29/02/2020 – Diffamazione via mass media e social network, tutele e risarcimenti

Diffamazione via mass media e social network, tutele e risarcimenti
Requisiti, circostanze aggravanti e principali cause di esclusione del reato alla luce della prevalente giurisprudenza degli ultimi anni
Di Davide Longo – Avvocato
Pubblicato il 28/02/2020
 
Nell’era digitale in cui viviamo, comunicare è diventato sempre più semplice e veloce.
Una notizia pubblicata sul web, un post su un social network, un commento inappropriato su una chat di un gruppo facebook o di un gruppo “whatsapp” sono in grado di raggiungere facilmente un numero imprecisato di persone.
L’enorme effetto di “cassa di risonanza” delle informazioni pubblicate sul web, spesso a prescindere dalla loro effettiva veridicità, può risultare però alquanto pericoloso ogniqualvolta l’oggetto del messaggio diffuso abbia carattere denigratorio ed infamante nei confronti del suo destinatario.
Oggigiorno, il danno subito da una vittima di diffamazione per il tramite di mass media (TV, web, giornali) o di social network (Facebook, Linkedin, Twitter) può assumere un’entità ben più consistente rispetto al passato, ragion per cui diventa fondamentale conoscere, ed intraprendere, tutte le possibili vie di tutela da al fine di tutelarsi dagli attacchi diffamatori subiti.
L’obiettivo del presente elaborato è innanzitutto quello di illustrare cos’è la diffamazione da un punto di vista giuridico, nonché di individuarne i requisiti, le circostanze aggravanti e le principali cause di esclusione del reato, alla luce della prevalente giurisprudenza degli ultimi anni.
In secondo luogo, ci si soffermerà sulle strade possibili che la vittima di diffamazione potrà e dovrà percorrere allo scopo di tutelare la propria immagine e la propria reputazione morale e professionale, oltre che per ottenere il dovuto risarcimento dei danni.
Sommario
Cos’è la diffamazione e quali sono i suoi requisiti
A norma dell’art. 595 c.p. commette il reato di diffamazione “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” ed “è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032,00”.
In buona sostanza, i requisiti della diffamazione sono costituiti dall’offesa dell’altrui reputazione e dalla comunicazione con più persone.
1) L’offesa dell’altrui reputazione deve essere intesa come una lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali, di un individuo e si concretizza quando è lesa l’immagine, l’onore od il decoro di una data persona.
Nello specifico, secondo autorevole giurisprudenza, l’idoneità a ledere l’onore ed il rispetto di un individuo tramite l’utilizzo di parolacce o di espressioni volgari di vario tipo, deve essere valutata in rapporto alla personalità dell’offeso e dell’offensore, al contesto nel quale dette espressioni sono state pronunciate, nonché alla coscienza sociale (v. Cass. pen., sez. V, 14/02/2014, n. 14067).
Ciò che rileva però è la portata offensiva delle parole pronunciate e non tanto le parole in sé, per cui potrebbero essere obiettivamente ingiuriose anche quelle espressioni che non sono affatto volgari ma con le quali -ad esempio- si “disumanizza” la vittima assimilandola a cose o animali.
Al riguardo, in una sua recentissima pronuncia, la Corte Suprema ha annullato la sentenza di assoluzione dal reato di diffamazione emessa nei confronti dell’imputato di quel processo, il quale -in una chat di un gruppo “whatsapp”- aveva utilizzato il sostantivo “animale” per indicare in maniera spregiativa il bambino che aveva procurato una ferita al volto della figlia.
In particolare, nel caso di specie, la Corte ritenne che paragonare un bambino ad un “animale” assumesse indubbiamente portata offensiva e diffamatoria (v. Cass. pen., sez. V, 27/05/2019, n. 34145).
In secondo luogo, occorrerà valutare il contesto in cui la presunta offesa è stata perpetrata, ovvero l’ambito in cui le espressioni volgari -o comunque aventi portata offensiva- sono state pronunciate.
La Corte di Cassazione ha chiarito ad esempio che nell’ambito delle trasmissioni dedicate al c.d. “gossip” -caratterizzate dalla spettacolarizzazione del pettegolezzo- la continenza espressiva deve valutarsi secondo i parametri propri della critica di costume, la quale consente toni anche sferzanti purché non gratuiti e sempre pertinenti al fatto narrato ed al concetto da esprimere (Cass. pen., sez. V, 20/03/2019, n. 32829).
Al contrario, in tema di esercizio dell’attività giornalistica, si è stabilito che il carattere diffamatorio di uno scritto non può essere escluso sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni in esso contenute, dovendosi invece giudicare la portata complessiva del medesimo con riferimento ad alcuni elementi, quali sono l’accostamento e l’accorpamento di notizie, l’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico le intenderà in maniera diversa o contraria al loro significato letterale, il tono complessivo e la titolazione dell’articolo (Tribunale Milano sez. I, 13/06/2019).
2) Per quanto riguarda il secondo requisito, vale a dire quello della comunicazione con più persone, occorre chiarire che la trasmissione del messaggio diffamatorio a più soggetti potrebbe avvenire sia oralmente che per iscritto ma in ogni caso non è richiesta la contemporaneità della comunicazione.
