24/12/2019 – Il risarcimento del danno: modalità e tecniche di liquidazione nel settore delle pubbliche gare

Il risarcimento del danno: modalità e tecniche di liquidazione nel settore delle pubbliche gare[1]
 
Sommario:
1. Quadro di sintesi: i principi europei e le norme del c.p.a. – 2. Natura della responsabilità della stazione appaltante in relazione alle procedure di affidamento. – 3. La responsabilità precontrattuale nelle procedure di affidamento. – 3.1. La giurisdizione. – 3.2. Natura giuridica della responsabilità precontrattuale. – 3.3. Configurazione della responsabilità precontrattuale della p.a. prima della Cass., sez. un., n. 500/1999. – 3.4. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione dopo le sez. un. del 1999. – 3.5. Momento in cui sorge la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante. – 3.6. Ipotesi di responsabilità precontrattuale. – 3.7. Danno risarcibile nella responsabilità precontrattuale. – 3.8. Risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale e indennizzo per revoca legittima. – 4. Risarcimento e colpa della stazione appaltante. – 4.1. La giurisprudenza nazionale sulla colpa della stazione appaltante: dalla colpa in re ipsa alla presunzione relativa di colpa. – 4.2. La giurisprudenza comunitaria in tema di onere della prova della colpa della p.a. in materia di pubblici appalti. – 4.3. La prova della colpa in caso di esecuzione di sentenza di primo grado riformata in appello. La responsabilità oggettiva per impossibilità sopravvenuta. – 5. Il danno da perdita di chance. – 5.1. Nozione e danno risarcibile. – 5.2. La temporanea eliminazione del danno da perdita di chance da aprile a settembre 2010. – 5.3. Il risarcimento in forma specifica e per equivalente della chance. – 5.4. Modalità del ristoro della perdita di chance per equivalente: il rinnovo virtuale della gara e la liquidazione equitativa. – 5.5. La misura della chance quale criterio dell’an ovvero del quantum del risarcimento della chance: la teoria eziologica e la teoria ontologica. – 6. Il c.d. risarcimento in forma specifica in materia di procedure di affidamento di pubblici appalti. Il concorso tra risarcimento in forma specifica e per equivalente. – 7. La quantificazione del risarcimento per equivalente. – 7.1. Domanda di parte e onere della prova. Scompare la liquidazione forfettaria del mancato utile. – 7.2. La mancata domanda di subentro nel contratto e la quantificazione del risarcimento per equivalente ai sensi dell’art. 1227 c.c. – 7.3. Il danno emergente. – 7.4. Il lucro cessante come mancato utile. – 7.5. Il c.d. danno curricolare. – 7.6. Il danno all’immagine professionale. – 8. Risarcimento del danno e informativa antimafia. – 9. Profili processuali. La tecnica della condanna sull’an con i criteri per il quantum.
 
1. Quadro di sintesi: i principi europei e le norme del c.p.a.
Il diritto europeo in materia di risarcimento del danno nelle pubbliche gare afferma pochi principi. A sua volta il legislatore nazionale, dapprima con il d.lgs. n. 53/2010 e poi con il c.p.a. sempre del 2010, si limita a poche regole, essenzialmente processuali, laddove i profili sostanziali della responsabilità della pubblica amministrazione restano affidati all’elaborazione della giurisprudenza amministrativa che, come è noto, ha seguito il paradigma della responsabilità aquiliana. E’ stata invece mancata l’occasione, pure auspicabile, della ricostruzione di un autonomo statuto della responsabilità civile della pubblica amministrazione.
Il diritto comunitario degli appalti e la giurisprudenza della C. giust. UE si limitano ad affermare che ai soggetti lesi in materia di aggiudicazione di appalti e concessioni pubblici è riconosciuto un diritto al risarcimento del danno purché siano soddisfatte tre condizioni:
a) che la norma comunitaria violata sia preordinata ad attribuire loro diritti;
b) che la violazione della norma comunitaria sia sufficientemente qualificata;
c) che esista un nesso causale diretto tra la violazione della norma comunitaria e il danno subito dai soggetti lesi [C. giust. UE, 9.12.2010 C-568/08].
Gli artt. 124 e 125 c. 3, c.p.a. (in cui sono stati trasfusi gli articoli del codice appalti inseriti dal d.lgs. n. 53/2010 in attuazione della c.d. direttiva ricorsi), dettano alcune regole processuali particolari in materia di risarcimento del danno subito dal concorrente nelle gare di appalto pubbliche.
Se il giudice ritiene che, nonostante l’illegittimità dell’aggiudicazione, il contratto non debba essere privato di effetti, accorda al ricorrente il risarcimento del danno solo per equivalente pecuniario (art. 124, c. 1, c.p.a.).
Il danno deve essere comprovato dal ricorrente (art. 124, c. 1, c.p.a.).
Se invece il giudice ritiene che il contratto debba essere privato di effetti, non ne consegue senz’altro il subentro nel contratto in favore del ricorrente avverso l’aggiudicazione, perché a tal fine occorre la domanda, non solo di annullamento dell’aggiudicazione, ma anche di ottenere l’aggiudicazione e il contratto; ma se il ricorrente, senza giustificato motivo, non chiede l’aggiudicazione e il contratto, oppure, pur avendoli inizialmente chiesti, li rifiuti in prosieguo senza giustificato motivo, tale condotta viene valutata dal giudice ai sensi dell’art. 1227 c.c., vale a dire che il giudice potrà negare il risarcimento del danno per equivalente (art. 124, c. 2, c.p.a.).
Nei giudizi relativi a infrastrutture strategiche, fuori dei casi in cui il diritto comunitario impone la privazione di effetti del contratto, l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente (art. 125, c. 3, c.p.a.) [previsione ritenuta in linea di principio conforme al diritto eurounitario, v. Cons. St., V, 28.5.2019 n. 3492].
La direttiva ricorsi nomina, ma non disciplina, il risarcimento dei danni derivanti dall’illegittima aggiudicazione. Se ne occupa, infatti, sotto due profili:
a) laddove afferma che il risarcimento del danno è cosa diversa dalle sanzioni alternative;
b) laddove, al di fuori dei casi in cui il contratto debba essere privato di effetti, lascia ai legislatori nazionali la scelta tra privazione di effetti del contratto e risarcimento del danno solo per equivalente.
Anche la legge delega per il recepimento della direttiva non se ne occupava nel dettaglio ma solo negli aspetti indicati dalla direttiva.
Si tratta di tematica complessa nel diritto interno, e aperta a svariate soluzioni esegetiche sia a livello nazionale che comunitario.
Il d.lgs. n. 53/2010, in difetto di puntuali criteri di delega, non aveva potuto disciplinare il risarcimento del danno in tutti i suoi profili (natura della responsabilità, elemento soggettivo, nesso di causalità, concorso dell’aggiudicatario e della stazione appaltante, misura del risarcimento), ma si è occupato solo dei profili strettamente connessi alla scelta tra privazione di effetti del contratto e mantenimento del medesimo, anche in relazione alle possibili domande di parte.
E, invero, da un lato la privazione di effetti del contratto è configurata come una conseguenza diretta dell’annullamento dell’aggiudicazione, anche se non c’è domanda di parte, ma dall’altro lato il subentro nel contratto postula la domanda di parte.
Inoltre, la privazione di effetti del contratto e il subentro in esso del ricorrente vittorioso, soddisfa in via specifica il danno subito, non lasciando, di regola, spazio per il risarcimento per equivalente.
Se, invece, il contratto, per le svariate ragioni che si sono viste, resta in vita, si apre la strada al risarcimento per equivalente.
Il contenuto del d.lgs. n. 53/2010 è stato in prosieguo trasfuso nel c.p.a. che a sua volta contiene sul risarcimento del danno in materia di appalti solo disposizioni processuali, e non sostanziali.
I profili sostanziali sono pertanto frutto dell’elaborazione della giurisprudenza amministrativa che muove dalla scarne norme processuali e dagli istituti civilistici della responsabilità precontrattuale, contrattuale e aquiliana.
Alcuni punti fermi sono stati posti da alcune recenti decisioni della plenaria:
a) in ordine ai connotati della responsabilità precontrattuale in materia di appalti e al momento in cui sorge (plen. n. 5/2018);
b) in ordine al danno da impossibilità di esecuzione del giudicato (plen. n. 2/2017);
c) in ordine alle voci di danno risarcibili e all’onere della prova (sempre plen. n. 2/2017);
d) in ordine all’eseguibilità del pagamento del risarcimento del danno nei confronti di impresa attinta da informativa antimafia (plen. n. 3/2018).
Mentre, pur investita della questione, la plenaria non si è sinora pronunciata sulla liquidazione del danno da perdita di chance e sul contrasto tra teoria eziologica e ontologica (plen. n. 7/2018).
Molti punti restano tuttavia ancora aperti anche dopo le plenarie n. 5/2018 e n. 2/2017:
– in tema di concorso tra indennizzo da atto legittimo e responsabilità precontrattuale;
– in tema di natura della responsabilità della p.a., perché la plenaria n. 2/2017 nel caso specifico esaminato fa riferimento alla responsabilità contrattuale;
– in tema di limite risarcitorio ancorato alla prevedibilità del danno se si aderisce alla natura contrattuale della responsabilità;
– come si vedrà, la plenaria n. 2/2017 detta un decalogo sui criteri di risarcimento del danno da appalti, che da un lato è tuttavia incompleto perché non si occupa del danno da perdita di chance, e dall’altro lato accoglie apoditticamente alcune soluzioni su questioni dibattute, senza dare atto del dibattito (p. es. su danno curricolare e di immagine professionale, sull’aliunde perceptum), sicché ci sono dubbi sulla effettiva portata nomofilattica in parte qua di tale decisione;
– infine, la plenaria lascia aperti i dubbi sulla responsabilità della stazione appaltante che esegua una decisione di primo grado, che in appello venga ribaltata con conferma della legittimità dell’operato della p.a.; anche sotto tale profilo, la decisione della plenaria n. 2/2017 non convince nell’affermazione del principio di diritto, e sembra salvarsi solo per il caso specifico affermando un diverso titolo di responsabilità specifica diversa da quella affermata con il principio di diritto.
 
2. Natura della responsabilità della stazione appaltante in relazione alle procedure di affidamento
In relazione alla responsabilità della stazione appaltante per violazioni commesse nelle procedure di affidamento, occorre distinguere il caso della condotta scorretta a prescindere dall’adozione di atti illegittimi, da questa seconda ipotesi.
Nel primo caso (ritardo nel procedere ad aggiudicazione o stipulazione del contratto, ritardo nel procedere a legittimi atti di autotutela), la responsabilità si configura come precontrattuale, essendovi un comportamento illecito che prescinde dall’adozione di atti illegittimi.
Laddove la stazione appaltante violando le regole dell’evidenza pubblica aggiudichi la gara al soggetto sbagliato, la sua responsabilità nei confronti dell’avente titolo all’aggiudicazione è, dalla giurisprudenza prevalente, configurata come aquiliana. Si è osservato che in caso di annullamento dell’aggiudicazione di un pubblico appalto ciò che viene in rilievo non è la violazione delle regole di correttezza o di condotta poste a tutela della libertà contrattuale, che dà luogo a responsabilità precontrattuale, ma la violazione di norme imperative o di principi generali, che pongono “regole di validità” a tutela di interessi pubblici e tale violazione può dare luogo alla illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, con possibile responsabilità extracontrattuale per lesione di posizioni di interesse legittimo [Cons. St., VI, 11.1.2010 n. 14].
Peraltro la plenaria n. 2/2017 di cui si dirà in seguito sembra aprire un nuovo scenario sulla natura della responsabilità in materia di appalti.
 
3. La responsabilità precontrattuale nelle procedure di affidamento
 
3.1. La giurisdizione
Non ci si sofferma sul tema del riparto di giurisdizione, la giurisprudenza anche delle sez. un. è attestata sulla spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo.
 
3.2. Natura giuridica della responsabilità precontrattuale
Appare preferibile la tesi che ascrive la responsabilità precontrattuale al genus di quella aquiliana, con quel che ne consegue in ordine a onere della prova, termine di prescrizione, danni risarcibili [Cons. St., III, 6.3.2015 n. 1142].
Tuttavia, secondo un arresto della Cassazione, la responsabilità precontrattuale della p.a. avrebbe natura contrattuale: nei contratti conclusi con la pubblica amministrazione statale, il dispiegamento degli effetti vincolanti per le parti, al di là della formale stipula di un accordo negoziale, è subordinata all’approvazione ministeriale ai sensi dell’art. 19 r.d. n. 2440/1923 da effettuarsi con un provvedimento espresso adottato dall’organo competente nella forma solenne prescritta dalla legge, la cui esistenza non può desumersi implicitamente dalla condotta tenuta dalla p.a.. con la conseguenza che, ai fini del perfezionamento effettivo del vincolo contrattuale, pur se formalmente esistente, non è sufficiente la mera aggiudicazione pronunciata in favore del contraente, come pure la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica nelle forme prescritte dalla legge; pertanto, l’eventuale responsabilità dell’Amministrazione, in pendenza dell’approvazione ministeriale, deve essere configurata come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ai sensi dell’art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell’art. 1174 stesso codice, bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, ai sensi degli artt. 1175 e 1375, con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione a norma dell’art. 2946 c.c. [Cass., I, 12.7.2016 n. 14188].
La sentenza non affronta le altre ricadute di tale qualificazione, sull’onere della prova, la misura e la prevedibilità del danno, il termine di prescrizione, implicazioni che nel processo amministrativo possono essere molto rilevanti, anche in termini di maggiori oneri risarcitori per le parti.
 
