30/07/2019 – Decreto sicurezza – Il Giudice delle leggi censura (in parte) il decreto sicurezza

Decreto sicurezza – Il Giudice delle leggi censura (in parte) il decreto sicurezza

di Roberto Rossetti – Comandante Polizia Locale
Alcune regioni ricorrono alla Corte Costituzionale per sottoporle l’esame di alcune disposizioni del “decreto sicurezza”, D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, in L. 1 dicembre 2018, n. 132.
Vengono sollevate varie eccezioni di incostituzionalità e vengono riuniti in un solo giudizio i ricorsi agli artt. 21, comma 1, lett. a), nella parte in cui prevede l’ampliamento dei luoghi in cui può trovare applicazione il divieto di accesso in specifiche aree urbane (cosiddetto DASPO urbano), 21-bis, commi 1 e 2, che introduce misure di prevenzione basate sulla cooperazione fra gli esercenti i pubblici esercizi e le Forze di Polizia e 28, comma 1, che inserisce il comma 7-bis, all’art. 143 del T.U. Enti Locali (D.Lgs. n. 267 del 2000).
La censura dell’art. 21, lett. a) è limitata all’ipotesi che il soggetto possa essere colpito dal provvedimento di allontanamento anche da aree urbane in cui insistono “presidi sanitari”, giudicato provvedimento irragionevole e sproporzionato, perché comprime il diritto alla salute di persone che possono essere particolarmente bisognosi di cure, come chi sia colto in stato di ubriachezza (che è una delle specifiche condotte previste per l’allontanamento), con la lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost), delle competenze regionali in materia, del principio di leale collaborazione e incidendo sulla organizzazione delle strutture sanitarie, nonché perché si possono ingenerare dubbi sul diritto della persona sottoposta alla misura ad accedere alla struttura sanitaria.
La Corte osserva che il legislatore con il D.L. n. 14 del 2017, convertito con modificazioni nella L. n. 48 del 2017, per la tutela ed il decoro di particolari luoghi cittadini ha introdotto, sul modello del divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive (DASPO), regolato dall’art. 6L. 13 dicembre 1989, n. 401, la speciale misura dell’allontanamento del soggetto in stato di ubriachezza (art. 688 c.p.) o che compie atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.) o esercita il commercio abusivo (art. 29D.Lgs. n. 114 del 1998 e relative norme regionali) o l’attività di parcheggiatore abusivo (art. 7, comma 15-bis, D.Lgs. n. 285 del 1992 – C.d.S.) ed impedisce la fruibilità o l’accessibilità di talune aree e strutture specificatamente indicate dalla legge o introdotte dai comuni nei loro regolamenti di polizia urbana. L’art. 21, comma 1, lett. a), D.L. n. 113 del 2018 ha aggiunto a queste aree i “presidi sanitari”, nonché le aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli.
Pur eccedendo i limiti di riparto delle competenze legislative regionali, il ricorso è ritenuto ammissibile, ma non fondato, in quanto l’art. 10, comma 2, D.L. n. 14 del 2017, prevede espressamente che le modalità applicative devono essere compatibili con le esigenze di salute del destinatario dell’atto. Ciò comporta che tale soggetto può comunque fruire dei servizi sanitari per ragioni di cura, senza che gli sia precluso l’accesso, anche ove egli sia stato destinatario del provvedimento di allontanamento, che, però, gli preclude l’accesso per ogni altra ragione.
La persona che ricorre al “presidio sanitario” per usufruire di cure mediche (o prestazioni terapeutiche o di analisi e diagnostica), non può essere allontanata, né può essergli precluso l’accesso alla struttura, essendo il diritto alla salute prevalente sull’esigenza di decoro dell’area e di contrasto, per ragioni di sicurezza pubblica.
Così interpretata la disposizione censurata non pone alcun ostacolo alla fruizione delle prestazioni sanitarie da parte di chi ne ha bisogno, il cui diritto alla salute rimane pienamente tutelato e non vi è, in concreto, alcuna incidenza sull’organizzazione dei presidi sanitari, sicché non risulta violata la competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute, né il principio di leale collaborazione.
L’art. 21-bis, commi 1 e 2, D.L. n. 113 del 2018, è censurato da una sola Regione che lamenta l’indebita ingerenza nella competenza legislativa regionale in materia di commercio, in quanto (il comma 2) prevede che sia sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali e non invece la Conferenza unificata, come dovrebbe essere secondo la ricorrente.
La norma impugnata prevede che per la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno e nelle immediate vicinanze degli esercizi pubblici, con appositi accordi sottoscritti tra il Prefetto e le organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti, possono essere individuate specifiche misure di prevenzione, basate sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze di Polizia, cui i gestori medesimi si assoggettano. Tale comportamento collaborativo è valutato, quale esimente o circostanza attenuante, ai fini dell’adozione dei provvedimenti di sospensione o di revoca della licenza, previsti dall’art. 100 del T.U. delle leggi di P.S. (R.D. n. 773 del 1931), nel caso si verifichino tumulti o gravi disordini.
La Corte ritiene la questione fondata, in quanto queste misure di prevenzione pur ascrivibili alla materia dell’ordine pubblico e sicurezza, di competenza esclusiva statale, comportano una ricaduta sulla disciplina del commercio, di competenza legislativa residuale della Regione (art. 117, comma 4, Cost.), che deve, quindi, essere coinvolta. La mancanza di coinvolgimento della Regione nella formazione di tali linee guida costituisce lesione dei parametri evocati e comporta, in questa parte, l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis, comma 2, D.L. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni dalla L. n. 132 del 2018.