In buona sostanza, ciò significa che potrà configurarsi il reato di diffamazione anche quando la comunicazione a più persone sia intercorsa in tempi diversi nonché con intervalli più o meno lunghi. 
In una sua recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio sopra illustrato in riferimento ad una fattispecie in cui era stata presentata una denuncia diffamatoria in busta chiusa (senza la dicitura “riservata personale”) che poi era stata indirizzata sia al Procuratore della Repubblica sia -per conoscenza- al Procuratore generale presso la Corte d’appello ed al Presidente della Corte d’Appello. In questo caso, essendo tale denuncia destinata ad essere conosciuta anche dagli addetti all’apertura ed allo smistamento della corrispondenza, la Corte ritenne integrato il reato di diffamazione (Cass. pen., sez. V, 08/03/2019, n. 30727).
In merito alla pubblicazione di post diffamatori sui social networks, su questa tematica è stato chiarito che anche postare un commento denigratorio su un qualunque social network (nel caso di specie la bacheca di Facebook) potrebbe configurare il reato di diffamazione, attesa l’idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento, tra l’altro nell’ambito di un gruppo di persone numericamente apprezzabile (Cass. pen., sez. V, 13/07/2015, n. 8328).
La stessa logica opera anche in riferimento all’utilizzo di un sito internet per la diffusione di immagini o di scritti atti ad offendere un soggetto, giacché essa dovrà ritenersi azione idonea a ledere il bene giuridico dell’onore, potenzialmente “erga omnes” (Tribunale Pavia sez. III, 14/03/2019, n. 468).
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Ciò chiarito in ordine ai requisiti del reato di diffamazione, si evidenzia che ai fini della configurabilità del reato di diffamazione la vittima non deve essere necessariamente identificata per nome e per cognome, essendo sufficiente che essa risulti individuabile (anche per esclusione ed in via deduttiva) nell’ambito di una categoria ristretta di persone.
In tal caso, sarà necessario che i soggetti destinatari del messaggio diffamatorio -per motivi personali o di lavoro- siano a conoscenza di alcuni particolari della vita privata della vittima, quali possono essere a titolo esemplificativo l’occupazione lavorativa, il giorno del compleanno, la nazionalità, ecc. ecc. (v. Cassazione penale sez. V, 10/04/2012, n. 30369). Sul punto, ad esempio, la giurisprudenza ha chiarito che può integrare il reato di diffamazione la condotta dell’imputato che sulla propria pagina personale di facebook aveva postato un commento denigratorio nei confronti di altro militare designato alla sua sostituzione, atteso che -nel corso dell’istruttoria- era emersa la piena individuabilità dell’offeso, in ragione dei riferimenti soggettivi (“collega”), temporali (“attualmente”), motivazionali (incorsa “defenestrazione” per “l’arrivo del collega”) e personali (stato coniugale) (v. Cass. pen., sez. I, 08/07/2015, n. 49066).
Quanto all’elemento soggettivo, il dolo del reato richiesto è quello generico, essendo sufficiente la consapevolezza del diffamatore di pronunciare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione, accompagnata dalla volontà che la frase denigratoria giungerà a conoscenza di più persone.
Come si è visto, infine, è necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone -o anche con una sola- ma con modalità tali che la predetta notizia verrà sicuramente a conoscenza di altri e che egli si rappresenti, e voglia, la realizzazione di tale evento (Tribunale Pescara, 07/01/2019, n. 4).
Circostanze aggravanti
La pena del reato di diffamazione potrebbe essere aumentata in presenza di circostanze aggravanti ed in particolare:
1) quando vi è stata attribuzione di un fatto determinato (comma 2) poiché in tale ipotesi l’offesa alla reputazione della vittima è maggiormente credibile e dunque ha una portata ben più lesiva di un’offesa del tutto generica;
2) quando l’offesa è stata arrecata a mezzo di stampa, pubblicità, o atto pubblico (comma 3), essendo ovvio che tali mezzi di propagazione delle notizie amplificano notevolmente il messaggio diffamatorio. La prevalente giurisprudenza equipara i social network ad un mezzo di pubblicità, riconoscendo quindi la diffamazione nella forma aggravata quando “il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o Facebook […]” (Cass. pen., V sez., n. 7904/19; Cass. pen. sez. V, 13/07/2015, n. 8328; Tribunale Pescara, 05/03/2018, n. 652);
3) quando l’offesa è stata arrecata ad un corpo politico, amministrativo, giudiziario, sua rappresentanza, autorità costituita in collegio (comma 4), reputandosi ancor più grave in tal caso il vilipendio delle istituzioni;
4) quando l’offesa ha finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso e nello specifico quando l’azione -per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui era collocata- risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in altri un analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori (v. Cass. pen, sez. V, 02/11/2017, n. 7859, relativamente ad una fattispecie in cui l’imputato aveva pubblicato un messaggio su “Facebook”, con cui invitava la persona offesa di etnia africana a ritornare nella “giungla”).