3.3. Configurazione della responsabilità precontrattuale della p.a. prima della Cass., sez. un., n. 500/1999
La questione della natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione assume connotati peculiari nei pubblici appalti, dove viene in rilievo la responsabilità c.d. precontrattuale in relazione alla fase di formazione del contratto (c.d. procedura di evidenza pubblica).
Occorre da un lato considerare gli atti illegittimi posti in essere dall’amministrazione nel corso della procedura di evidenza pubblica, e, dall’altro lato, i comportamenti scorretti che la pubblica amministrazione pone in essere nella fase di formazione del contratto, a prescindere dall’adozione di atti amministrativi illegittimi e, anzi, proprio in ipotesi in cui gli atti del procedimento di gara sono tutti legittimi, e ciò nonostante l’amministrazione ha tenuto comportamenti non conformi a buona fede.
È da tempo indiscussa la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, per condotta scorretta nella fase delle trattative, laddove l’amministrazione agisca iure privatorum [v. già la risalente Cass., sez. un., 12.7.1961 n. 1675, in FI 1962, I, 96].
Più delicato è se sia ipotizzabile una responsabilità precontrattuale nelle ipotesi in cui l’amministrazione pone in essere contratti seguendo procedure di evidenza pubblica.
Tali ipotesi sono molto più numerose di quelle in cui l’amministrazione agisca iure privatorum, atteso che è sempre più frequente la procedimentalizzazione dell’attività contrattuale dell’amministrazione, anche in ipotesi di trattativa privata.
Secondo una tradizionale e risalente impostazione, nella procedura di evidenza pubblica mancherebbe una vera e propria trattativa, potendo i partecipanti solo formulare le offerte, e non potendo l’offerente vantare un affidamento giuridicamente tutelabile in ordine all’aggiudicazione del contratto [Cass., I, 29.7.1987 n. 6545, in FI 1988, I, 460].
Nell’ambito di tale impostazione, qualche apertura si registrava in relazione alla limitata fase che va dall’aggiudicazione alla stipulazione, in cui il contraente è individuato e ha un legittimo affidamento alla stipulazione [Cass., sez. un., 5.8.1975 n. 2980, in GI 1977, I, 172].
 
3.4. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione dopo le sez. un. del 1999
L’impostazione tradizionale esposta nel paragrafo che precede è stata rimessa in discussione dopo il riconoscimento della risarcibilità degli interessi legittimi, ad opera di Cass., sez. un., n. 500/1999 e della l. n. 205/2000.
Da tale riconoscimento consegue anche l’affermazione che i doveri di correttezza e buona fede nelle trattative, previsti dagli artt. 1337 e 1338 c.c., trovano applicazione pure nelle procedure di evidenza pubblica e che il dovere di agire secondo correttezza e buona fede grava pure sull’amministrazione e non è assolto solo con il compimento di attività previste da specifiche disposizioni di legge, ma anche con comportamenti che, sebbene non individuati dal legislatore, appaiano necessari, in relazione alle singole situazioni di fatto, per evitare l’aggravamento della posizione dell’altra parte [Cons. St., V, 10.1.2003 n. 32].
In tale logica, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ritenuto, in un appalto di lavori pubblici, legittimo il diniego di approvazione del contratto motivato dalla indisponibilità dei fondi necessari, ma ha al tempo stesso ravvisato la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, che, in violazione del principio di correttezza e di buona fede, non aveva comunicato tempestivamente all’aggiudicatario la mancanza dei fondi necessari; il danno risarcibile in tale ipotesi è stato circoscritto all’interesse contrattuale negativo [Cons. St., IV, 19.3.2003 n. 1457].
Si è affermato che la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza. Nei casi di responsabilità precontrattuale propriamente detti, infatti, ciò che il privato lamenta non è la mancata aggiudicazione, ma la lesione della sua corretta autodeterminazione negoziale [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
Ancora, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione sia configurabile, ai sensi dell’art. 1337, c.c., quando si verifica un’ingiustificata e arbitraria interruzione delle trattative dirette alla conclusione del contratto, tale da ledere l’incolpevole affidamento della controparte nell’osservanza delle regole di correttezza e buona fede [Cons. St., V, 12.9.2001 n. 4776].
La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione è stata inoltre affermata nei confronti dell’impresa aggiudicataria, prima della stipulazione del contratto.
Invero, posto che in materia di contratti della pubblica amministrazione, l’impresa aggiudicataria rappresenta il soggetto individuato quale contraente dell’amministrazione medesima, la cui offerta irrevocabile ha già ottenuto un principio rilevante di accettazione in sede di approvazione degli atti di gara, tale impresa non vanta un diritto di obbligazione derivante dal contratto che non si è ancora concluso, bensì un legittimo affidamento protetto dalla tutela apprestata per il contraente in buona fede dall’art. 1338, c.c. Ne consegue che nel caso in cui l’amministrazione, rilevando un errore nel procedimento di gara già esperito, autoannulla in via di autotutela la detta gara, ancorché sia intervenuta l’aggiudicazione [definitiva] in capo all’impresa vincitrice della selezione, ferma la legittimità dell’atto di autotutela, è tuttavia risarcibile il danno da quest’ultima patito a titolo di responsabilità precontrattuale [Tar Campania – Napoli, I, 26.8.2003 n. 11259; Tar Campania – Napoli, I, 3.6.2002 n. 3258].
La responsabilità precontrattuale è stata altresì ravvisata in un’ipotesi di illegittima pronuncia di decadenza dall’aggiudicazione [Cons. St., IV, 27.12.2004 n. 8220].
Non è invece configurabile la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante che si sia motivatamente e tempestivamente avvalsa della facoltà, prevista nel bando di gara, di non aggiudicare l’appalto per ragioni di pubblico interesse comportanti variazioni agli obiettivi perseguiti; in tal caso, infatti, all’amministrazione appaltante non è contestabile alcun comportamento lesivo dell’affidamento dei partecipanti, stante la tempestività con cui è stata utilizzata una facoltà espressamente prevista dal bando [Cons. St., V, 13.11.2002 n. 6291].
 
3.5. Momento in cui sorge la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante
Quanto al momento in cui sorge la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante, essendovi un contrasto nell’ambito della giurisprudenza, la questione è stata rimessa all’esame della adunanza plenaria del Consiglio di Stato nei seguenti termini:
a) se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione;
b) se, nel caso di risposta affermativa, la responsabilità precontrattuale debba riguardare esclusivamente il comportamento dell’amministrazione anteriore al bando, che ha fatto sì che quest’ultimo venisse comunque pubblicato nonostante fosse conosciuto, o dovesse essere conosciuto, che non ve ne erano i presupposti indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi comportamento successivo all’emanazione del bando e attinente alla procedura di evidenza pubblica, che ne ponga nel nulla gli effetti o ne ritardi l’eliminazione o la conclusione [Cons. St., III, 24.11.2017 n. 5492, ord.].
Alcune pronunce del Consiglio di Stato affermano la sussistenza della responsabilità precontrattuale anche prima della concreta individuazione dell’aggiudicatario, e quindi prima e a prescindere dall’aggiudicazione, osservandosi che la circostanza che la procedura pubblicistica di scelta del contraente avviata non sia ancora sfociata nell’aggiudicazione non valga, di per sé sola, ad escludere la configurabilità di una responsabilità precontrattuale in capo all’amministrazione che revoca la gara, occorrendo invece all’uopo verificare in concreto la condotta da questa tenuta alla luce del parametro di diritto comune della correttezza nelle trattative (fermo restando, comunque, che il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale) [Cons. St., VI, 25.7.2012 n. 4236; Id., VI, 7.11.2012 n. 5638; Id., V, 15.7.2013 n. 3831].
Si è osservato che la tesi della non configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. anteriormente alla scelta del contraente, nella fase, cioè, in cui gli interessati non hanno ancora la qualità di futuri contraenti, ma soltanto quella di partecipanti alla gara, finisce, in pratica, con l’esonerare l’Amministrazione dal rispetto del dovere di diligenza e correttezza per tutto l’arco della sua azione sul terreno delle procedure dell’evidenza pubblica, che pure costituiscono la regola del suo agire nella dimensione contrattuale, finché l’Amministrazione stessa non sia pervenuta all’esito dell’aggiudicazione. E questo a dispetto della soggezione di principio, pur normalmente enunciata, della stessa P.A. all’istituto della culpa in contrahendo, che porta ad affermare che la sua responsabilità precontrattuale sarebbe configurabile in tutti i casi in cui l’ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buonafede, alla cui puntuale osservanza anch’esso è tenuto, nell’ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall’art. 2043 c.c.
Vi sarebbe così una aprioristica esenzione dal diritto comune dell’Amministrazione (proprio quando la medesima opera sul piano contrattuale) che appare di difficile giustificazione.
Occorre poi considerare che la gara non è “altro” rispetto alla formazione del contratto della P.A.; e che i privati che vi partecipano, sottoponendo le proprie offerte alla Stazione appaltante, hanno tutti la qualità di possibili futuri contraenti con l’Amministrazione [Cons. St., V, 15.7.2013 n. 3831].
Ancora, si è osservato che nelle procedure ad evidenza pubblica, le regole di condotta in esame non possono essere riconducibili soltanto ad una o più singole fasi in cui si suddivide una gara: in effetti, ogni fase, pur essendo astrattamente riconducibile, da un lato, alla parte pubblicistica e, dall’altro lato, alla parte privatistica della gara, necessita di una lettura unitaria e consequenziale. Ciascuna singola fase, seppur distinta da quella successiva e da quella precedente, tende all’unico fine della stipulazione del contratto: di conseguenza, prima della sottoscrizione del contratto, l’amministrazione sarà obbligata al rispetto dei principi della buona fede e correttezza nelle trattative. L’applicabilità delle disposizioni civilistiche deriva dalla equiparazione dell’amministrazione ad un contraente privato nella procedura volta alla conclusione di un contratto: tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, infatti, si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale e, pertanto, il rispetto dei principi di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. non può essere circoscritto al singolo periodo successivo alla determinazione del contraente. Piuttosto, lo stadio, preliminare o avanzato della gara, incide sul legittimo affidamento del privato, che è maggiore quando si è addivenuti all’aggiudicazione provvisoria [Cons. St., III, 6.3.2015 n. 1142].
Altra giurisprudenza amministrativa sostiene che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione è connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della formazione del contratto e quindi non può che riguardare fatti svoltisi in tale fase; perciò la responsabilità precontrattuale non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare solo un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione [Cons. St., V, 28.5.2010 n. 3393 ; Id., V, 8.9.2010 n. 6489; Id., V, 21.8.2014 n. 4272; Id., III, 29.7.2015 n. 3748; Id., V, 21.4.2016 n. 1599; Id., III, 14.2.2017 n. 660; Id., 8.11.2017 n. 5146].
In tale prospettiva si è affermato che “affinché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale è necessario che:
i) le trattative siano giunte ad uno stadio avanzato ed idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto;
ii) la controparte pubblica, cui si addebita la responsabilità, le abbia interrotte senza un giustificato motivo e infine
iii) pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto” [Cons. St., V, 8.11.2017 n. 5146].
La tesi più restrittiva non appare convincente: la “trattativa” che conduce l’amministrazione si svolge durante tutto l’arco della gara, e non solo dopo la proposta di aggiudicazione. Il dovere di correttezza e buona fede va rispettato dalla stazione appaltante sin dalla pubblicazione del bando di gara o, nelle procedure senza bando, dalla diramazione degli inviti.
Che ci sia una “trattativa” anche prima della individuazione del vincitore (con la proposta di aggiudicazione) emerge con particolare evidenza nelle nuove procedure competitive con negoziazione, quali il partenariato per l’innovazione, il dialogo competitivo, le procedure negoziate con e senza bando, in cui vi può essere una fase di negoziazione plurima delle offerte, prima della messa a punto delle offerte finali. In tale fase la stazione appaltante è tenuta a rispettare la par condicio e a dare a tutti i concorrenti le stesse informazioni; la omissione di informazioni verso qualche concorrente, o il fornire informazioni non veritiere o fuorvianti, integra tipicamente la violazione dei doveri propri delle fase delle trattative, a prescindere e prima della concreta individuazione del vincitore.
La plenaria del Consiglio di Stato ha aderito alla tesi più ampia. Ha osservato la plenaria che:
– anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza;
– nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento;
– la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede;
– affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione [Cons. St., ad. plen., 4.5.2018 n. 5; dopo la plenaria, nello stesso senso Cons. St., V, 22.10.2019 n. 7161].
Nel dettaglio la plenaria:
a) premette un’ampia ricostruzione storica dell’istituto della responsabilità precontrattuale nella disciplina del codice civile evidenziando come nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile del 1942, l’art. 1337 c.c. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale, sanzionando conseguentemente le condotte scorrette che impedivano il raggiungimento di tale scopo mentre nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., I, 12.7.2016 n. 14188);
b) osserva che il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, in ragione del particolare status – professionale e, talvolta, pubblicistico – rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”; ciò vale a fortiori per chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), da cui il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo;
c) nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà sicchè la “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile quanto quella di tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza;
d) il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto. Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una «trattativa» in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione “relazionale” qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative;
e) la nuova concezione del dovere di correttezza trova conferma nei più recenti orientamenti della giurisprudenza civile che ha ritenuto configurabile la c.d. responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso (Cass. civ., sez. un., 19.12.2007 n. 26725) e sull’esistenza di un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è “parte” rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios (Cass. civ., sez. un., 8.4.2011 n. 8034; Cass. civ., sez. III, 18.7.2002 n. 10403);
f) venendo all’attività autoritativa della pubblica amministrazione rammenta che la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza [Cons. St., IV, 6.3.2015 n. 1142; VI, 6.2.2013 n. 633; ad. plen., 5.9.2005 n. 6; Cass. civ., I, 12.5.2015 n. 9636; Cass. civ., I, 3.7.2014 n. 15250; Cass. civ., sez. un. 12.5.2008 n. 11656];
g) rammenta la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento osservando che le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, le regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto). Rammenta al riguardo la fattispecie della responsabilità dell’amministrazione da provvedimento favorevole poi annullato in via giurisdizionale o per autotutela (Cass. civ., sez. un., ordinanze “gemelle” 23.5.2011,nn. 6594, 6595, 6596);
h) accede all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il dovere di correttezza e buona fede (e l’eventuale responsabilità precontrattuale in caso di sua violazione) sussiste, prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica strumentale alla scelta del contraente, che si pone quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale nell’ambito di un sistema di “trattative (c.d. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle offerte, secondo un’impostazione che risulta rafforzata dalla irrevocabilità delle stesse” (cfr. Cass. civ., I, 12.5.2015 n. 9636; Cons. St., IV, 6.3.2015 n. 1142; Cons. St., V, 15.7.2013 n. 3831);
i) ciò in quanto “la disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato tra p.a. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento. Diversamente argomentando, l’interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità” (così testualmente Cass. civ., sez. I, n. 15260/2014);
j) rileva che anche secondo il legislatore i doveri di correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica amministrazione anche quando essa esercita poteri autoritativi sottoposti al regime del procedimento amministrativo; in tal senso depongono i seguenti indici normativi:
j1) l’art. 1 l. n. 241/1990 assoggetta l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume un rilievo primario la tutela dell’affidamento legittimo (C. giust. CE, 3.5.1978 C-12/77 Topfer);
j2) gli artt. 21-novies, comma 1, e 21-quinquies della l. n. 241/1990 nel disciplinare i presupposti del potere di autotutela prescrivono che si deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale;
j3) l’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la l. n. 212/2000 che contiene un esplicito richiamo, sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e della buona fede”;
j4) l’art. 2-bis, c. 1, l. n. 241/1990 superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15.9.2005, n. 7 ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo che è fattispecie di danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, ledendo il diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali, fermo restando l’onere del privato di fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere;
k) conclude nel senso che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato sicché risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilità precontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione;
l) per analoghe ragioni esclude che la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nella fase anteriore all’aggiudicazione possa riguardare esclusivamente il comportamento anteriore al bando, e, quindi, debba essere circoscritta alle ipotesi in cui l’amministrazione ha fatto sì che il bando venisse pubblicato nonostante fosse conosciuto o conoscibile che non vi erano i presupposti indefettibili. Tale soluzione implicherebbe delle limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile. Pertanto qualsiasi comportamento anche se successivo al bando che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede può essere fonte di responsabilità precontrattuale;
m) al giudice spetta condurre una rigorosa verifica, da svolgersi necessariamente in concreto, circa l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del danno e segnatamente:
m1) la prova dell’esistenza dell’affidamento incolpevole;
m2) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
m3) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo secondo il regime probatorio di cui all’art. 2043 c.c.;
m4) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione;
n) nel giudizio di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale occorre valutare con particolare attenzione in sede applicativa i seguenti profili:
n1) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);
n2) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara;
n3) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo);
n4) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, c. 2, c.c., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata);
n5) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione del contratto).
 
