30/11/2016 – Riforma Madia: il dettaglio della bocciatura

 
29.11.16 – Luigi Oliveri
 
 

La Consulta ha bloccato le parti della legge Madia che prevedono solo un parere non vincolante delle regioni su materie a potestà concorrente. Tutto parte dalla delega scritta male e dal non aver cercato correttivi prima della sentenza. Il problema è antico e la nuova Costituzione non l’affronta.

 

La sentenza della Corte

La sentenza della Corte costituzionale 251/2016, che ha bloccato parti fondamentali della riforma Madia, torna a mettere in evidenza alcuni difetti molto gravi del processo normativo.

Si tratta di vizi che la riforma della Costituzione non affronta, perché non derivano dal bicameralismo perfetto, bensì dalla complessiva qualità della produzione delle norme, piuttosto bassa non solo per responsabilità di governi e parlamenti, ma anche – e soprattutto – a causa di un non soddisfacente apporto degli staff tecnici.

In questo caso, la Consulta non ha “bocciato” la legge Madia perché abbia violato principi fondanti enunciati dalla Costituzione o da essa desunti. Ha invece accertato che la legge Madia (una delega legislativa al Governo per riformare molti punti della pubblica amministrazione: dalla dirigenza, alle società partecipate, dai “furbetti del cartellino” al Foia (Freedom of Information Act) è incostituzionale nelle parti nelle quali, sul solo piano procedurale, ha previsto il semplice parere non vincolante e non l’intesa con le regioni, nelle materie nelle quali si evidenziasse un intreccio molto forte tra potestà legislativa dello Stato e potestà concorrente o residuale degli enti territoriali.

Le “ingenuità” del governo

L’incidente procedurale era imprevedibile? La titolare del ministero delle Riforme, Marianna Madia, nell’intervista pubblicata dal Corriere della sera il 27 novembre ha negato che qualcuno abbia commesso errori sia politicamente, sia tecnicamente, sottolineando che la Consulta avrebbe modificato orientamento interpretativo. In sostanza, quindi, afferma che il governo sarebbe stato colto “di sorpresa” da una sentenza del tutto inaspettata. Ma simile conclusione può considerarsi persuasiva?

Certo, il caso di cambiamento repentino nell’indirizzo giurisprudenziale di per sé può essere elemento in qualche misura dirompente, perché modifica assetti che possono considerarsi acquisiti. Tuttavia, nel momento in cui si instaura una causa che riguarda sì un aspetto procedurale, ma che è fondamentale per una riforma di ampia portata, forse occorreva tenere conto dell’alea rappresentata da qualsiasi vertenza. In fondo, la Consulta si è pronunciata su un ricorso proposto dalla regione Veneto, che evidenziava esattamente il vizio di legittimità costituzionale (l’assenza dell’intesa obbligatoria) accertato dalla sentenza. Dunque, qualcuno, segnatamente la regione Veneto, si era accorto del possibile vizio di legittimità della legge Madia. La “sorpresa”, allora, per il cambiamento di indirizzo può essere giustificata, ma l’assenza di qualsiasi piano come “contromisura” appare a sua volta sorprendente.

È evidente che a Palazzo Vidoni e a Palazzo Chigi i tecnici, nel formulare il testo della legge Madia, non abbiano sufficientemente considerato l’obbligo di leale collaborazione tra stato e regioni, scrivendo in modo non corretto la legge delega e negando l’intesa tra stato e regioni. Poi, però, nessuno ha ritenuto di correggere il tiro mentre i decreti legislativi attuativi della riforma erano in corsa e il ricorso della regione Veneto già all’attenzione della Consulta. Né si è pensato a un “piano B”. Al contrario, per approvare in particolare i decreti attuativi della riforma della dirigenza pubblica e dei servizi pubblici locali il governo ha attesto a lungo, troppo, giungendo all’ultimo minuto all’approvazione finale, senza più tempo per rimediare a eventuali vizi.

Occorre evidenziare che nell’iter seguito, ai difetti tecnici si affiancano anche carenze di natura politica. Il ministro Madia sempre nell’intervista al Corriere afferma che nessuno sapeva nulla della sentenza, depositata il 25 novembre, ma adottata il 9, molti giorni prima. È evidentemente mancato un “filo diretto” con la Consulta, un dialogo aperto, non certo finalizzato ad avere contezza anticipata delle decisioni che il governo, in quanto parte controinteressata non avrebbe avuto titolo a conoscere prima della regione Veneto, ma, quanto meno, per apprendere che la decisione era stata adottata e che la sentenza sarebbe stata depositata praticamente in concomitanza (l’indomani) con l’approvazione dei decreti attuativi in Consiglio dei ministri, così da rendere impossibile sottoporli alla firma del Presidente della Repubblica.

Il malessere denunciato indirettamente dalla sentenza 251/2016 rivela, insomma, che i problemi dell’attività normativa non sono solo connessi al bicameralismo, ma hanno radici molto più profonde.

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