Le cause di esclusione del reato di diffamazione
Talvolta l’esigenza di evitare le offese all’altrui reputazione si scontra con differenti interessi, di importanza pari o maggiore, i quali rendono necessario stabilire quale di essi deve essere privilegiato.
In particolare, assume peculiare rilievo il bilanciamento effettuato dal legislatore tra il reato di diffamazione da un lato (di cui all’art. 595 c.p.) e la libertà della manifestazione del proprio pensiero (tutelata dagli artt. 21 Cost. e 51 c.p.) dall’altro.
A tal riguardo, l’ordinamento giuridico prevede una serie di cause di esclusione del reato di diffamazione (c.d. esimenti), ossia un ampio raggio di casistiche in cui l’offesa dell’altrui reputazione non configura alcun reato in presenza di determinate esigenze, ovvero di particolari situazioni tassativamente previste dalla legge.
Le tradizionali cause di esclusione del reato di diffamazione –le quali vengono in rilievo soprattutto nell’ambito della diffamazione a mezzo stampa, anche se esse sono applicabili a chiunque e non soltanto agli iscritti all’ordine dei giornalisti- sono costituite dal diritto di cronaca giudiziaria e dal diritto di critica.
A) Il DIRITTO DI CRONACA GIUDIZIARIA consiste nel diritto di raccontare accadimenti reali tramite mezzi di comunicazione di massa in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati ed esso è condizionato dall’esistenza dei seguenti presupposti:
1) la verità oggettiva o anche solo putativa della notizia pubblicata, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca che non sussiste quando -pur essendo veri i singoli fatti riferiti- siano dolosamente o anche soltanto colposamente taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; oppure, quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive, o da sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi, obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore (o ascoltatore) false rappresentazioni della realtà oggettiva.
Il giornalista ha dunque l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa e di accertare la verità del fatto pubblicato, essendo altrimenti responsabile dei danni derivanti dal reato di diffamazione, salvo che non provi la sua buona fede ai sensi dell’art. 59 c.p., ultimo comma.
L’art. 59 c.p. ultimo comma –infatti- esclude la punibilità del giornalista qualora avesse ritenuto per errore che esistessero circostanze di esclusione della pena, salvo che non si trattasse di un errore determinato da sua colpa.
Ad ogni buon conto, si è stabilito che la ricerca delle predette fonti informative deve essere seria ed approfondita, per cui gli studi effettuati tramite motori di ricerca od enciclopedie online, del genere “Wikipedia”, non sono stati ritenuti idonei a garantire la reale completezza informativa, risultando inapplicabile in tali ipotesi la scriminante del diritto di cronaca giudiziaria (Cass. pen., sez. V, 15/04/2019, n. 38896).
La cronaca giudiziaria, inoltre, è lecita soltanto quando si limiti a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé, ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale. Se invece le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario vengono utilizzate per ricostruzioni od ipotesi giornalistiche, tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti ed autonomamente offensive, il giornalista dovrà assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica (Tribunale Milano sez. I, 11/04/2019, n. 3592). Infatti, nel diritto di cronaca giudiziaria, il giornalista è chiamato ad un particolare rigore nel valutare l’attendibilità delle fonti e -nel dubbio circa la veridicità delle notizie rinvenute- è tenuto a non pubblicare alcunché, posto che in tali casistiche il diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) si scontra non solo con il diritto all’onore ed alla reputazione personale (artt. 2 e 3 Cost.) ma anche con il principio, anch’esso di rango costituzionale, della presunzione di innocenza dell’imputato fino alla condanna definitiva (art. 27 Cost.);
2) una seconda componente del diritto di cronaca giudiziaria è poi rappresentata dall’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, giacché la vicenda narrata non deve soddisfare una mera curiosità ma deve assumere rilevanza pubblica, anche quando parzialmente attinente alla vita privata del soggetto passivo;
3) un terzo ed ultimo requisito è infine quello della correttezza formale dell’esposizione (c.d. “continenza espressiva”), dato che le modalità espressive, pur offensive, devono essere pacate e contenute. In particolare, “lo scritto” non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire e deve essere improntato a serena obiettività con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio, e deve essere redatto altresì nel rispetto di quel minimo di dignità cui ha pur sempre diritto anche la più riprovevole delle persone (v. Corte appello Bari sez. III, 02/04/2019, n. 816).
B) Anche il DIRITTO DI CRITICA, come quello di cronaca, è soggetto a dei limiti: 1) la verità oggettiva dei fatti dichiarati; 2) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (nel senso che la critica non si deve risolvere in offese “gratuite”); 3) la c.d. continenza espressiva; 4) ed inoltre deve essere congruamente motivato.