3.6. Ipotesi di responsabilità precontrattuale
In sintesi, ed esemplificando, una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nel procedimento di affidamento degli appalti di lavori pubblici è configurabile quando vengono interrotte le trattative o il procedimento di gara e, in particolare, quando la stazione appaltante:
– interrompe le trattative, violando l’affidamento incolpevole dell’altra parte;
– nega l’approvazione del contratto, ovvero l’aggiudicazione, per ragioni legittime, ma ritardando colpevolmente la relativa comunicazione alla parte [Tar Lazio – Roma, III, 10.9.2007 n. 8761];
– annulla l’aggiudicazione in via di autotutela, omettendo o ritardando la relativa comunicazione, o comunque ingenerando un ragionevole affidamento nella stipula del contratto [Cons. St., V, 14.1.2009 n. 122];
– nega la stipulazione del contratto, omettendo o ritardando la relativa comunicazione;
– più in generale, ritira gli atti di gara [Cons. St., VI, 29.8.2011 n. 4921; Cons. St., V, 7.9.2009 n. 5245; Id., VI, 17.12.2008 n. 6264; Id., IV, 7.7.2008 n. 3380];
– interviene in via di autotutela sulla gara di appalto e sul successivo contratto, in quanto, ferma la legittimità dell’autotutela, possono in concreto ravvisarsi profili di colpa per lesione del ragionevole affidamento del contraente [Cons. St., VI, 20.2.2007 n. 919];
– ritarda ingiustificatamente l’aggiudicazione o la stipulazione del contratto.
Sicché, la responsabilità precontrattuale si ricollega a comportamenti scorretti non connessi ad atti amministrativi illegittimi, ma, al contrario, ad atti amministrativi in sé legittimi.
In tal caso ciò che si imputa all’amministrazione a titolo di responsabilità precontrattuale è la violazione delle regole di correttezza e di buona fede, e, in particolare, l’omissione o il ritardo nella comunicazione al contraente, che vanta un legittimo affidamento nella stipulazione del contratto, dei problemi e delle difficoltà inerenti alla conclusione del contratti, e della possibilità del ritiro degli atti di gara.
E, tanto, in ipotesi in cui gli atti amministrativi (diniego di aggiudicazione, diniego di stipulazione, diniego di approvazione, annullamento in via di autotutela degli atti di gara) sono in sé legittimi.
Siffatti comportamenti scorretti si inquadrano nelle previsioni civilistiche degli artt. 1337 e 1338 c.c.
Da un lato, l’art. 1337 impone il dovere di buona fede nella fase delle trattative e nella formazione del contratto.
Dall’altro lato, l’art. 1338 impone alla parte che conosce le cause di invalidità del contratto, di darne notizia all’altra parte che confida, senza colpa, nella validità dello stesso.
Tale seconda ipotesi ben si attaglia ai casi in cui la stazione appaltante ritiene di non procedere ad aggiudicazione, approvazione, stipulazione, perché vi sono cause di invalidità del contratto, ma non ne dà comunicazione all’altra parte, o ne dà una comunicazione ritardata.
Se tali atti fossero illegittimi, gli stessi andrebbero annullati dal giudice, e la responsabilità dell’amministrazione sarebbe di tipo contrattuale, essendo in tali ipotesi l’amministrazione obbligata a contrarre.
Invece, nei casi di responsabilità precontrattuale, l’amministrazione rifiuta legittimamente di contrarre, non ha alcun obbligo di procedere all’aggiudicazione dell’appalto e alla stipulazione del contratto, ma tiene un comportamento scorretto, violando il legittimo affidamento di controparte.
Secondo la giurisprudenza, l’esercizio di poteri di autotutela, benché legittimo, può determinare la lesione dell’affidamento riposto dai privati negli atti revocati o annullati con il conseguente insorgere di obblighi risarcitori; ciò non costituisce elemento per utilizzare in modo limitato i poteri di autotutela, ma rappresenta un dato che l’amministrazione deve tenere presente nelle complessive valutazioni che precedono l’esercizio dei propri poteri di autotutela [Cons. St., VI, 23.6.2006 n. 3989].
Così, in caso di legittima revoca dell’aggiudicazione di un appalto, può residuare spazio per un risarcimento dei danni precontrattuali conseguenti alla lesione dell’affidamento ingenerato nell’impresa vittoriosa, a condizione che il comportamento dell’amministrazione contrasti con le regole di correttezza e buona fede e che abbia ingenerato un danno [Cons. St., IV, 7.7.2008 n. 3380].
In conclusione, la responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela che formalizza la volontà dell’amministrazione di annullare o revocare gli atti di gara. La responsabilità precontrattuale non discende infatti necessariamente dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 c.c.) che trattano del “comportamento” precontrattuale, ponendole in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
 
3.7. Danno risarcibile nella responsabilità precontrattuale
Nei casi di responsabilità precontrattuale, il danno risarcibile va limitato al c.d. interesse contrattuale negativo, che comprende le spese sopportate per l’approntamento della partecipazione alla gara e la perdita di occasioni di lavoro alternative, sempre che sia fornita la prova dei danni subiti [Cons. St., IV, 19.3.2003 n. 1457; Id., IV, 27.12.2004 n. 8220].
È escluso il ristoro del c.d. interesse positivo, cioè dei vantaggi che si sarebbero conseguiti in caso di stipulazione ed esecuzione del contratto [Cons. St., VI, 11.1.2010 n. 20; Id., IV, 20.1.2015 n. 131].
Nell’ambito delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, risarcibili, si comprendono le spese sostenute per la retribuzione del personale dipendente all’interno della società e le spese generali per il funzionamento struttura aziendale. Invero, anche se tali spese sarebbero state ugualmente sostenute, il danno deriva dal fatto che il concorrente ha destinato una parte delle sue risorse umane e materiali alla partecipazione alla gara, rinunciando al loro utilizzo in altre attività e sopportando, quindi, un costo-opportunità [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
Vengono riconosciute anche le spese per l’acquisto di beni e servizi acquistati per l’esecuzione del contratto, in caso di ritiro dell’aggiudicazione, e non utilizzabili altrimenti [Cons. St., III, 5.5.2017 n. 2075].
In caso di responsabilità precontrattuale da revoca degli atti di gara, va riconosciuto anche il danno da perdita della c.d. chance contrattuale alternativa. Tale danno va riconosciuto anche nel caso in cui la struttura aziendale dell’impresa che lo lamenta fosse compatibile con la contemporanea esecuzione di più contratti: ciò che risulta dirimente è che nella specie l’impresa abbia preferito, in un esercizio non incauto o irragionevole dell’autodeterminazione imprenditoriale, di non assumere contestualmente più impegni, preferendo concentrarsi sull’appalto oggetto di gara, per essa già certo e concreto, e ragionevolmente – per le sue caratteristiche – stimato preferibile. La scelta, fra vari contratti, di quello stimato più conveniente, e la conseguente decisione di eseguirlo in via esclusiva e senza assumere impegni concomitanti esprime un uso lineare e corretto della diligenza imprenditoriale e manifesta – in relazione al quadro generale delle opportunità contrattuali presenti in quel contesto – una corretta autodeterminazione economica dell’imprenditore. Sicché una scelta di tal genere, proprio perché non risulta manifestamente strumentale, incauta o irragionevole, non costituisce in sé un comportamento negligente che possa rilevare ai sensi dell’art. 1227, c. 2, c.c. [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
La circostanza che gli atti di gara poi revocati in autotutela siano stati impugnati innanzi al giudice amministrativo, e dunque andavano a “rischiare” l’annullamento, non rileva ai fini del giudizio di ’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227, c. 2, c.c. nel senso di porre in capo all’impresa partecipante alla gara di prevenire ipotetici danni derivanti da quell’annullamento mediante l’utilizzazione di proposte contrattuali alternative. Vale anzitutto la considerazione che un’azione giurisdizionale amministrativa, incentrata com’è sulla contestazione della legittimità dell’aggiudicazione, non è degradabile da parte dell’imprenditore che ha beneficiato dell’aggiudicazione – evidentemente facendo riferimento alla sua legittimità e alla certezza che ne discende – a un qualsivoglia rischio economico, cioè ad un’alea del mercato o del contratto; e vale la considerazione che rientra nell’ambito delle scelte imprenditoriali – alla cui corretta valutazione presiedono solo l’ordinaria ragionevolezza e la diligenza imprenditoriale – l’opzione se preferire un determinato contratto (ancorché stipulato in seguito a una gara contestata in sede giurisdizionale), piuttosto che contratti alternativi, più certi, ma considerati, sotto vari profili non altrettanto convenienti [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
Non è ristorabile a titolo di responsabilità precontrattuale il mancato utile d’impresa che rientra nel c.d. interesse positivo (quale interesse all’esecuzione del contratto), a rigore non può mai essere risarcito in una fattispecie di responsabilità precontrattuale atteso che il sistema della responsabilità precontrattuale mal si presta ad essere utilizzato per chiedere il risarcimento dei danni che in via meramente presuntiva si sarebbero evitati o dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con la stipulazione ed esecuzione del contratto [Cons. St., V, 6.4.2009 n. 2143; Cons. St., V, 13.6.2008 n. 2967; Cons. St., V, 7.5.2008 n. 2080].
Non è risarcibile il c.d. danno curricolare, perché non attiene all’interesse negativo, ma, più propriamente, all’interesse positivo, derivando proprio dalla mancata esecuzione dell’appalto, non dall’inutilità della trattativa [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
In sede di liquidazione del danno per responsabilità precontrattuale da revoca legittima di aggiudicazione, si è escluso il ristoro delle spese “legali”, perché la regolamentazione delle spese processuali spetta, in via esclusiva, al giudice che definisce il giudizio nel cui ambito quelle spese sono state sostenute. La condanna sulle spese è, infatti, pronuncia consequenziale ad accessoria alla definizione del giudizio, ammissibile nei soli rapporti tra soggetti titolari di un rapporto processuale basato con la proposizione di una domanda. Non può esservi alcun dubbio, allora, sul fatto che la richiesta di rimborso delle spese legali sostenute nei vari giudizi intrapresi o nei quali è stata coinvolta nel corso degli anni per i lavori dell’appalto poteva essere avanzata solo nell’ambito di quei giudizi e non può essere invece formulata proponendo un’autonoma azione risarcitoria, in quanto, se ciò fosse possibile, si avrebbe un’evidente elusione del regime delle spese processuali dettato dagli artt. 90-97 c.p.c. e, soprattutto, del principio dell’accessorietà della pronuncia sulle spese legali [Tar Lazio – Roma, III, 14.2.2011 n. 1392].
Occorre la prova specifica dei danni subiti, non potendosi invocare la liquidazione in via equitativa quando non è fornita alcuna prova del danno; la liquidazione in via equitativa presuppone infatti che vi sia la prova dell’an, e che non sia possibile provare con esattezza il solo quantum [Cons. St., VI, 23.6.2006 n. 3989].
Quando è fornita la prova dell’an, il quantum, non stabilibile nel preciso ammontare, può essere stabilito, in via forfettaria ed equitativa; con riferimento alle spese sostenute, in un caso è stato liquidato nella misura del 25% dell’importo relativo alle spese sostenute per i c.d. costi vivi affrontati per la predisposizione dell’offerta e la partecipazione alla gara [Cons. St., VI, 1.2.2013 n. 633].
 