La Corte ritiene che la norma debba essere modificata, sostituendo, nel comma 2 del citato art. 21-bis, il riferimento alla Conferenza Stato-città e autonomie locali con quello alla Conferenza unificata Stato-regioni, città e autonomie locali, prevista dall’art. 8D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281., che, vedendo la partecipazione delle regioni, soddisfa l’esigenza di coinvolgimento delle stesse, in conformità al principio di leale collaborazione.
L’art. 28, comma 1, D.L. n. 113 del 2018 ha inserito, nell’art. 143 del T.U. degli Enti Locali, relativo allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali in conseguenza a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, il nuovo comma 7-bis, il quale prevede, nell’ipotesi di situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate, che il Prefetto, per far cessare le situazioni riscontrate e di ricondurre alla normalità l’attività amministrativa dell’ente, individua i prioritari interventi di risanamento indicando gli atti da assumere entro un termine stabilito, decorso inutilmente il quale, assegna all’ente un ulteriore termine per la loro adozione, non superiore a 20 giorni, scaduto il quale si sostituisce, mediante commissario ad acta, all’amministrazione inadempiente, con addebito delle spese.
La norma è stata impugnata da una sola Regione che denuncia una disciplina irragionevole, lesiva del principio di legalità, di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione e in violazione del principio costituzionalmente garantito dell’autonomia degli Enti Locali.
Nell’ambito dei controlli sugli organi comunali è prevista una misura governativa straordinaria di carattere sanzionatorio, dettata dall’esigenza di contrastare la criminalità organizzata mafiosa o similare, con il Prefetto competente per territorio che promuove l’accesso presso l’ente interessato, disponendo ogni opportuno accertamento e acquisendo anche informazioni dal Procuratore della Repubblica competente (il quale le comunica in deroga all’obbligo di segreto di cui all’art. 329 c.p.p.) e stila, sentito il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, una relazione finale che invia al Ministro dell’Interno, che nel caso riscontri “concreti, univoci e rilevanti” elementi indicativi del collegamento, diretto o indiretto, con la criminalità organizzata di tipo mafioso, può proporre lo scioglimento del consiglio comunale (o provinciale) interessato che è deliberato dal Consiglio dei Ministri e disposto con decreto del Presidente della Repubblica (art. 143, comma 4, T.U. Enti Locali).
Quando, invece, sono coinvolti il Segretario Comunale, i dirigenti o dipendenti a qualunque titolo dell’Ente Locale, il Ministro dell’Interno, su proposta del Prefetto, adotta ogni provvedimento utile a far cessare il pregiudizio in atto, ivi inclusi i provvedimenti riguardante il personale suddetto (quali la sospensione dall’impiego o la destinazione ad altro ufficio o altra mansione) con obbligo di avvio del procedimento disciplinare da parte dell’ente (art. 143, comma 5).
Ove non emergano elementi indicativi del collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso, il Ministro dell’Interno emana un decreto di conclusione del procedimento, in cui dà conto degli esiti dell’attività di accertamento (art. 143, comma 7).
La Corte osserva che la nuova procedura, introdotta dal nuovo comma 7-bis, muove proprio dall’esito negativo di tale procedimento, per prevedere uno sbocco intermedio, con la previsione di una misura non incidente sugli organi, che mira solo a correggere l’attività dell’ente causata da possibili infiltrazioni della criminalità organizzata, ma affidando al Prefetto un potere sostitutivo extra ordinem, ampiamente discrezionale, basato su presupposti generici e poco definiti, come tali non compatibili con l’autonomia costituzionalmente garantita degli Enti Locali.
L’autonomia degli Enti Locali richiede che i poteri sostitutivi previsti, quelli, cioè, che incidono nell’attività dell’Ente, siano sufficientemente determinati dalla legge e che l’eventuale sostituzione agli organi dell’ente sia riservato ad organi di rango costituzionale, invece la disposizione censurata lascia l’esercizio di un potere sostitutivo ampiamente discrezionale al livello amministrativo dei poteri del Prefetto, senza alcun coinvolgimento del Governo, come invece, nell’ipotesi prevista dall’art. 143, commi 1 e 4 e neppure del Ministro dell’interno, come previsto nell’ipotesi dell’art. 143, comma 5 del T.U. Enti Locali.
La Corte, ritenuto preliminarmente ammissibile il ricorso presentato, da una sola Regione, legittimata a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli Enti Locali, anche se non lede la competenza legislativa regionale (cfr. sentenze n. 220 del 2013n. 311 del 2012 e n. 298 del 2009), ritiene fondata, nei termini predetti, la questione di legittimità costituzionale prospettata per violazione degli artt. 597, comma 2, 114118, comma 2 e 120, comma 2, Cost, con la possibilità per il legislatore di riformulare la norma in termini compatibili con il principio di legalità dell’azione amministrativa e con la garanzia di autonomia costituzionalmente garantita di cui godono gli Enti Locali.

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