1) A differenza del diritto di cronaca, il diritto di critica si concretizza nella manifestazione di un giudizio valutativo del tutto soggettivo rispetto ai fatti narrati, anche se è comunque necessario che i fatti posti a fondamento della stessa corrispondano a verità, magari non assoluta ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive (Cass. pen., sez. V, 18/04/2019, n. 21145; Cass. civ., sez. III, 06/04/2011, n. 7847; Tribunale Milano sez. I, 24/06/2019, n. 6128). Sul punto, la giurisprudenza ha più volte stabilito che il criticante -quando giunge ad accusare il criticato di veri e propri comportamenti antigiuridici- deve quantomeno indicare il fondamento fattuale delle sue accuse, nonché precisare dove abbia tratto il suo convincimento, in quanto se è vero che la critica è svincolata dal presupposto della verità non lo è il fatto che si intende criticare (nel caso di specie, veniva confermata la condanna per l’imputato che aveva accusato su Facebook l’impiegata comunale di aver favorito il fratello, Cass. pen., sez. V, 12/06/2017, n. 34160). I fatti ed i comportamenti cui la critica è riferita non devono essere inventati od alterati nel loro nucleo essenziale, o interpretati arbitrariamente in modo che l’opinione finisca per essere del tutto sganciata da quei fatti e comportamenti, poiché altrimenti si esorbiterebbe da una critica legittima (Tribunale Firenze, 15/05/2019, n. 1502). Ciò chiarito, non è però responsabile il giornalista qualora i fatti siano ascrivibili alle normali dinamiche giornalistiche, in cui l’autore dell’articolo -pur riportando fatti veri- ne offra una sua lettura anche critica e sulla quale incida, trattandosi di vicende politiche, l’orientamento del giornalista stesso (Tribunale Bergamo sez. lav., 20/06/2019, n. 445). Come per il diritto di cronaca, dato che la diffamazione non è configurabile nella forma colposa, laddove il presunto diffamatore diffonda le notizie ritenendole vere, mentre in realtà non lo sono, non sarà punibile in applicazione dell’art. 59 c.p, 4° comma (“Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”).
2) Anche per il legittimo esercizio del diritto di critica vige poi il presupposto dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto che però dovrà intendersi come interesse dell’opinione pubblica, anche solo di una categoria di soggetti, alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, bensì appunto della sua interpretazione critica (Tribunale Gela, 04/09/2019, n. 405). Come sopra accennato, inoltre, il requisito dell’interesse pubblico impone che la vicenda narrata non sia mirata a  soddisfare una semplice curiosità bensì assuma rilevanza pubblica, anche quando parzialmente attinente alla vita privata del soggetto passivo.
3) In tema di continenza espressiva, si è precisato che il diritto di critica -in quanto manifestazione dell’opinione personale dell’autore- non può essere per sua intrinseca caratteristica totalmente obiettivo e può manifestarsi anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente (Cass. civ., sez. III, 06/08/2007, n. 17180). La critica può essere esercitata utilizzando espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o da un comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (Tribunale Milano sez. I, 03/09/2019, n. 7953).
4) In ultimo, si osservi che il diritto di critica deve essere accompagnato da una congrua motivazione del giudizio di disvalore incidente sull’onore o sulla reputazione (Cass. civ., sez. III, 11/01/2005, n. 379), non potendosi invocare altrimenti detta esimente quando l’autore della pubblicazione abbia utilizzato affermazioni ingiuriose e denigratorie, o comunque abbia formulato attacchi puramente offensivi della persona oggetto della critica (Cass. civ., sez. III, 18/10/2005, n. 20138; Cass. civ., sez. III, 10/01/2012, n. 80).
C) Un’altra causa di esclusione del reato assai ricorrente attiene poi alla PROVOCAZIONE SUBITA DAL PRESUNTO DIFFAMATORE, ad opera della vittima dell’offesa.
Sul punto, l’art. 599 c.p. prevede espressamente che “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.
Al riguardo, si osservi che il requisito dell’immediatezza non deve intendersi come reazione attuata nello stesso preciso momento dell’offesa ma può consistere in una reazione successiva temporalmente, purché dipenda sempre dalla natura della ritorsione all’offesa (v. Ufficio Indagini preliminari Bari, 21/01/2015, in relazione ad un caso in cui le frasi diffamatorie scritte sul social network facebook erano diretta conseguenza alle offese rivolte in precedenza, né potevano ricondursi ad odio o rancore a lungo covati per ragioni ultronee ed estranee alla provocazione, né ancora il lasso di tempo intercorso, circa due ore, poteva considerarsi tale da escludere la consequenzialità tra le due condotte).
D) Un’ulteriore causa di esclusione del reato può verificarsi infine qualora le offese in questione erano necessarie ai fini della difesa in un giudizio ordinario o amministrativo, in forza del DIRITTO ALLA DIFESA costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost.
In particolare, secondo l’art. 598 c.p. “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo, non trova applicazione agli scritti, che non siano relativi ad una controversia giudiziaria o ad un ricorso amministrativo”.
A ben vedere però l’esimente di cui all’art. 598, comma 1, c.p. può configurarsi anche quando le espressioni offensive siano contenute in una diffida stragiudiziale, prodromica a successive iniziative legali e, ai fini dell’applicabilità del menzionato art. 598 c.p., deve essere esclusa la necessità che le offese abbiano anche un contenuto minimo di verità, o che la stessa sia in qualche modo deducibile dal contesto, giacché l’interesse tutelato è la libertà di difesa nella sua correlazione logica con la causa, a prescindere dalla fondatezza della argomentazione (Cass. pen., sez. V, 09/04/2019, n. 24452).