3.8. Risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale e indennizzo per revoca legittima
In caso di revoca dell’aggiudicazione, la giurisprudenza ha esplorato la linea di confine tra risarcimento del danno e indennizzo per revoca legittima, ai sensi dell’art. 21-quinquies, l. n. 241/1990.
In termini generali, anche dopo l’intervento dell’aggiudicazione la p.a. conserva il potere di revoca in presenza di un interesse pubblico individuato in concreto, del quale occorre dare atto nella motivazione del provvedimento di autotutela.
Invero l’art. 21-quinquies l. n. 241/1990 ha accolto una nozione ampia di revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre presupposti alternativi, che ne legittimano l’adozione: a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per mutamento della situazione di fatto; c) per nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Pertanto la revoca è possibile non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (c.d. ius poenitendi). Il soggetto che direttamente subisca un pregiudizio dalla revoca ha titolo ad un indennizzo sempre che sia legittimo il provvedimento (si verte cioè in materia di responsabilità della p.a. per atti legittimi), poiché nel diverso caso di revoca illegittima subentrerebbe eventualmente il diritto al risarcimento del danno [Cons. St., III, 11.7.2012 n. 4116].
Alla luce dell’ontologica diversità delle due ipotesi, nel giudizio volto ad ottenere l’indennizzo la causa petendi, deve essere ravvisata nella legittimità dell’atto amministrativo di revoca adottato dalla p.a. che ha causato il pregiudizio, mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell’atto produttivo del danno, laddove il petitum è limitato al danno emergente con riferimento all’indennizzo e invece si estende al ristoro integrale (danno emergente e lucro cessante) nella diversa ipotesi di risarcimento del danno [Cons. St., III, 11.7.2012 n. 4116].
Se nel giudizio promosso contro la revoca di un provvedimento amministrativo viene chiesto l’indennizzo ai sensi dell’art. 21-quinquies, l. n. 241/1990, il giudice, pena la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ai sensi dell’art. 112 c.p.c., non può trasformare la domanda di indennizzo in quella diversa e distinta di risarcimento mutando quindi d’ufficio il petitum, attribuendo un bene diverso da quello richiesto o la causa petendi, con conseguente introduzione in giudizio di un diverso titolo da quello posto a fondamento della domanda, in quanto al più gli è consentito interpretare e qualificare le domande avanzate dalle parti, ma non di trasformarle [Cons. St., III, 11.7.2012 n. 4116].
Non va riconosciuto l’indennizzo previsto dal citato art. 21-quinquies nel caso di procedura d’appalto bloccata alla fase dell’aggiudicazione provvisoria in quanto, non risultando l’aggiudicazione [definitiva], la gara non aveva ancora registrato l’adozione di un “provvedimento amministrativo ad efficacia durevole”, che è presupposto richiesto dalla legge ai fini dell’attribuzione del beneficio in parola Cons. St., III, 11.7.2012 n. 4116].
Occorre qualificare il risarcimento da revoca illegittima, che sembra da qualificare come responsabilità aquiliana e non precontrattuale.
Invero, nell’alternativa tra indennizzo per revoca legittima e risarcimento del danno extracontrattuale per revoca illegittima, occorre chiedersi se vi sia spazio anche per la terza ipotesi della responsabilità precontrattuale in caso di revoca legittima.
Il legislatore infatti forfettizza il danno da incolpevole affidamento del privato con l’indennizzo, e quindi lo spazio della responsabilità precontrattuale sembra assorbito dall’indennizzo.
A meno che non si voglia distinguere il caso di revoca legittima che pur ledendo un affidamento incolpevole, non è frutto di condotta scorretta, e dà diritto solo a indennizzo, dal caso di revoca legittima che oltre a ledere un affidamento incolpevole, sia anche frutto di condotta scorretta, e dia perciò diritto oltre che all’indennizzo, al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale. Uno spunto in tal senso sembra trarsi da una decisione che avendo ritenuto legittima la scelta della stazione appaltante di non dare seguito a una gara di appalto già avviata, per aderire a una convenzione Consip, pur escludendo il danno da mancata aggiudicazione e da perdita di chance, ha ritenuto ristorabile a titolo di responsabilità precontrattuale il danno consistito nei costi di partecipazione alla gara [Cons. St., III, 31.10.2019 n. 7448]. In altra decisione, pur senza quantificarsi in concreto il danno da responsabilità precontrattuale, si è affermato che “anche la doverosità dell’adozione del provvedimento di revoca e quindi del connesso esercizio dell’azione amministrativa non osta alla configurabilità della responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, dovendosi concludere nel senso che sussiste la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, in caso di affidamento ingenerato nel contraente privato in seguito alla conclusione della procedura ad evidenza pubblica, potendo verosimilmente lo stesso contraente aver confidato su un titolo (id est: l’aggiudicazione), che l’abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso, che è stato successivamente rimosso”[Cons. St., VI, 3.5.2018 n. 2630].
 
4. Risarcimento e colpa della stazione appaltante
 
4.1. La giurisprudenza nazionale sulla colpa della stazione appaltante: dalla colpa in re ipsa alla presunzione relativa di colpa
In tema di colpa dell’amministrazione, una consistente parte della giurisprudenza anteriore alla sentenza delle sez. un. n. 500/1999, riteneva che la stessa fosse in re ipsa in caso di adozione di atti amministrativi illegittimi.
Si affermava che “per quanto concerne gli atti illegittimi, la colpa è, di per sé, ravvisabile nella violazione delle norme, operata con l’emissione dell’atto o con la sua esecuzione. Non si vede, infatti, come l’esecuzione di un atto amministrativo illegittimo possa non integrare, di per sé, gli estremi della colpa, anche in ipotesi lieve, specie se riferita direttamente ad una struttura pubblica, organizzata e qualificata per agire, nella sua attività vincolata, secondo il diritto” [Cass., sez. un., 22.10.1984 n. 5361].
Tuttavia, secondo la tesi da preferire, colpa della pubblica amministrazione, non è in re ipsa per la sola adozione di un atto che il giudice ha ritenuto illegittimo e ha annullato [Cass., III, 10.8.2002 n. 12144].
Tale tesi è stata fatta propria dalla citata pronuncia n. 500/1999, che, ricostruendo la responsabilità dell’amministrazione come aquiliana, ha ritenuto che chi chiede il risarcimento del danno abbia l’onere di provarne la colpa in concreto.
Ha osservato la decisione che il giudice deve «stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della pubblica amministrazione; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.; e non sarà invocabile, ai fini dell’accertamento della colpa, il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo, poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c. (sent. n. 884/61; n. 814/67; n. 16/78; n. 5361/84; n. 3293/94; n. 6542/95), non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; l’imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obbiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della pubblica amministrazione intesa come apparato (in tal senso, v. sent. n. 5883/1991) che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità».
La giurisprudenza amministrativa, nell’intento di procedere all’“individuazione di adeguati criteri applicativi dei principi espressi dalla Cassazione” nella citata sentenza n. 500/1999, ha osservato che l’onere di provare la colpa dell’amministrazione, incombente sul danneggiato, può essere assolto attraverso “prove indirette ed adeguate semplificazioni probatorie consentite dall’ordinamento processuale”, e segnatamente, mediante lo strumento della presunzione. In particolare “l’accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo (…) può rappresentare, nella normalità dei casi, l’indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell’amministrazione”.
Secondo tale ricostruzione, la colpa dell’amministrazione può essere ragionevolmente presunta alla luce di indici significativi, quale l’accertata illegittimità dell’atto amministrativo, atteso che la colpa costituisce un effetto, se non automatico, comunque altamente probabile della riscontrata illegittimità, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica; non si tratta tuttavia di presunzione assoluta, ma relativa, in quanto è salva la possibilità per l’amministrazione di fornire la prova contraria dell’assenza di colpa, adducendo ipotesi di errore scusabile, quali la formulazione incerta delle norme applicate, le oscillazioni interpretative della giurisprudenza, la rilevante complessità del fatto, i comportamenti di altri soggetti [Cons. St., V, 6.3.2007 n. 1049; Id., VI, 17.7.2008 n. 3602].
Alla tesi giurisprudenziale che ipotizza una presunzione relativa di colpa, con possibilità di onere della prova contraria da parte dell’amministrazione, va mossa l’obiezione che sebbene l’onere di provare la colpa possa essere assolto mediante prove indiziarie, quale la presunzione, tuttavia non si determina un inversione dell’onere della prova, non consentita nel sistema della generale responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. Sicché, spetta pur sempre al giudice vagliare d’ufficio se le presunzioni fornite dal danneggiato sono idonee a provare la colpa, e dovendo pertanto escludere d’ufficio la colpa dell’amministrazione, se le presunzioni non appaiono idonee, secondo le risultanze concrete.
Dunque il giudice può verificare d’ufficio, senza necessità di deduzione da parte dell’amministrazione, se sussiste una situazione di oggettiva incertezza normativa, che tolga all’illegittimità dell’atto il valore di indizio univoco della sussistenza della colpa [Cons. St., VI, 19.11.2003 n. 7473].
Secondo un’ulteriore ricostruzione, la responsabilità dell’amministrazione va ricondotta allo schema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.: pur nell’ambito di tale schema, sarebbe possibile ricorrere a meccanismi di semplificazione probatoria della colpa, utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. [Cons. St., VI, 13.2.2009 n. 775, in UA 2009, 734, nt. Caranta; Cons. St., V, 19.3.2007 n. 1307; Cons. St., V, 20.3.2007 n. 1346, in UA 2007, 1374, nt. Proietti].
Di tali principi è stata fatta applicazione anche in materia di pubblici appalti.
In un’ipotesi di diniego di aggiudicazione, si è escluso il risarcimento, essendo stato ritenuto sussistente l’errore scusabile dell’amministrazione, a causa di incertezze e oscillazioni della giurisprudenza nell’interpretazione delle norme [Tar Sicilia – Catania, I, 25.11.2002 n. 2261, in UA 2003, 595, nt. Pagano].
Analogamente, in un’ipotesi di esclusione di un’offerta ritenuta anomala, esclusione annullata dal giudice amministrativo, quest’ultimo ha respinto la domanda di risarcimento del danno, ritenendo insussistente la colpa dell’amministrazione: ha osservato il Consiglio di Stato che la colpa non sussiste quando la violazione delle regole sia frutto di un errore scusabile e all’amministrazione non possano essere mosse censure sul piano della diligenza e della perizia [Cons. St., VI, 19.7.2002 n. 4007].
In un’ipotesi in cui l’amministrazione aveva effettuato un affidamento a trattativa privata, annullato dal giudice di primo grado, sicché l’amministrazione in esecuzione della sentenza di primo grado aveva interrotto l’esecuzione del contratto, quando in prosieguo l’affidamento a trattativa privata è stato ritenuto legittimo dal giudice di appello, il giudice amministrativo ha escluso la colpa dell’amministrazione per aver interrotto l’esecuzione del contratto, e conseguentemente negato il diritto al risarcimento del danno in capo all’affidatario a trattativa privata, osservando che è necessaria la colpa per la configurazione della responsabilità della pubblica amministrazione e non è sufficiente la dichiarazione dell’illegittimità di un atto amministrativo per integrare l’elemento soggettivo della fattispecie di responsabilità [Cons. St., V, 19.10.2002 n. 5789, in UA 2003, 194, nt. Caranta].
In un caso, invece, in cui l’amministrazione aggiudicatrice aveva omesso di escludere un’impresa che non aveva formulato la dichiarazione di disponibilità di tutte le attrezzature necessarie ad assicurare una corretta esecuzione dell’appalto, e che a seguito di verifica istruttoria era risultata priva di alcuni indispensabili strumenti operativi, il giudice ha ritenuto che l’amministrazione avesse violato chiare regole di condotta nella conduzione della gara, e che dunque fosse sussistente la sua colpa [Cons. St., V, 10.8.2004 n. 5500].
Si è ritenuta sussistente la colpa in un caso di composizione della commissione di gara, sostanzialmente priva di competenza tecnica, che è stata ritenuta una colpevole inosservanza dei doveri di prudenza e di diligenza che formano il tessuto insostituibile di una azione amministrativa responsabile e consapevole dell’adeguato perseguimento del pubblico interesse nella scelta del contraente [Cons. St., V, 17.10.2008 n. 5100].
 
