05/04/2017 – Troppo facile sparare sul burocrate

Troppo facile sparare sul burocrate

Perché è sbagliata l’idea di uno Stato minimo come rimedio alle storture dell’apparato

La parola nasce in Francia, durante la prima metà del Settecento. La cosa prende forma all’alba dell’Ottocento, quando Napoleone istituì i prefetti. E il matrimonio fra la cosa (un apparato amministrativo centralizzato e organizzato) e la parola (burocrazia, ossia il potere degli uffici) genera il tipo d’uomo più deriso e detestato della storia: il burocrate, altrimenti detto burosauro. Da qui una galleria di personaggi scolpiti nel nostro immaginario collettivo.

Monsù Travet, protagonista d’una commedia rappresentata all’Alfieri di Torino nel 1863. Policarpo, interpretato da Renato Rascel in un film del 1959. L’impiegato statale con le sue mezzemaniche, di cui scrisse Courteline nel 1893. Ma l’archetipo è in Balzac, che intinse la penna nel veleno per denunziare la grettezza e l’inettitudine del burocrate: «Il suo cielo è un soffitto al quale indirizza i suoi sbadigli. Il suo elemento è la polvere» ( Les employés, 1838).

Più di recente, e sul versante meridionale delle Alpi, la burocrazia nutre una saggistica sempre più agguerrita, inflessibile verso le malefatte degli impiegati pubblici e dei loro dirigenti. La proverbiale inefficienza dello Stato italiano, d’altronde, arma un arsenale di argomenti. Uno su tutti: lo scippo di tempo e di energie causato dalle procedure burocratiche. Vi puntava l’indice un vecchio libro di Gian Antonio Stella ( Lo spreco, 1998). Torna alla carica, da ultimo, un saggio firmato da Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri ( I signori del tempo perso). Che lamenta, non a torto, l’eccesso di leggi e di leggine da cui deriva il potere discrezionale dei burocrati. Ma poi presenta una ricetta che consiste in una sforbiciata allo Stato, non soltanto alla legislazione. Sostituito da un sistema imperniato su arbitri e contratti privati, anziché su regole sorvegliate da funzionari pubblici.

E allora diciamolo: attenzione a non gettare via il bambino insieme all’acqua sporca. Altro è spendersi per uno Stato più leggero, altro è vagheggiare il ritorno allo Stato minimo, allo Stato «guardiano notturno» di cui parlò Lassalle nell’Ottocento. A quel tempo i poteri pubblici si limitavano a proteggere la vita, la proprietà, i commerci. C’era un problema, però: il problema degli esclusi. Giacché in Italia, fino al 1882, il diritto di voto veniva attribuito al 2 per cento appena della popolazione. Mentre l’eguaglianza era una parola ipocrita, come a sua volta denunziò Anatole France: «La legge, nella sua maestosa equità, proibisce tanto al ricco quanto al povero di dormire sotto i ponti».

Fu per reagire all’ingiustizia che l’umanità inventò lo Stato sociale, il Welfare State. E quest’ultimo estese le proprie funzioni alla previdenza, alla sanità, alla scuola. Moltiplicando norme e procedure, certo. E allevando un esercito d’impiegati pubblici. Ma chi lavora alle dipendenze dello Stato non è per ciò stesso un parassita. Lui (lei) è il maestro che accoglie i tuoi figli in prima elementare, è il medico del pronto soccorso, è il funzionario dell’Inps che ti paga la pensione. Sono loro, lo Stato. E sempre loro sono le prime vittime — non già i carnefici — dello sfascio in cui versa l’amministrazione pubblica.

Succede, del resto, anche nel microcosmo della giustizia, dove l’Italia è fanalino di coda tra i Paesi occidentali; eppure per guarirne i mali nessuno si sognerebbe d’abolire i giudici. O invece sì? Di questo passo, la liberalizzazione liberista rischia di liberare gli incubi.

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