La diffamazione a mezzo social networks e siti internet
E’ assolutamente pacifico che il reato di diffamazione possa configurarsi anche quando il contenuto diffamatorio venga propagato attraverso social networks o siti internet, blog, ed altri canali telematici.
Anzi, ad onor del vero, si è visto che in tali ipotesi si configura anche la circostanza aggravante dell’utilizzo di un mezzo di pubblicità nella diffusione dei contenuti diffamatori, la quale determina un consistente aumento della pena base a carico del trasgressore.
Ciò chiarito, è innegabile che queste nuove fattispecie di reato pongano delle problematiche prima sconosciute, in special modo in tema di individuabilità dell’autore del reato.
A) Infatti, mentre non sorgono particolari problemi in merito all’identificazione della vittima di diffamazione, giacché vale quanto già illustrato in tema di diffamazione in generale, ossia che non occorre che la vittima sia stata identificata per nome e per cognome, purché risulti identificabile tramite altri elementi indiziari, lo stesso non potrà dirsi in merito all’identificazione dell’autore del reato. Infatti, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’attribuibilità del fatto al titolare dell’account da cui è stato scritto il commento diffamatorio non potrà essere l’unica prova, potendo lo stesso essere stato clonato od essere stato utilizzato da altri (Tribunale Pescara, 05/03/2018, n. 652). Al contrario, si reputa necessaria l’individuazione da parte delle autorità inquirenti del c.d. indirizzo “IP”, ovvero del codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, nel momento stesso della connessione ad una determinata postazione del servizio telefonico. L’indirizzo IP è di fondamentale importanza in quanto consente di individuare la linea da cui è stato pubblicato il contenuto diffamatorio e permette, altresì, di verificare la corrispondenza o meno a quella riconducibile al soggetto sospettato. Alla luce di quanto sopra, la giurisprudenza ha statuito in più occasioni che senza l’accertamento dell’indirizzo “Ip” di provenienza -cui riferire il messaggio che offende la reputazione- non potrà scattare la condanna per il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., occorrendo invece una puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria volta ad individuare il predetto indirizzo. Senza di esso, non si potrà ottenere il massimo grado di certezza possibile in merito all’attribuzione della responsabilità penale, potendosi difatti ipotizzare un utilizzo abusivo del nickname dell’account Facebook (Cass. Pen. sez. V, 22/11/2017, n. 5352). Tuttavia, è anche vero che sul tema parte della giurisprudenza ha ritenuto potersi desumere la riferibilità soggettiva del messaggio diffamatorio anche da differenti circostanze fattuali, quali potrebbero essere i pregressi e burrascosi rapporti lavorativi intercorsi tra le parti (Ufficio Indagini preliminari Livorno, 31/12/2012, n. 38912).
B) Un altro problema che ha impegnato a lungo la giurisprudenza degli ultimi anni riguarda poi la responsabilità penale del gestore di un sito internet o di un blog per i contenuti diffamatori ivi pubblicati da altri.
Al riguardo, la giurisprudenza ha teso ad escludere la responsabilità del blogger o del gestore del sito, quantomeno in quei casi in cui quest’ultimo non era stato messo a conoscenza del commento offensivo presente sul portale da lui gestito, oppure quando effettivamente era stato informato ma aveva provveduto con solerzia alla rimozione del contenuto contestato. In particolare, si è stabilito che “Il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente. In linea con i principi della responsabilità personale del blogger, è necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest’ultimo al significato dello scritto offensivo dell’altrui reputazione, adesione che può realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo” (Cass. pen., sez. V, 08/11/2018, n. 12546).
Un importante arresto giurisprudenziale che pare opportuno richiamare in relazione a questa tematica si ebbe con la sentenza della Corte di Cassazione penale n. 54946/16. Il caso della sentenza in commento, infatti, riguardava il gestore di un sito sportivo e concerneva un commento diffamatorio -pubblicato da un utente su una community- il quale definiva l’ex presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio (Carlo Tavecchio) come un “emerito farabutto” e “pregiudicato doc”, allegando al commento anche il relativo certificato penale del soggetto diffamato.