4.2. La giurisprudenza comunitaria in tema di onere della prova della colpa della p.a. in materia di pubblici appalti
Secondo la C. giust. UE, in base al diritto comunitario degli appalti il risarcimento dei danni non è subordinato alla prova, da parte del danneggiato, del dolo o della colpa della pubblica amministrazione; è stata ritenuta non conforme al diritto eurounitario la legge portoghese, che subordinava il risarcimento del danno in materia di appalti alla prova della colpa della p.a., con onere probatorio a carico del danneggiato [C. giust. CE, 14.10.2004 C – 275/2003, in UA 2005, 36, nt. Protto].
L’ambito della decisione è circoscritto agli appalti comunitari, ma è da ritenere estensibile a quelli sotto soglia aventi rilevanza transfrontaliera certa.
La decisione è di immediata applicazione nell’ordinamento italiano, con l’ambito sopra visto.
La giurisprudenza italiana del Consiglio di Stato aveva interpretato tale decisione della C. giust. non già nel senso che essa impone una responsabilità oggettiva della p.a., ma solo nel senso che l’onere della prova non può essere a carico del danneggiato e che pertanto si determina un’inversione dell’onere della prova.
La giurisprudenza nazionale aveva infatti osservato che la citata decisione europea appare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della pubblica amministrazione e non all’esigenza di accertare la responsabilità prescindendo dalla colpa dell’amministrazione. Nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della pubblica amministrazione l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari [Cons. St., VI, 13.2.2009 n. 775; Cons. St., VI, 9.3.2007 n. 1114].
Inoltre, va considerato che la stessa Corte di giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (C. giust. CE, 5.3.1996 C-46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali) [Cons. St., VI, 9.6.2008 n. 2751, in UA 2008, 1285, nt. Manganaro].
Tuttavia la C. giust. UE è tornata sull’argomento, sempre in materia di pubblici appalti, decidendo su questione pregiudiziale relativa alla legge austriaca, e ha ritenuto che in materia di appalti di rilevanza comunitaria il legislatore nazionale non può subordinare il risarcimento del danno all’onere della prova della colpa della p.a., nemmeno se l’onere della prova viene agevolato mediante l’utilizzo di presunzioni relative [C. giust. UE, III, 30.9.2010 C-314/09, Stadt Graz, in UA 2011, 398, nt. Giovagnoli].
Ha infatti testualmente statuito la direttiva 89/665/CEE deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
Il ragionamento della Corte fa leva sul rilievo che la direttiva non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella di non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità (par. 35).
Osserva la Corte che la direttiva riconosce agli Stati membri la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.
In tale contesto, il rimedio risarcitorio può costituire, se del caso, un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all’obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva, soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata – così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso – alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice (parr. 38 e 39).
Se si considera che il ragionamento della Corte fa leva sull’essere il risarcimento un rimedio alternativo all’annullamento degli atti di gara, e sulla conseguente considerazione che non occorre la prova della colpa perché tale prova non occorre neppure per l’annullamento degli atti di gara, si può pervenire alla conclusione che non occorre la prova della colpa della p.a. solo quanto il risarcimento del danno viene disposto come alternativo all’annullamento degli atti di gara non essendo più tale annullamento possibile; la prova della colpa resterebbe invece necessaria quando l’azione risarcitoria è proposta in via autonoma senza chiedersi l’annullamento che sarebbe ancora possibile, o per i danni ulteriori non soddisfatti con l’annullamento degli atti di gara [In tal senso Giovagnoli].
La giurisprudenza italiana si è adeguata ai principi affermati dalla C. giust. UE, e in giudizi in materia di appalti ha escluso di dover accertare la colpa della p.a. al fine del riconoscimento del risarcimento del danno [Cons. St., V, 25.2.2019 n. 1257; Id., V, 2.1.2019 n. 14; Id., III, 22.8.2018 n. 5014; Id., III, 21.3.2018 n. 1828; Id., III, 19.1.2018 n. 358; Id., V, 31.12.2014 n. 6450; Id., V, 27.3.2013 n. 1833; Id., V, 8.11.2012 n. 5686; Id., V, 31.1.2012 n. 482; Id., V, 21.11.2011 n. 6127; Id., V, 24.2.2011 n. 1193].
È recessiva la tesi che continua invece a ritenere che la colpa, insieme con il dolo, sono elementi imprescindibili, ai sensi dell’art. 2043 c.c., perché si formi una fattispecie che possa dare luogo al danno ingiusto [Cons. St., V, 24.2.2011 n. 1184].
Tuttavia, rispetto all’orientamento eurounitario la giurisprudenza del Consiglio di Stato fa una puntualizzazione in ordine al ritiro di atti di gara quale conseguenza di una interdittiva antimafia ostativa; si è affermato che tale tipologia di atti è fuori dal perimetro degli appalti in senso stretto sicché riprende vita il parametro dell’elemento soggettivo della p.a. quale componente essenziale per l’affermazione della responsabilità: “i provvedimenti informativi e interdittivi dell’autorità di pubblica sicurezza si collocano al di fuori della procedura a evidenza pubblica e attengono a profili di prevenzione (…) del tutto tipici del nostro sistema nazionale. Nello stesso senso debbono essere vagliate le scelte dell’amministrazione appaltante che dei citati provvedimenti in-formativi e interdittivi costituiscono diretta e immediata conseguenza, fuoriuscendo anch’essi dall’ “ordinario” schema della responsabilità operante nella materia dei pubblici appalti, definito dalla giurisprudenza comunitaria. Di conseguenza nella fattispecie in esame la valutazione sulla dedotta responsabilità della stazione appaltante non può prescindere dall’indagine sull’esistenza o meno del profilo soggettivo del dolo o della colpa” [Cons. St., V, 12.11.2019 n. 7751; Id., III, 26.6.2019 n. 4401, Id., III, 5.3.2018 n. 1401].
Si può tuttavia dubitare che siffatta esegesi sia conforme ai principi espressi dalla giurisprudenza europea.
 
