabile alla fattispecie i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo.

Sostengono che tali principi postulano che la p.a. sia parte di un vero e proprio rapporto giuridico e non mero terzo e che, pertanto, nella specie, vertendosi in tema di tutela aquiliana del credito, i parametri per valutare l’ingiustizia e la colpa sono quelli dettati per tale diversa ipotesi.

Con il secondo motivo essi poi denunciano, violazione e falsa applicazione degli artt. 13531955 e 1356 c.c., nonché dell’art. 2043 c.c., con specifico riferimento al requisito della ingiustizia del danno.

Rilevano che, diversamente da quanto postulato in sentenza, la responsabilità del Comune non era stata dedotta per il mancato avveramento della condizione, dal momento che è indiscusso che il Comune è terzo rispetto al contratto di cessione di quote; essi piuttosto avevano dedotto che il colpevole ritardo con cui il Comune aveva dato avvio alla procedura finalizzata all’accordo di programma era stata la causa unica per cui la condizione apposta al contratto non si era avverata.

Per la Corte di Cassazione i sopra esposti motivi del ricorso principale, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono infatti manifestamente infondati.

La Corte territoriale pone in premessa e fa corretta applicazione del principio, ripetutamente affermato nella giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. civ. n. 500 del 1999), secondo cui il giudice ordinario, davanti a cui sia stata introdotta una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio di una funzione pubblica, deve procedere alle seguenti indagini:

a) in primo luogo, accertare la sussistenza di un evento dannoso;

b) stabilire, poi, se l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo);

c) accertare, inoltre, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della p.a.;

d) accertare, infine, se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., non soltanto sulla base del dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, ma anche sulla base del requisito soggettivo del dolo o della colpa, configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa e che costituiscono limiti esterni alla discrezionalità amministrativa , che ha respinto il ricorso della società danneggiata, la quale non aveva prospettato la sussistenza del carattere illegittimo e colpevole del comportamento del Comune, che non aveva eseguito le opere di urbanizzazione dopo averle rilasciato concessione edilizia ed aver riscosso il relativo contributo, ma si era limitata a sostenere la sussistenza di una vera e propria obbligazione del Comune ad eseguire dette opere.

L’assunto secondo cui tali principi postulano che l’amministrazione sia parte di un vero e proprio rapporto giuridico e non mero terzo è certamente destituito di fondamento.

Al contrario è univocamente presupposta, nella giurisprudenza di legittimità, la natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo i cui presupposti essa è diretta a chiarire.

I principi richiamati vengono dunque in rilievo ogni qual volta venga dedotto il diritto al risarcimento del danno, ex lege Aquilia (art. 2043 c.c.), in dipendenza di un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione.

In tali casi, l’esistenza di un rapporto peculiare che correli l’interesse del danneggiato con l’attività amministrativa e lo elevi rispetto a quello generico della collettività, rileva solo ove il danno di cui si chiede il risarcimento venga dedotto come conseguenza di una lesione di un interesse legittimo.

Per la Cassazione il danno da provvedimento illegittimo può conseguire anche dalla lesione di interessi, meritevoli di tutela per l’ordinamento, cui non si correli alcun interesse diretto, pretensivo o oppositivo, della parte all’azione amministrativa che sia come tale qualificabile in termini di vero e proprio interesse legittimo. Il principio affermato dalla citata sentenza della Cassazione (Cass. civ. n. 500 del 1999) va ben oltre l’affermazione, comunemente da essa tratta, della tutela risarcitoria degli interessi legittimi, condensandosi nella più ampia affermazione secondo cui “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante”.

I giudici di legittimità osservano che dopo tale precisazione ne deriva anche, per converso, che non v’è ragione alcuna, né logica né sistematica, che possa condurre a ritenere che gli altri presupposti della responsabilità extracontrattuale da provvedimento illegittimo, quali delineati dalla richiamata giurisprudenza, abbiano a mutare a seconda della natura dell’interesse leso (diritto soggettivo, interesse al bene della vita correlato all’interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante).

Ciò indubbiamente deve affermarsi, all’opposto di quanto argomentato dai ricorrenti, anche nel caso in cui l’interesse leso sia un diritto di credito (ovvero, come nella specie, altra situazione soggettiva giuridicamente tutelata) inerente a rapporto obbligatorio cui sia estranea l’amministrazione.

L’estraneità della P.A. rispetto al rapporto obbligatorio in ipotesi inciso dal provvedimento illegittimo non esclude infatti che il fondamento della sua responsabilità vada pur sempre ricercato negli stessi presupposti per i quali essa è affermata con riferimento alla lesione dell’interesse legittimo.

Per la Corte di Cassazione in ragione delle considerazioni deve, in definitiva, pervenirsi al rigetto del ricorso, con condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali .

Cass. civ., Sez. III, Ord., 6 dicembre 2018, n. 31567

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