In seguito, nei giorni successivi alla pubblicazione del messaggio, sulle pagine della Community era apparso un messaggio del gestore del sito, il quale aveva scritto e pubblicato un articolo che richiamava il precedente commento, difendendolo pubblicamente e reputandolo non diffamatorio nei confronti dell’ex Presidente della FIGC. Ebbene, la Corte di Cassazione –a conferma dell’impugnata sentenza della Corte d’Appello che si era già pronunciata negli stessi termini– aveva rilevato che la conoscenza da parte del gestore del sito dell’esistenza del messaggio pubblicato dall’utente della community, nonché la sua scelta consapevole di lasciarlo online, avevano costituito un presupposto sufficiente per l’accertamento della responsabilità del gestore del sito, in quanto si era così reso corresponsabile con l’autore del commento (ai sensi dell’art. 110 c.p.) del reato di diffamazione aggravata. Quindi, nel caso di specie la Corte di Cassazione non ha stabilito affatto che il gestore del sito internet, in generale, ha l’obbligo giuridico di eliminare i contenuti diffamatori a pena di corresponsabilità nel reato ex art. 40 c.p., bensì si è limitata a rilevare un’ipotesi di responsabilità in concorso di persone, fondata sulla consapevolezza del gestore del sito di mantenere on-line il commento diffamatorio, poiché aveva assunto le difese dell’autore del commento rafforzandone l’intento criminoso. Alla luce di quanto sopra, la Corte di Cassazione aveva confermato in toto la sentenza impugnata la quale, oltre a condannare il titolare del sito per il reato di diffamazione in concorso con l’autore del commento, lo aveva altresì condannato al risarcimento dei danni liquidati nella misura di € 60.000,00. In definitiva, se il blogger o il gestore di un sito, seppur sollecitato, non dovesse procedere a rimuovere un commento denigratorio della reputazione altrui, occorrerà valutare se la sua inerzia fosse stata dettata da semplice indolenza o se celi, invece, una volontà di adesione al commento diffamatorio, dovendosi ascrivere a suo carico -in quest’ultimo caso- una responsabilità penale per diffamazione in concorso con l’autore materiale del commento.
Del resto, è una logica che la Corte Suprema aveva già sposato in passato in riferimento ad una trasmissione televisiva in cui il conduttore aveva aderito, facendole proprie, alle tesi diffamatorie di uno dei suoi ospiti (nel caso di specie era stato condannato in concorso di colpa il conduttore di una trasmissione televisiva il quale, avallando una tesi espressa dai genitori di una ragazza assassinata presenti come ospiti del programma, aveva offeso la reputazione del pubblico ministero assegnatario di un precedente procedimento nei confronti dell’omicida in cui, contro l’avviso del dirigente della squadra mobile, non aveva chiesto l’adozione di misure cautelari per l’insufficienza degli indizi, insinuando che tale magistrato calibrasse i propri impegni a seconda di chi si trovava davanti, v. Cass. pen., sez. V, 21/01/2016, n. 24727).
C) Anche il prestato consenso alla pubblicazione di un dato contenuto su un sito web o su social networks potrebbe non “salvare” dal reato di diffamazione, qualora il materiale di cui si era autorizzata la pubblicazione dovesse essere divulgato in contesti o per finalità completamente differenti da quelle che avevano indotto la vittima a prestare il suddetto consenso. In particolare, si è affermato che potrebbe configurare il reato di diffamazione anche la pubblicazione in un sito internet di immagini fotografiche (nel caso di specie le fotografie ritraevano una persona in atteggiamenti pornografici), in un contesto e per destinatari diversi da quelli in relazione ai quali era stato precedentemente prestato il consenso alla pubblicazione (Cass. pen., sez. III, 19/03/2019, n. 19659; in senso conforme Cass. Pen., sez. 05, del 19/06/2008, n. 30664). Dunque, sottoscrivere il consenso alla pubblicazione di contenuti non significa firmare una liberatoria “in bianco” in grado di consentire la divulgazione indiscriminata degli stessi ma occorrerà analizzare attentamente il contenuto di tale liberatoria.
D) Un’altra questione che ha molto impegnato la recente giurisprudenza concerne poi i commenti pubblicati su siti o portali di recensioni (TripAdvisor, Airbnb, ecc.) in cui, come è noto, gli utenti possono manifestare un’opinione personale in merito ai servizi di cui hanno usufruito, esprimendo un giudizio che assumerà notevole rilevanza ai fini dello sviluppo dell’attività commerciale o professionale prestata. Sul punto, si è sostenuto che l’ironica recensione di un locale pubblico pubblicata online dagli avventori insoddisfatti non potrà integrare gli estremi del reato di diffamazione, giacché il gestore di un esercizio pubblico, operando sul mercato, accetta anche il rischio che i propri servizi non siano graditi e vengano pertanto criticati (Tribunale Pistoia, 16/12/2015, n. 5665).
E) Altra problematica che pare essere stata definitivamente risolta dalla giurisprudenza pressoché prevalente, riguarda l’assoggettabilità della normativa in materia di pubblicazioni a mezzo stampa ai giornali telematici.
Ebbene, si è ritenuto a tal proposito che il giornale telematico -a differenza dei diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, facebook- fosse soggetto alla normativa sulla stampa perché ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea e rientri, dunque, nella nozione di “stampa” di cui all’articolo 1 della legge 8 febbraio 1948 n. 47. Da ciò ne consegue, pertanto, la conseguente configurabilità della responsabilità ex articolo 57 del codice penale ai direttori della testata telematica (da queste premesse, la Corte, nel ribadire che il giornale telematico non può sottrarsi alle garanzie e alle responsabilità previste dalla normativa sulla stampa, ha ritenuto che potesse ravvisarsi la responsabilità del direttore responsabile per il reato di omesso controllo ex articolo 57 del codice penale, v. in particolare Cass. pen., sez. V, 23/10/2018, n. 1275).
Il risarcimento dei danni da diffamazione
A seconda dell’entità e della diffusione del messaggio denigratorio, la diffamazione può generare un danno nei confronti della vittima che potrà assumere una natura sia patrimoniale che non patrimoniale.