4.3. La prova della colpa in caso di esecuzione di sentenza di primo grado riformata in appello. La responsabilità oggettiva per impossibilità sopravvenuta
Problematica è la questione della sussistenza o meno della colpa della pubblica amministrazione quando quest’ultima dia esecuzione ad una sentenza di primo grado, che viene poi riformata in appello: in siffatta evenienza, è da verificare se si possa imputare all’amministrazione una violazione delle regole di diligenza, prudenza, perizia, violazione in cui si concreta la colpa.
La plenaria ha da ultimo ritenuto che in questi casi si profila una responsabilità oggettiva della stazione appaltante, che risponde dal danno da impossibilità di esecuzione del giudicato in forma specifica, e che per converso l’azione di danni non è esperibile dal privato verso altro privato, salvo azione di regresso verso quest’ultimo da parte della stessa stazione appaltante [Cons. St., ad. plen., 12.5.2017 n. 2].
Prima di esporre analiticamente gli argomenti della plenaria giova ricostruire il percorso della precedente in giurisprudenza.
Prima della plenaria la giurisprudenza in tali ipotesi di regola escludeva la colpa, essendo l’amministrazione obbligata a dare esecuzione alle sentenze di primo grado esecutive (obbligo di esecuzione sanzionato anche nelle forme dell’azione di esecuzione), a pena di responsabilità, sicché, ove venga eseguita una sentenza di primo grado che poi viene riformata in appello, non può ritenersi sussistente l’elemento della colpa.
Si pensi al caso in cui il giudice di primo grado respinga un ricorso contro un atto di esclusione da gara o un diniego di aggiudicazione, sicché l’appalto ha esecuzione; ove poi la sentenza venga riformata in appello, non sembra si possa ravvisare un elemento di colpa dell’amministrazione, dovendosi ritenere che quanto meno la soluzione giuridica era complessa e dubbia, se due giudici nella medesima vicenda si sono pronunciati in senso opposto.
O si pensi al caso, opposto, in cui il giudice di primo grado accolga un ricorso contro un atto di esclusione da gara o un diniego di aggiudicazione, e l’amministrazione in esecuzione di tale sentenza affidi l’appalto al ricorrente, negando l’aggiudicazione all’originario vincitore. Se poi il giudice di appello riforma la sentenza, riconoscendo legittima l’originaria aggiudicazione, sembra doversi escludere una colpa della stazione appaltante nei confronti dell’originario aggiudicatario.
In tale linea di pensiero la giurisprudenza aveva osservato che quando l’amministrazione pone in essere atti amministrativi in esecuzione di una sentenza di primo grado esecutiva, l’adozione degli atti conseguenti all’ordine del giudice integra un comportamento dovuto in modo che, rispetto a tali atti, non si pone un problema di imputabilità soggettiva degli stessi in relazione agli stati psicologici soggettivi di dolo o colpa del soggetto agente perché tali atti non sono volontari e corrispondono all’esigenza di conformare l’ordinamento positivo all’ordine del giudice [Cons. St., V, 19.10.2002 n. 5789].
L’esclusione della colpa dell’amministrazione si traduceva, però, in un vuoto di tutela per la controparte, e unico rimedio contro tali evenienze era un accorto uso della tutela cautelare, che paralizzasse l’esecuzione delle sentenze di primo grado nelle more della decisione dell’appello.
Invece, non esclude la colpa la circostanza che il giudice di primo grado abbia dato ragione all’amministrazione con decisione ribaltata in appello, in quanto anche il Tar può incorrere in errori manifesti e comunque non appare ragionevole dare rilevanza ad un fatto successivo a quello che ha generato l’illecito; aderendo a tale impostazione, inoltre, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio, finendo il giudizio di primo grado ad essere quello decisivo.
Si è tuttavia affermato che l’accoglimento o il rigetto di un’istanza cautelare da parte del giudice amministrativo non può costituire di per sé sola causa di giustificazione della condotta illegittima della pubblica amministrazione ai fini del risarcimento del danno [Cons. giust. sic., 18.4.2006 n. 153].
In conclusione l’unico caso certo in cui la giurisprudenza esclude la colpevolezza dell’amministrazione in relazione alle sorti dello specifico processo è quello in cui l’amministrazione si sia dovuta conformare ad una pronuncia di primo grado (sia essa cautelare o di merito) di segno opposto a quello dell’atto amministrativo impugnato, la cui validità sia stata però riconosciuta dall’esito finale del giudizio.
Si è così ritenuto che qualora il provvedimento di annullamento in sede giurisdizionale dell’aggiudicazione di una gara d’appalto sia successivamente caducato, la causazione del danno subito dal soggetto che risulti, all’esito del giudizio di appello, legittimo aggiudicatario, in fattispecie in cui il contratto sia ormai stato eseguito, in conseguenza dell’esecuzione della sentenza di primo grado, non è ascrivibile alla pubblica amministrazione, atteso che l’amministrazione non avrebbe potuto sottrarsi dal dare provvisoriamente esecuzione a detta sentenza, in assenza di un provvedimento cautelare che ne avesse sospeso l’esecutività ex lege [Cons. giust. sic., 19.10.2006 n. 587, in UA 2007, 617, nt. Garofalo].
In tale fattispecie, allorché un terzo abbia beneficiato degli effetti di una sentenza di annullamento di un provvedimento di aggiudicazione, addivenendo alla stipula del contratto ed all’esecuzione di esso, e detta sentenza sia stata successivamente riformata in appello, confermando la legittimità dell’aggiudicazione originariamente impugnata, esclusa la colpa dell’amministrazione, occorrerebbe fare riferimento a fattispecie particolari, quale l’istituto della restituzione dell’indebito ovvero dell’arricchimento senza giusta causa. In tale prospettiva, l’esame dovrebbe concentrarsi sulle sorti dell’utile d’impresa e sulla sua definitiva spettanza in favore dell’una o dell’altra delle parti coinvolte nel giudizio amministrativo di legittimità, nonché sulla sua restituibilità alla pubblica amministrazione ovvero alla controparte che – come nella specie- in esito al giudizio definitivo, sia risultata legittima aggiudicataria, avente come tale titolo a svolgere il lavoro o il servizio (in fatto svolto, nelle more del giudizio, da altro soggetto sine titulo [Cons. giust. sic., 19.10.2006 n. 587].
In tale linea di pensiero è stata esclusa la colpa dell’amministrazione che in dichiarata esecuzione di una pronuncia cautelare abbia adottato un provvedimento successivamente annullato dal giudice di appello, anziché optare per l’immediata impugnazione dell’ordinanza cautelare [Tar Puglia – Bari, I, 7.3.2007 n. 650].
Il Consiglio di Stato, per giustificare l’interesse di una impresa alla decisione, non ha escluso che il soggetto che ha svolto sine titulo un appalto pubblico possa essere chiamato a restituire l’utile di impresa, o all’amministrazione ovvero direttamente alla controparte che, in esito al giudizio definitivo, sia risultata legittima aggiudicataria, avente come tale titolo a svolgere il lavoro o il servizio [Cons. St. VI, 15.4.2008 n. 1750].
La domanda dell’originario aggiudicatario nei confronti del soggetto che ha effettuato i lavori dovrebbe comunque essere proposta davanti al giudice ordinario, tenuto conto che è stato escluso che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati, in presenza di azioni tra privati, che non possono essere attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo per mere ragioni di connessione [Cons. St., VI, 13.6.2008 n. 2957].
Sulla stessa linea di pensiero si è posto il Consiglio di giustizia amministrativa della regione siciliana [Cons. giust. sic., 21.7.2008 n. 600]: la fattispecie concreta era piuttosto originale, in quanto la sentenza di primo grado, poi riformata in appello, annullava l’aggiudicazione. In esecuzione di essa, e rinnovata la gara, risultava aggiudicataria un’ulteriore impresa, diversa sia dall’originaria ricorrente che dall’originaria aggiudicataria, che nelle more dell’appello eseguiva integralmente il contratto.
L’originaria aggiudicataria agiva in ottemperanza della sentenza di appello che riteneva legittima l’originaria aggiudicazione, chiedendo il risarcimento del danno.
La decisione ha escluso che potesse esservi responsabilità dell’amministrazione per l’evidente difetto di alcun profilo di soggettiva addebitabilità delle conseguenze di un’attività imposta ex lege dall’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado; ha escluso la responsabilità dell’ultima aggiudicataria; ha verificato se siano esplorabili altre strade quali quelle della restituzione dell’indebito o dell’arricchimento sine causa ma così si finirebbe per travalicare i limiti della domanda che è stata proposta. La sede propria di tali domande sarebbe quella di cognizione, dove indagare le sorti dell’utile di impresa e, in particolare, la sua definitiva spettanza in favore dell’una o dell’altra delle parti coinvolte nel giudizio amministrativo di legittimità o di altra impresa, rimasta a esso estranea; nonché l’eventuale sua ripetibilità, o da parte dell’amministrazione (ex art. 2033 c.c.), ovvero (ma, in questo caso, ex art. 2041 c.c.) direttamente dalla parte che, in esito al giudicato definitivo, sia risultata quella legittimata a conseguire l’aggiudicazione e, come tale, l’unica avente titolo a svolgere il lavoro o il servizio (in fatto svolto, nelle more del giudizio, da un altro soggetto, che, civilisticamente, potest capere sed non potest retinere, avendo eseguito l’appalto sine titulo; nel senso, più precisamente, che ciò è avvenuto in base a un titolo bensì provvisoriamente efficace, ma infine caducato retroattivamente dal giudicato di merito).
Si tratta, secondo la decisione in commento, d’un armamentario giuridico poco utilizzato, epperò atto a riequilibrare – non solo equamente, ma soprattutto in conformità al principio di causalità degli spostamenti patrimoniali definitivi – i rapporti patrimoniali fra tutti i soggetti usualmente coinvolti in vicende di questo tipo: l’amministrazione; l’impresa che abbia in concreto eseguito sine titulo l’opera o il servizio; e quella che avrebbe invece dovuto eseguirlo.
Quanto alla giurisdizione, non vertendosi di azione risarcitoria, non potrebbe escludersi che spetti al giudice ordinario, in coerenza con il rilievo che si tratterebbe di domande proponibili tra due soggetti privati e aventi il loro esclusivo fondamento nel diritto civile (ex artt. 2033 e 2041 c.c.).
Finora, non consta che la Cassazione abbia trattato simili questioni, essendo intervenuta solo per precisare che in tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della p.a., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto di opere, tra la p.a. ed un privato, l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace [Cass., sez. un., 11.9.2008 n. 23385].
Secondo la plenaria, l’art. 112 c. 3 c.p.a., per il caso di sopravvenuta impossibilità di esecuzione del giudicato, configura una responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione, in cui il risarcimento è dovuto a prescindere dall’esservi stata la colpa dell’amministrazione, come accade ad esempio quando l’amministrazione aggiudica un appalto in esecuzione di una sentenza di primo grado, che venga poi riformata dal giudice di appello; sempre secondo la plenaria l’azione di danno per sopravvenuta impossibilità di esecuzione del giudicato ha come legittimata passiva solo l’amministrazione, e non il soggetto privato che si sia avvantaggiato del provvedimento illegittimo, salva la possibilità di un’azione di regresso che la p.a. eserciti verso tale privato [Cons. St., ad. plen., 12.5.2017 n. 2].
Secondo la plenaria, sebbene il legislatore abbia qualificato espressamente questo rimedio in termini di “azione di risarcimento dei danni”, evocando, così, l’istituto della responsabilità civile, rispetto al tradizionale risarcimento del danno, l’azione in esame presenta significativi profili di peculiarità: in sintesi, (i) si tratta di un caso di responsabilità contrattuale e non aquiliana; (ii) in deroga all’art. 1218 c.c., il risarcimento è dovuto anche in caso di impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore; (iii) la responsabilità è oggettiva; (iv) restano invece fermi i due presupposti del nesso di causalità e dell’antigiuridicità della condotta.In primo luogo, il presupposto del rimedio è individuato nell’esistenza di un danno (anche solo) «connesso all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato». Ѐ significativo evidenziare che l’art. 112, c. 3, c.p.a. distingue il danno “connesso” all’impossibilità (o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica del giudicato) da quello derivante dalla violazione o elusione del giudicato, indicato, subito dopo, come distinto presupposto per l’esercizio dell’azione.
Rispetto alla formulazione originaria dell’art. 112, c. 3, c.p.a. (prima della novella introdotta dal d.lgs. n. 195/2011), il principale profilo di novità è proprio questo: l’avere, cioè, esteso il rimedio alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque “connesso” all’impossibilità di ottenerne l’esecuzione in forma specifica.
Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trova la sua causa in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l’azione di risarcimento del danno –e non un semplice indennizzo- anche nel caso in cui, pur non configurandosi un inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato.
Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale (che si traduce nell’ammissibilità, nelle ipotesi indicate, dell’azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche quando questa si svolge in unico grado dinnanzi al Consiglio di Stato), ma anche sostanziale, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile, ammette una forma di responsabilità che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato.
La deroga, in particolare, è al regime della responsabilità da inadempimento dell’obbligazione, come delineato dall’art. 1218 c.c.
Dal giudicato amministrativo, infatti, almeno quando esso riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza. E che si tratti di obbligazione il cui inadempimento è assoggettabile al regime dell’inadempimento contrattuale è confermato dalla prescrizione decennale della relativa azione.
In base all’art. 1218 c.c., il debitore si libera dall’obbligazione se prova che l’inadempimento è stato determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La disciplina dell’art. 1218 c.c. trova riscontro nell’art. 1256 c.c., secondo cui l’obbligazione si estingue, invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore.
Rispetto alla disciplina civilistica dell’inadempimento dell’obbligazione cosi sommariamente richiamata, l’art. 112, c. 3, c.p.a. introduce un elemento di specialità, perché dispone che l’impossibilità derivante da causa non imputabile (non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato) non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura “risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato.
Quella che la norma presuppone è, dunque, una forma di responsabilità che, nei casi di impossibilità non imputabile a violazione o elusione del giudicato, presentata i caratteri della responsabilità oggettiva, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), che, invece, necessariamente connota le ipotesi di violazione o elusione del giudicato; potendo la responsabilità essere esclusa solo per la insussistenza (originaria) o il venir meno del nesso di causalità, il cui onere probatorio grava sul debitore medesimo.
Viene così in rilievo un rimedio che assume una connotazione tipicamente compensativa: una sorta, in altri termini, di ottemperanza per equivalente (già conosciuta, del resto, nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale anteriore alla novella del 2011) che sostituisce l’ottemperanza in forma specifica nei casi in cui questa non sia più possibile. Essa si traduce nel riconoscimento dell’equivalente in denaro del bene della vita che la parte vittoriosa avrebbe avuto titolo di ottenere in natura in base al giudicato. Si ha, quindi, un rimedio alla impossibilità di esecuzione in forma specifica della sentenza, in un’ottica, per l’appunto, “rimediale” della tutela, quale si è andata delineando a partire dalle sentenze n. 204/2004 e n. 191/2006 della Corte costituzionale.
La funzione sostitutiva del rimedio giustifica, allora, la scelta del legislatore sia di prevederne l’ammissibilità in sede di ottemperanza, anche in un unico grado, in quanto “connessa” all’impossibilità oggettiva di esecuzione del giudicato, sia di slegarla dal requisito della colpa, sia pure intesa, in tema di illecito della pubblica amministrazione, nella lettura “oggettiva” che ne dà la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea: trattandosi di una tutela che sostituisce l’ottemperanza non più possibile in forma specifica, essa soggiace, sia sul piano del rito, sia sul piano dei presupposti sostanziali, alle stesse regole dell’azione di ottemperanza (in forma specifica), che pure si caratterizza come rimedio “oggettivo”, sganciato dalla prova del dolo o della colpa. E’, in altri termini, una ragionevole scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio della impossibilità di esecuzione del giudicato.
La nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege in conseguenza dell’impossibilità di eseguire il giudicato presuppone, comunque, la presenza, se non dell’elemento soggettivo, degli altri elementi minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito.
Tali elementi essenziali, significativamente necessari anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, sono il rapporto di causalità e l’antigiuridicità della condotta.
Affinché sorga il rimedio di cui all’art. 112, c. 3, c.p.a., dunque, è necessario e al tempo stesso sufficiente che l’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato sia riconducibile, sotto il profilo causale, alla condotta del soggetto dal quale si pretende il risarcimento e che tale condotta non risulti assistita da una causa di giustificazione, la cui presenza precluderebbe l’insorgenza della responsabilità e, dunque, la nascita dell’obbligazione risarcitoria ex lege.
Ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità civile, si deve muovere dall’applicazione di princìpi generali dell’illecito, oggetto di particolare elaborazione nel diritto penale e che trovano, in quel codice, positiva espressione negli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che nell’accertamento del nesso causale in materia civile (ed amministrativa) vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova, peraltro, il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, c. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Venendo al regime probatorio, deve rilevarsi che in materia di responsabilità da inadempimento dell’obbligazione (quale è, come si è detto, la responsabilità da impossibilità di esecuzione del giudicato che riconosce la spettanza del bene della vita), il creditore ha il solo onere – ex art. 1218 c.c. – di allegare e provare l’esistenza del titolo (in questo caso rappresentato dal giudicato), e di allegare l’esistenza di un valido nesso causale tra la condotta della parte obbligata e la mancata attuazione del giudicato.
Spetta, viceversa, alla parte “debitrice”, l’onere di provare il caso fortuito (inteso come specifico fattore capace di determinare autonomamente il danno), comprensivo del fatto del terzo (che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno), rimanendo a suo carico il fatto ignoto in quanto inidoneo a eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento.
La plenaria non esamina un ulteriore profilo della responsabilità “contrattuale” ex art. 112 c. 3 c.p.a. e in particolare non si sofferma sull’applicabilità o meno del limite risarcitorio al danno prevedibile ai sensi dell’art. 1225 c.c.; ma la qualificazione espressa che la plenaria dà a tale tipo di responsabilità in termini di responsabilità contrattuale dovrebbe rendere applicabile l’art. 1225 c.c.
La decisione della plenaria non persuade nemmeno sotto il profilo della qualificazione dell’azione e della antigiuridicità della condotta sotto il profilo dei principi: infatti il caso pratico esaminato dalla plenaria non è quello di un provvedimento illegittimo della p.a., ma quello inverso in cui la stazione appaltante ha dato esecuzione a una decisione di primo grado che ha dato ragione al ricorrente e dunque ha aggiudicato l’appalto a soggetto diverso dall’originario aggiudicatario e tale decisione è stata poi ribaltata in appello, sicché si conferma la legittimità dell’originaria aggiudicazione, m nel frattempo l’appalto è stato eseguito dal ricorrente vittorioso in primo grado, che risulta ex post non averne titolo. Qui si è formalmente fuori dalla “impossibilità sopravvenuta di esecuzione del giudicato” perché a rigore un giudicato che respinge il ricorso e conferma la legittimità del provvedimento della p.a. non deve essere eseguito in senso proprio, ma si tratta solo di dare esecuzione agli originari provvedimenti amministrativi, in questo caso ineseguibili perché la vicenda si era esaurita. Vero è che sussiste comunque una area di danno risarcibile per il soggetto beneficiario dell’originario provvedimento che è stato annullato. Si ricade qui nel caso di danno da provvedimento favorevole annullato, su cui il g.o. rivendica la sua giurisdizione. Ma il caso è diverso da quelli di solito esaminati, in cui il provvedimento favorevole viene annullato perché illegittimo, e dunque vi è una antigiuridicità della condotta della p.a. e una sua colpa, che giustificano e fondano l’azione risarcitoria. Nell’esempio qui fatto invece, difetta non solo la colpa ma anche l’antigiuridicità della condotta della p.a. e persino il nesso di causalità tra condotta della p.a. e danno. Sembra che in un caso del genere la responsabilità, in tutti i suoi elementi costitutivi, sia da intestare solo in capo al ricorrente di primo grado, e l’azione risarcitoria sarà una lite tra privati da proporsi davanti al g.o., secondo le considerazioni già fatte dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e del CGARS anteriore alla plenaria n. 2/2017 e sopra riportata.
Invero la decisione della plenaria, forse consapevole dell’opinabilità del principio di diritto espresso, cerca di fondare la colpa in concreto su profili fattuali compendiati nel par. 36 della decisione: dove si evidenzia che la p.a. era stata particolarmente frettolosa nel dare esecuzione alla sentenza di primo grado pur senza esservi compulsata, e addirittura prima dell’esito cautelare di appello, sicché vi sarebbe un ulteriore e diverso profilo di colpa della p.a. per aver eseguito una sentenza di primo grado senza particolare prudenza, colpa riconducibile al paradigma dell’art. 96 c. 2 c.p.c.
Ma neppure tali affermazioni appaiono persuasive: invero, le decisioni del giudice amministrativosono esecutive anche prima del passaggio in giudicato e recano sempre l’ordine rivolto alla p.a. di darvi esecuzione, e la regola è, dovrebbe essere, che la p.a. esegua spontaneamente e autonomamente le decisioni del giudice, non dovendo attendere né una diffida di parte, né un giudicato, sicché la stazione appaltante nella specie da un lato era obbligata a dare esecuzione alla decisione di primo grado, e dall’altro lato non era affatto obbligata a impugnare la decisione o attendere la pronuncia di appello per determinarsi.
Il vero è che nel caso specifico andava esclusa ogni responsabilità dell’Amministrazione e residuava la sola responsabilità del ricorrente privato vittorioso in primo grado; si trattava dunque di una lite tra privati da azionarsi, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite, davanti al giudice civile, senza l’inutile complicazione dell’affermazione di una responsabilità oggettiva della stazione appaltante (senza colpa, senza antigiuridicità, senza nesso causale), e di una successiva azione di rivalsa della stazione appaltante verso il privato autore effettivo del danno.
Quanto all’ambito soggettivo dell’azione ex art. 112, c. 3, c.p.a., sotto il profilo dei legittimati passivi, una parte della giurisprudenza amministrativa aveva, prima della plenaria n. 2/2017, in alcuni casi ritenuto che in materia di risarcimento del danno da aggiudicazione illegittima, vi sarebbe, ex art. 2055 c.c., e cioè in tema di responsabilità aquiliana e non contrattuale, una responsabilità solidale tra l’amministrazione e l’impresa beneficiaria del provvedimento illegittimo. Si è ammessa, quindi, la possibilità per il giudice amministrativo sia di pronunciare la condanna in solido al risarcimento del danno, sia di ripartire, anche solo ai fini del futuro esercizio dell’azione di regresso da parte dell’amministrazione, le quote interne di responsabilità [Cons. St., VI, 13.1.2012 n. 115; Id. VI, 15.10.2012 n. 529].
Gli argomenti a sostegno di questo orientamento possono essere così sintetizzati:
– il vincolo di solidarietà tra l’amministrazione e il beneficiario dell’atto illegittimo (e il conseguente potere del giudice amministrativo di pronunciare statuizione anche nei confronti di quest’ultimo), troverebbe il suo presupposto normativo nell’art. 41, c. 2, ultimo periodo, c.p.a., il quale ha previsto che «qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell’art. 49» all’integrazione del contraddittorio;
– sotto il profilo processuale, l’accertamento della responsabilità concorrente dell’impresa aggiudicataria e delle quote concorsuali di riparto interno tra quest’ultima e l’amministrazione sarebbe in linea con i principi fondanti la giustizia amministrativa, in base ai quali la controversia va decisa con l’esercizio di poteri decisori e conformativi, ed imposto dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, da intendersi, in assenza di una formale domanda di regresso da parte dell’amministrazione, sulla base di un’interpretazione sostanzialistica degli atti processuali di parte, idoneo a ricomprendere nelle richieste e difese formulate dalle parti anche gli evidenziati momenti di accertamento (in altri termini, il fatto stesso che l’amministrazione, pur senza formulare azione di regresso, si difenda eccependo che la responsabilità è ascrivibile, in tutto o in parte, all’impresa aggiudicataria, consentirebbe al giudice di accertare il riparto delle quote di responsabilità nei rapporti interni).
Nell’ipotesi in cui, la domanda di risarcimento del danno sia proposta in sede di ottemperanza ai sensi dell’art. 112, c. 3, c.p.a. e sia diretta ad ottenere il ristoro del danno connesso all’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato, agli argomenti appena indicati se ne aggiunge un altro, desunto dalla specifica disciplina dettata per il giudizio di ottemperanza.
L’art. 112, c. 1, c.p.a. ha previsto, infatti, che i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti non solo dalla pubblica amministrazione, ma anche dalla altre parti.
L’obbligazione di eseguire il giudicato grava, quindi, su tutte la parti soccombenti, ivi compresa la parte privata, che, di conseguenza, deve ritenersi a sua volta investita di legittimazione passiva rispetto all’azione di ottemperanza.
Se si ritiene allora che l’azione di risarcimento del danno da impossibilità oggettiva di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato di cui all’art. 112, c. 3, c.p.a., costituisca un rimedio con funzione sostitutiva dell’ottemperanza in forma specifica, coerentemente dovrebbe ammettersi pure che essa condivida con l’ottemperanza la platea dei soggetti passivamente legittimati.
La relativa domanda risarcitoria, pertanto, anche a prescindere dall’applicazione dell’art. 41, c. 2, ultimo periodo, c.p.a., potrebbe essere proposta anche contro il soggetto privato (nella specie l’impresa beneficiaria dell’aggiudicazione illegittima).
Gli argomenti così sintetizzati per ammettere la possibilità di far valere dinnanzi al giudice amministrativo, specie in sede di ottemperanza, la concorrente responsabilità del soggetto privato beneficiario del provvedimento illegittimo non sono, tuttavia, secondo la plenaria, risolutivi.
In senso contrario, va, innanzitutto, rilevato che tutte le richiamate norme processuali vanno coordinate ed interpretate alla luce dei limiti che incontra la giurisdizione amministrativa. Esse sono, infatti, norme sul rito, che presuppongono (e non pongono) la giurisdizione, che deve, quindi, desumersi dai criteri generali di riparto e non direttamente da esse.
In punto di riparto, la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
Si tratta, infatti, di una controversia tra due soggetti privati, avente ad oggetto una diritto soggettivo di contenuto patrimoniale.
Sul punto va ricordato che le Sezioni Unite della Corte di cassazione [Cass., sez. un., 3.10.2016 n. 19677], hanno ribadito che, in base agli artt. 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparata; con la conseguenza che esula dalla sua giurisdizione la domanda di risarcimento del danno proposta da un privato contro un altro privato, ancorché connessa con una vicenda provvedimentale (nella specie, si trattava della domanda di risarcimento del danno contro il funzionario autore materiale del provvedimento illegittimo).
Tale lettura riduttiva dell’estensione della giurisdizione amministrativa viene fondata sul dato testuale dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., in specie laddove, nell’individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a «l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» e le afferma come «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni». Tale ultimo inciso viene quindi valorizzato come limite all’estensione della giurisdizione amministrativa.
Né in senso contrario possono invocarsi ragioni di connessione, in quanto, come affermato anche dalla plenaria con sentenza 29.1.2014 n. 6, «salvo deroghe normative espresse, nell’ordinamento processuale vige il principio generale della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione» [Cass., sez. un. 19.4.2013 n. 9534; Id., 7.6.2012 n. 9185].
La carenza del presupposto processuale della giurisdizione risulta, quindi, risolutiva e costituisce, già di per sé, un ostacolo insormontabile all’interpretazione “sostanzialistica” sostenuta dall’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.
Del resto, va osservato che l’art. 41, c. 2, ultimo periodo, c.p.a. non prevede, a rigore (e in senso tecnico), un litisconsorzio necessario nei confronti del privato beneficiario dell’atto illegittimo. Litisconsorzio la cui necessità è del resto esclusa, come è noto, anche nel caso di obbligazioni solidali. Nei confronti di tale soggetto, infatti, la citata norma processuale non consente la formale proposizione di una domanda risarcitoria, ma stabilisce solo che la domanda proposta contro l’amministrazione (che, quindi, è individuata come unica legittimata passiva), gli debba essere notificata, al fine di realizzare la c.d. denuntiatio litis. In base all’art. 41, c. 2, ultimo periodo c.p.a., in altri termini, il privato non è destinatario di una domanda di risarcimento del danno contro di lui diretta, ma solo destinatario della notificazione della domanda proposta contro l’amministrazione, al fine di rendere possibile l’opponibilità del giudicato.
Lo scopo della norma in esame è, infatti, solo quello di fare in modo che l’eventuale giudicato di condanna tra il privato danneggiato dal provvedimento e l’amministrazione possa essere opposto anche al terzo beneficiario, come “fatto” che accerta l’antigiuridicità, nell’eventuale giudizio di “rivalsa”, quanto all’illegittimità dell’atto e ai presupposti della condanna risarcitoria subita dall’amministrazione.
Non sembrano decisivi neanche gli argomenti desumibili dall’art. 112, c. 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che l’obbligo di eseguire il giudicato grava non solo sull’amministrazione, ma anche sulle altre parti.
La norma è coerente con la constatazione che in moltissimi casi l’esecuzione in forma specifica del giudicato richiede, in particolare se si tratta di attuarne gli effetti restitutori e ripristinatori, oltre all’azione dell’amministrazione, l’ingerenza nella sfera giudica e materiale di soggetti privati, specie nel caso in cui sono stati destinatari di provvedimento favorevoli poi annullati e devono, per effetto del giudicato, adempiere ad obblighi –a ben guardare meramente conseguenziali o riflessi – restitutori e ripristinatori.
Escludere in tali casi la giurisdizione amministrativa solo perché vi è il coinvolgimento indiretto (e inevitabile) di soggetti privati vanificherebbe la funzione del giudizio di ottemperanza e, con essa, il valore fondamentale dell’effettività del giudicato (corollario del principio, di rango costituzionale ed europeo, del diritto di azione in giudizio).
Nel caso in cui, tuttavia, l’impossibilità di eseguire in forma specifica il giudicato apra le porte all’alternativa di una forma di tutela compensativa per equivalente, si può ragionevolmente dubitare che, nel silenzio del legislatore (che nel c. 3 dell’art. 112 non specifica che l’azione risarcitoria sostitutiva possa essere proposta nei confronti di tutte le parti), lo speciale regime di responsabilità oggettiva sopra delineato possa estendersi anche ai privati soccombenti; che, cioè, per giunta in deroga implicita alla generale regola del riparto e per connessione, possa estendersi al privato un regime di responsabilità connotato dagli evidenziati profili di specialità proprio con riguardo al fondamentale rilievo dell’elemento soggettivo.
La ricostruzione che precede non esclude che l’amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell’art. 112, c. 3, c.p.a., possa vantare un’azione nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato.
Si tratti di azione di regresso collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco, essa – secondo la disciplina sostanziale e processuale propria dell’azione che si ritenga esperibile – presupporrebbe l’accertamento (della sussistenza) della giurisdizione del giudice amministrativo, della sua proponibilità nell’ambito del giudizio di ottemperanza, anzi che con azione ordinaria, ma, soprattutto, richiederebbe una domanda in tal senso dell’amministrazione.
 
5. Il danno da perdita di chance
 
5.1. Nozione e danno risarcibile
La chance va intesa come rilevante probabilità di conseguire una vittoria, un risultato favorevole.
La chance, intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, vale a dire la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale [Cass., III, 4.3.2004 n. 4400; Cons. St., VI, 20.10.2010 n. 7593].
La chance è “una rilevante probabilità del risultato utile” frustrata dall’agire illegittimo dell’amministrazione [Cons. St., IV, 16.5.2018 n. 2907; Id., IV, 7.3.2013, n. 1403], non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile [Cons. St., V, 27.12.2017 n. 6088], se non addirittura -secondo più restrittivi indirizzi – la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al 50% [Cons. St., V, 25.2.2016 n. 762] o quella che l’interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava [Cons. St., VI, 18.10.2017 n. 4822].
Sicché si esclude la ricorrenza di una chance quando il conseguimento del bene della vita sia aleatorio; in ogni caso, l’annullamento di un provvedimento amministrativo, con salvezza del riesercizio, ad esito libero, del potere da parte della medesima amministrazione, non può mai fondare l’accoglimento di una domanda risarcitoria non venendo in rilievo un giudicato di spettanza [Cons. St., IV, 16.5.2018 n. 2907; Id., IV, n. 1615/2017 e n. 826//2018].
Si distingue dunque tra rilevante probabilità (chance risarcibile) e mera possibilità (chance irrisarcibile):occorre distinguere fra probabilità di riuscita, che va considerata quale chance risarcibile e mera possibilità di conseguire l’utilità sperata, da ritenersi chance irrisarcibile; il risarcimento del danno da perdita di chance richiede dunque l’accertamento di indefettibili presupposti di certezza del-lo stesso danno, dovendo viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una mera ed ipotetica eventualità di conseguimento del bene della vita (…). Il risarcimento del danno da perdita di chance (…) esprime uno schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso ad una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un’astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto (così come chiunque, in generale, partecipi ad una procedura comparativa per la possibilità di conseguire il bene o l’utilità messi a concorso). La chance iniziale e virtuale, che muove dall’essere in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini: non trattandosi di competizione di azzardo ma di contesa professionale in cui occorre mostrare titoli e capacità, di-viene effettiva e aumenta o diminuisce nel corso della procedura fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all’operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri.  Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell’amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l’interesse legittimo dell’operatore economico e – se è precluso anche il bene della vita cui l’interesse è orientato – è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta (). La tecnica risarcitoria della chance impone un ulteriore necessario passaggio: posto che l’illegittima condotta dell’amministrazione ha determinato un danno risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione occorre definire la misura percentuale che nella situazione data presentava per l’interessato la probabilità di aggiudicazione – la chance appunto – tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l’atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta. Si tratta di passaggio necessario: per la giurisprudenza l’operatore può beneficiare del risarcimento per equivalente solo se la sua chance di aggiudicazione ha effettivamente raggiunto un’apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule “probabilità seria e concreta” o anche “significativa probabilità” di aggiudica-zione del contratto. Al di sotto di tale livello, dove c’è la “mera possibilità” di aggiudicazione, vi è solo un ipotetico danno comunque non meritevole di reintegra-zione, poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto” [Cons. St., V, 11.7.2018 n. 4225].
In relazione al danno da perdita di chance, è controverso se tale ipotesi vada collocata nell’ambito della responsabilità aquiliana, contrattuale, o da contatto.
Il problema è forse mal posto, perché nell’ambito di ogni tipo di responsabilità si può in concreto produrre, oltre che il danno ad una situazione soggettiva attuale, il danno ad un’aspettativa, quale è la chance.
Sicché, la tematica della chance attiene, più che al tipo di responsabilità, al tipo di situazione soggettiva lesa e ai criteri di quantificazione del danno.
Il danno da perdita di chance esula certamente dalla categoria dei danni futuri ossia quei danni (danni emergenti o lucri cessanti) che si prevedono doversi verificare in un tempo successivo a quello in cui il danneggiato fa valere la sua pretesa.
I danni futuri sono anch’essi risarcibili, ove fondati su una causa efficiente già in atto e purché si verifichi la certezza o un’alta probabilità del futuro avvenimento (tipici danni futuri sono quelli sopportati dai congiunti della vittima di un incidente stradale in relazione ai mancati contributi assistenziali del congiunto scomparso). Il criterio differenziale va individuato nel fatto che il danno da perdita di chance costituisce un danno attuale (non irrealizzato), presente e costituito dalla lesione della possibilità di conseguire il risultato favorevole.
Nella valutazione del danno da perdita di chance il pregiudizio subito dal danneggiato incide direttamente sul suo patrimonio e deve essere valutato in termini di probabilità, pur senza certezza della realizzazione della chance favorevole: in questo senso conta la valutazione della probabilità perduta non la certezza del conseguimento del vantaggio sperato.
La perdita di chance costituisce un danno derivante ora da responsabilità contrattuale ora da responsabilità extracontrattuale, si identifica con la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, non con la perdita di quel risultato, ma richiede che siano stati posti in essere concreti presupposti per il realizzarsi del risultato sperato.
Nelle procedure concorsuali, come ad esempio in quelle di aggiudicazione dei pubblici appalti, oggetto di tutela è la chance di vittoria del concorrente escluso o a cui è stata negata l’aggiudicazione, e viene dunque tutelata la perdita di un’occasione favorevole, quale danno attuale.
 
5.2. La temporanea eliminazione del danno da perdita di chance da aprile a settembre 2010
Elemento di novità nella disciplina che è stata in vigore dal 27.4. al 15.9.2010 era la previsione secondo cui il risarcimento viene disposto “a favore del solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione”.
Sembrava, dunque, che per ottenere il risarcimento del danno, occorresse anche la prova che si avesse titolo all’aggiudicazione, e che dunque restasse esclusa la possibilità di ristoro per il danno da perdita di chance, ossia della mera probabilità di vittoria, occorrendo la prova della certezza della vittoria.
Sicché, se vi erano più ricorsi contro la stessa aggiudicazione, e i vizi riguardassero il bando o le esclusioni, ma non in via immediata e diretta l’aggiudicazione, se nessuno comprovasse che avrebbe conseguito l’aggiudicazione, il danno non andava risarcito.
Tale previsione è, tuttavia, scomparsa con il codice del processo amministrativo, in cui si dispone solo che se il giudice non ordina il subentro nel contratto, accorda il risarcimento per equivalente.
 