Ai fini di fornire la prova del danno patrimoniale subito, sarà importante presentare in giudizio una certificazione del commercialista della vittima, il quale attesti la consistente riduzione dei redditi conseguente al fatto diffamatorio, nonché eventuale documentazione e richieste di testimonianze volte a dimostrare eventuali perdite di importanti occasioni lavorative esclusivamente a causa all’attacco diffamatorio subito.
In tema di onere della prova dei danni non patrimoniali –invece- si è affermato che anche quando essi siano stati determinati dalla lesione di diritti inviolabili della persona (quale è il diritto al proprio onore, nel caso della diffamazione), comunque non potranno essere automaticamente riconosciuti (c.d. in re ipsa), costituendo al contrario un danno-conseguenza che dovrà essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento (Tribunale Palermo sez. I, 07/05/2019, n. 2259). La questione è tuttavia controversa atteso che vi sono state anche delle pronunce di segno opposto relative alla stessa tematica (v. Corte appello Palermo sez. III, 05/06/2019, n. 1153). Ad ogni buon conto, sul punto potrebbe assumere rilevanza un’eventuale perizia psichiatrica la quale accerti i danni subiti dalla vittima in conseguenza della diffamazione anche se –ovviamente- occorrerà valutare nel caso concreto la portata e l’entità della diffamazione al fine di comprendere se tale danno possa in effetti ricondursi ad una conseguenza della lesione dell’onore subita dalla vittima, oppure ad altre e differenti ragioni. Inoltre, un’altra potenziale prova del danno non patrimoniale potrebbe essere fornita tramite testimonianze, in particolare quando si voglia dimostrare il danno alla vita di relazione nel proprio ambito di conoscenze subito dalla vittima, ovvero quando ella -in conseguenza dell’attacco diffamatorio- non sia più in grado o quantomeno abbia gravi difficoltà a relazionarsi con gli altri.
Limitatamente al caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, un’altra ipotesi di danno è poi quella prevista all’art. 12, l. 47/1948 (Legge sulla stampa), il quale dispone che nel caso la persona offesa possa chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del c.p., anche una somma a titolo di riparazione, da determinarsi in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato 
In riferimento poi al tema della quantificazione del danno da diffamazione, si è chiarito che idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa, nonché dalla posizione sociale della vittima. Peraltro, valorizzando siffatte coordinate ermeneutiche, sarà possibile far assurgere a criteri presuntivi di verificazione del danno non patrimoniale la diffusione dello scritto attraverso il social network Facebook, il quale è idoneo a diffondere il messaggio pubblicato lesivo anche attraverso il sistema delle cd. condivisioni, ben oltre la cerchia di cd. amici della titolare del profilo (Tribunale Potenza, 19/10/2018, n. 864). In particolare, in tema di danni da diffamazione a mezzo stampa, si è stabilito che il danno deve essere quantificato in relazione alla diffusione del giornale, alla rilevanza dell’offesa (quale, ad esempio, l’attribuzione di un reato) nonché alla posizione sociale del soggetto diffamato (Tribunale Firenze sez. I, 22/10/2018, n. 2826).
In ultimo, si osservi che il pregiudizio arrecato all’onore ed alla reputazione del defunto si estende ai prossimi congiunti (nel caso specifico alla madre), i quali ne subiscono un danno diretto ed immediato ed hanno diritto alla tutela dell’onore e della dignità del parente defunto (Tribunale Lucca, 06/09/2019, n. 1213).
Come tutelarsi dagli attacchi diffamatori
E’ il caso infine di soffermarsi su come la vittima di attacchi diffamatori possa tutelarsi, chiarendo che si tratta soltanto di suggerimenti a titolo generico che in alcun modo possono sostituire il parere di un professionista qualificato.
Si è visto innanzitutto che la diffamazione ha rilevanza penale essendo prevista dal nostro ordinamento come reato ma ciò malgrado essa può assumere anche valenza civilistica. Invero, la vittima di attacchi diffamatori sarà libera di scegliere se sporgere querela e costituirsi parte civile nel procedimento penale richiedendo il risarcimento dei danni in tale sede, oppure se adire soltanto le vie giudiziarie civili, precisandosi che se la vittima dovesse decidere di agire soltanto civilmente, non sarà preclusivo in alcun modo il fatto di non avere sporto querela nei confronti dell’autore del reato. Tra l’altro, nell’ipotesi in cui la vittima abbia agito sia civilmente che penalmente, l’eventuale esito assolutorio del giudizio penale, quand’anche definitivo, non avrà alcuna influenza nel giudizio civile di danno laddove quest’ultimo sia iniziato anteriormente alla pronuncia della sentenza penale di primo grado e l’azione civile non sia stata trasferita nel giudizio penale, nell’esercizio di una libera facoltà del soggetto danneggiato.
La tutela in sede penale
Per agire penalmente, la vittima di diffamazione dovrà sporgere formale querela entro il termine di tre mesi dai fatti di reato e dopodiché dovrà valutare se attendere la prosecuzione del procedimento penale e costituirsi parte civile nel medesimo, richiedendo il risarcimento dei danni in questa sede, ovvero se agire civilmente. In sede penale, tra l’altro, si è ritenuto che la vittima potrà chiedere il sequestro preventivo del sito o della pagina telematica (ad es. una pagina facebook) che contenga il commento diffamatorio incriminato, qualora il suo titolare si rifiuti di eliminare spontaneamente il commento oggetto di contestazione. In particolare, il giudice potrà disporre il sequestro preventivo di gruppi Facebook, con oscuramento dei profili sulla pagina web, qualora ritenga che vi sia il pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato o di agevolazione dello stesso (v. sul punto Cass. Pen. V sez., 15.05.2018, n° 21521). Infatti, le forme di comunicazione telematica, come blog o social network tra cui rientrano a pieno titolo Facebook, le mailing list e le newsletters, sono espressione del diritto di manifestare liberamente il pensiero, garantito dall’art. 21 Cost., ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa, anche nella forma online, poiché rientrano nei generici siti internet che non sono soggetti agli obblighi ed alle garanzie previste dalla normativa sulla stampa. Diversamente, secondo la giurisprudenza prevalente, i giornali telematici devono essere equiparati a quelli cartacei e dunque devono essere assoggettati alla stessa normativa sulle pubblicazioni a mezzo stampa, conseguendone che il giornale telematico non potrà essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge tra cui non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa (v. in particolare Cass. pen., SS.UU., sentenza 17/07/2015 n° 31022).
La tutela in sede civile
Come già sopra illustrato, la vittima di attacchi diffamatori potrà agire anche soltanto in sede civile allo scopo di ottenere il dovuto risarcimento dei danni subiti.
Anche in ambito civilistico –peraltro- esiste uno strumento cautelare che consente di ottenere una tutela di urgenza in tempi brevissimi, ovvero di far cancellare il contenuto diffamatorio a stretto giro così scongiurando l’eccessiva diffusione dello stesso.
Si tratta nello specifico del procedimento cautelare di urgenza ex art. 700 c.p.c., il quale potrà essere instaurato ancor prima di avviare il giudizio ordinario volto ad ottenere il risarcimento dei danni ma anche in tal caso –come si è visto per il sequestro preventivo in sede penale- detto strumento non sarà fondatamente applicabile avverso articoli di giornali telematici, i quali come più volte rilevato sono del tutto equiparabili ai giornali cartacei. Ciò in quanto il 3° comma dell’art. 21 della Costituzione preclude il sequestro della stampa periodica in ipotesi diverse da quelle tassativamente previste, tra cui non rientra il reato di diffamazione a mezzo stampa (v. in particolare Cass. civ., SS.UU., 18/11/2016, n° 23469).
* * *
A beneficio di chiunque fosse interessato all’argomento, si riporta di seguito uno schema riepilogativo delle principali via di tutela per difendersi dagli attacchi diffamatori:
LE VIE DI TUTELA

DAGLI ATTACCHI DIFFAMATORI

Frecce
Tutela esclusivamente in via civile
La vittima di attacchi diffamatori potrà decidere di agire soltanto civilmente, richiedendo il risarcimento dei danni subiti, senza sporgere alcuna querela;
prima di instaurare il predetto giudizio potrà avviare un procedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c. volto ad ottenere la cancellazione del contenuto diffamatorio;
tuttavia il procedimento ex art. 700 c.p.c. non potrà fondatamente applicarsi in riferimento ai contenuti diffamatori pubblicati su giornali cartacei e telematici, in virtù del disposto di cui all’art. 21 comma 3 della Costituzione che limita le ipotesi di sequestro della stampa, non estendendole alla diffamazione a mezzo stampa.
 
 
Tutela sia in via civile che penale
La vittima della diffamazione può scegliere di sporgere querela contro il presunto autore del reato senza costituirsi poi nel processo penale come parte civile, preferendo agire civilmente mediante un autonomo giudizio;
nell’ipotesi in cui la vittima abbia agito sia civilmente che penalmente, l’eventuale esito assolutorio del giudizio penale, anche se definitivo, non avrà alcuna influenza nel giudizio civile di danno, laddove quest’ultimo sia stato avviato anteriormente alla pronuncia della sentenza penale di primo grado e l’azione civile non sia stata trasferita nel giudizio penale, nell’esercizio di una libera facoltà del soggetto danneggiato.
 
 
 
 
Tutela esclusivamente in via penale
In tal caso occorre sporgere querela nel termine di novanta giorni dai fatti di reato, a pena di improcedibilità;
dopodiché, occorrerà attendere la prosecuzione del procedimento penale e se del caso costituirsi parte civile nel relativo processo, richiedendo in quella sede il risarcimento dei danni;
in quest’ultima ipotesi, generalmente, nel caso di condanna penale dell’imputato, viene riconosciuta alla parte civile una somma di denaro a titolo di risarcimento provvisionale ma poi per ottenere il risarcimento integrale potrebbe essere comunque necessario avviare un ulteriore giudizio civile in un secondo momento;
anche in sede penale, è possibile in via cautelare richiedere il sequestro preventivo del materiale diffamatorio, purché esso non sia stato pubblicato su giornali cartacei o telematici.
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