5.3. Il risarcimento in forma specifica e per equivalente della chance
Chi subisce un danno da perdita di chance può chiederne il ristoro o mediante la ripetizione dell’occasione perduta o per equivalente monetario [argomenta da Cass., sez. lav., 19.11.1997 n. 1522; Cons. St., VI, 25.7.2006 n. 4634].
In caso di ristoro per equivalente, ove il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, si ammette la liquidazione del danno via equitativa, con la tecnica della determinazione dell’utile conseguibile, scontato percentualmente [Cons. St., VI, 25.7.2006 n. 4634].
Secondo la Cassazione il danno da perdita di chance è dimostrabile in via presuntiva e probabilistica, della concreta e non meramente ipotetica possibilità di conseguire vantaggi economicamente apprezzabile, con liquidazione necessariamente equitativa [Cass., sez. lav., 12.4.2017 n. 9392; Cass. civ., I, 29.11.2016 n. 24295].
Nel processo amministrativo, la perdita di chance va, finché possibile, ristorata mediante ripetizione dell’occasione perduta [Cons. St., III, 17.11.2017 n. 5303], in quanto il risarcimento per equivalente monetario ha carattere sussidiario rispetto al rimedio dell’ottemperanza al giudicato con il rinnovo del procedimento e del provvedimento, che più puntualmente risponde al principio dell’effettività della tutela del cittadino nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione, sancito a livello costituzionale dagli artt. 24 e 113 [Cons. St., IV, 2.3.2004 n. 950].
In caso di procedure concorsuali, la chance di vittoria va ristorata in forma specifica con il rinnovo della procedura concorsuale.
Una volta che avvenga il ristoro della posizione lesa mediante rinnovo della procedura concorsuale, di regola non residua spazio alcuno per il risarcimento per equivalente monetario, salvo che sia data la prova, specifica, di un ulteriore danno emergente [Cons. St., V, 12.10.2004 n. 6579].
Il rinnovo della procedura concorsuale potrebbe, tuttavia, per mutamento della situazione di fatto, non ricreare le stesse identiche condizioni dell’originaria procedura.
In siffatta evenienza, secondo la giurisprudenza, non vi è spazio per ulteriore tutela risarcitoria, in quanto, purché l’operato dell’amministrazione sia stato legittimo, il mutamento della situazione di fatto non è ad essa amministrazione imputabile.
Quando, infatti, a causa del decorso del tempo, l’occasione ripetuta non è stata, recte, non poteva essere, identica all’occasione perduta, siffatta diversità non è imputabile all’amministrazione, bensì al mero decorso del tempo.
In tale prospettiva si è affermato che quando viene giudicato illegittimo l’affidamento diretto di un appalto (e, quindi, la gara non è stata proprio indetta), l’impresa che, come operatrice del settore, lo ha impugnato, lamentando la sottrazione al mercato di quel contratto, riceve, in via generale, una tutela risarcitoria integralmente satisfattiva per mezzo dell’effetto conformativo che impone all’Amministrazione di bandire una procedura aperta per l’affidamento dell’appalto (ed alla quale potrà partecipare, conservando, perciò, integre le possibilità di aggiudicazione del contratto). Nelle ipotesi, tuttavia, in cui tale forma di tutela (in forma specifica) non sia più possibile perché l’Amministrazione abbia deciso di gestire direttamente il servizio, internalizzandone l’esercizio, quella risarcitoria per equivalente da perdita di chance resta, in ogni caso, preclusa dall’assorbente rilievo che l’impresa asseritamente danneggiata non può certo dimostrare, per il solo fatto di operare nel settore dell’appalto illegittimamente sottratto al mercato, di aver perduto, quale diretta conseguenza dell’invalida assegnazione del contratto ad altra impresa, una occasione concreta di aggiudicarsi quell’appalto o, in altri, termini che, se l’Amministrazione lo avesse messo a gara, se lo sarebbe con elevata probabilità aggiudicato [Cons. St., III, 17.11.2017 n. 5303].
Si tratta perciò di circostanze di mero fatto, che rientrano nell’alea normale propria di qualsiasi procedura concorsuale, e che, come tali, non sono giuridicamente apprezzabili.
Ciò che rileva è il dato giuridico che l’amministrazione ha rinnovato la procedura concorsuale, ricostituendo la chance di vittoria in una situazione di sostanziale equivalenza con quella originaria.
Sicché, l’avvenuta esecuzione del giudicato di annullamento, mediante riproduzione della chance, nel rispetto delle regole della procedura concorsuale, rende inammissibile una richiesta di ristoro per equivalente monetario.
In definitiva, posto che l’interessato può scegliere di conseguire il ristoro della chance in forma specifica, mediante ripetizione dell’occasione perduta, o per equivalente monetario, e può, in particolare, optare per questa seconda forma risarcitoria ove il decorso del tempo e il mutamento delle circostanze rendono non più ripetibile l’occasione perduta con le medesime condizioni e situazioni originarie, una volta che invece opti per la ripetizione dell’occasione anziché per il ristoro monetario, non può più chiedere il risarcimento per equivalente dolendosi che l’occasione ripetuta non può più essere identica a quella perduta, per circostanze di fatto dovute al decorso del tempo, e in nessun modo imputabili all’amministrazione [Cons. St., VI, 5.12.2005 n. 6960].
 
5.4. Modalità del ristoro della perdita di chance per equivalente: il rinnovo virtuale della gara e la liquidazione equitativa
Nei pubblici appalti, il risarcimento in forma specifica della chance di vittoria del concorrente escluso, o comunque non aggiudicatario, consiste nella riammissione in gara del concorrente escluso, ovvero nella ripetizione della procedura.
Nel caso di illegittimo affidamento di appalto mediante trattativa privata, il risarcimento in forma specifica della chance consiste nell’indizione di pubblica gara per l’appalto in questione [Cons. St., VI, 18.12.2001 n. 6281].
Quando la chance di successo viene tutelata in forma reale, risultano esclusi danni da risarcire per equivalente, a parte il danno emergente legato al ritardo della procedura e alle spese aggiuntive sofferte [Cons. St., VI, 18.12.2001 n. 6281].
Tuttavia, al di là dei casi in cui il danno è con sicurezza quantificabile nei costi di partecipazione alla gara, ovvero nel mancato utile conseguente ad un illegittimo diniego di aggiudicazione quando è certo che l’appalto sarebbe stato aggiudicato al ricorrente, nella maggior parte degli appalti, l’annullamento dell’esclusione o della mancata aggiudicazione non comportano senz’altro la certezza che l’appalto sarebbe stato aggiudicato al ricorrente. Inoltre, se l’appalto è stato già aggiudicato e/o i lavori già eseguiti, il giudice in genere non ordina il rinnovo della gara.
Analogamente nel caso in cui viene annullata la gara a partire dal bando, sicché residua l’interesse strumentale al rinnovo della gara, ove nel frattempo i lavori siano stati eseguiti, il danno risarcibile è quello da perdita di chance di vittoria in una nuova gara [Cons. St., VI, 11.1.2010 n. 14].
Sicché, la chance di vittoria del ricorrente può essere tutelata solo per equivalente.
Nell’ambito del risarcimento per equivalente della chance, possono essere seguite due differenti tecniche.
La prima, talora praticata dalla giurisprudenza, consiste nel rinnovo “virtuale” della gara, per verificare se il ricorrente sarebbe stato il vincitore.
Nella seconda, il giudice si limita a monetizzazione con criteri probabilistici e presuntivi la perdita di chance.
Nel rinnovo virtuale della gara, il giudice amministrativo segue un meccanismo in cui fase di cognizione e fase di esecuzione si fondono in un unico giudizio. In particolare, il giudice, dopo aver annullato l’illegittima esclusione o l’illegittimo diniego di aggiudicazione, allorché non è possibile il ristoro in forma specifica (mediante riammissione in gara o mediante aggiudicazione), e non è neppure certo che il ricorrente sarebbe risultato aggiudicatario (sicché non è possibile quantificare il danno per equivalente nella misura del mancato utile), dispone il rinnovo virtuale della gara, al solo fine di quantificare il danno. Il rinnovo virtuale della gara può avvenire o mediante c.t.u., o mediante incarico alla stessa stazione appaltante [hanno ipotizzato il rinnovo virtuale della gara, ad. es., Tar Lombardia – Milano, III, 11.12.2000 n. 7702, in UA 2001, 555, nt. Montedoro; e, in via di obiter, Cons. St., 18.12.2001 n. 6281].
All’esito di tale rinnovo virtuale, sarà possibile, secondo l’esito dello stesso, determinare il danno risarcibile.
Con la seconda tecnica, viene invece operata una valutazione probabilistica e presuntiva in ordine alla possibilità che aveva il ricorrente di risultare vincitore, e sulla base della probabilità di vittoria, maggiore o minore, viene quantificato proporzionalmente il danno risarcibile.
In definitiva, si segue il criterio civilistico secondo cui il danno da perdita di occasione favorevole è determinabile in via equitativa in ragione della maggiore o minore probabilità dell’occasione perduta [Bianca (18)].
 
5.5. La misura della chance quale criterio dell’an ovvero del quantum del risarcimento della chance: la teoria eziologica e la teoria ontologica
E’ controverso se la misura della chance (vale a dire della probabilità del verificarsi di un’occasione favorevole) sia rilevante anche ai fini dell’an del risarcimento (teoria eziologica), o solo ai fini del quantum (teoria ontologica).
Una parte della giurisprudenza amministrativa, seguendo una meno recente giurisprudenza civilistica, richiede, al fine del ristoro del danno, che la probabilità di vittoria sia superiore al 50%.
In tal modo, la misura della probabilità di vittoria rileva già ai fini dell’an del risarcimento, e non solo ai fini del quantum (teoria eziologica).
In tale prospettiva si afferma la perdita di chance, diversamente dal danno futuro, che riguarda un pregiudizio di là da venire soggetto a ristoro purché certo e altamente probabile e fondato su una causa efficiente già in atto, costituisce un danno attuale (non irrealizzato) derivante da responsabilità contrattuale o da responsabilità extracontrattuale, che non si identifica con la perdita di un risultato utile bensì con la possibilità di conseguirlo e richiede, a tal fine, che siano stati posti in essere concreti presupposti per il realizzarsi del risultato sperato (ossia una probabilità di successo maggiore del 50% statisticamente valutabile con giudizio prognostico ex ante secondo l’id quod plerumque accidit sulla base di elementi di fatto forniti dal danneggiato) [Cons. St., IV, 4.7.2008 n. 3340].
Il danno da perdita di chance può essere ravvisato e risarcito solo avuto riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita, cioè ove lo stesso dimostri che aveva una possibilità di successo (nella specie di vedersi aggiudicato un appalto) almeno pari al 50%, perché diversamente diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo statisticamente non significative [Cons. St., V, 30.6.2015 n. 3249].
Secondo una diversa prospettiva, la perdita di un’occasione favorevole è di per sé risarcibile, e la misura della probabilità di vittoria rileva solo ai fini del quantum del risarcimento (teoria ontologica).
Anche secondo la giurisprudenza della Cassazione la chance è ristorabile ogni qualvolta la possibilità di vittoria sia seria, anche se non necessariamente superiore al 50% [Cass., sez. lav., 13.6.1991 n. 6657, in FI 1993, I, 490].
E una parte della giurisprudenza ammnistrativa ha affermato che la chance è risarcibile quando sia una rilevante probabilità, anche non superiore al 50%, e la misura della probabilità rileva non per l’an ma solo per il quantum del risarcimento.
In particolare, la giurisprudenza ha osservato che il risarcimento per equivalente della perdita di chance viene quantificato con la tecnica della determinazione dell’utile conseguibile in caso di vittoria, scontato percentualmente in base al numero dei partecipanti alla gara o concorso [Cons. St., VI, 18.12.2001 n. 6281].
In applicazione di tale criterio si è osservato che la domanda risarcitoria deve avere come base di calcolo l’importo del contratto medesimo dedotto dalla stazione appaltante, purché non contestato, né contraddetto dagli atti di causa, e il quantum del danno risarcibile (nella specie per illegittimo affidamento a trattativa privata), deve essere determinato ipotizzando il numero di partecipanti all’eventuale procedura concorsuale, sulla base dei dati relativi a gare simili indette dal medesimo ente, dividendo l’utile di impresa, quantificato in via forfettaria in misura pari al 10% del prezzo base dell’appalto, per il numero dei possibili concorrenti [Tar Campania – Napoli, I, 20.5.2003 n. 5868].
Ancora, si è ritenuto che nella liquidazione del danno da perdita di chance in un pubblico appalto, occorre applicare un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di probabilità teorica di conseguire l’aggiudicazione (nella specie, attesa l’ampiezza dei poteri discrezionali della commissione tecnica, il coefficiente è stato equitativamente stabilito nella misura dell’85%) [Trga – sez. aut. Bolzano, 12.2.2003 n. 48].
La tecnica del risarcimento per equivalente della perdita di chance – mediante determinazione dell’utile conseguibile in caso di vittoria, scontato percentualmente in base al numero dei partecipanti alla gara o concorso – è di complessa applicazione quando una gara non c’è mai stata, – come accade in caso di illegittimo affidamento a trattativa privata – sicché occorre ipotizzare in via di medie e presunzioni quale sarebbe stato il numero presumibile di partecipanti alla gara, se gara vi fosse stata (sulla base dei dati relativi a gare similari indette dal medesimo ente), e di dividere l’utile di impresa (quantificato in via forfettaria in misura pari al 10% del prezzo base dell’appalto) per il numero presuntivo di partecipanti: il quoziente costituisce la misura del danno risarcibile [Cons. St., VI, 18.12.2001 n. 6281].
Si segnala, nella casistica applicativa, una pronuncia che ha ipotizzato che in caso di rinnovo della gara avrebbero ipoteticamente partecipato cinque imprese (rispetto alle due partecipanti a quella annullata), e ha dunque quantificato nella misura del 20% la chance di vittoria. Tale misura è stata applicata all’utile effettivo quale desumibile dall’offerta nella gara annullata [Cons. St., VI, 11.1.2010 n. 14].
Con la stessa impostazione logica, si è ragionato che il risarcimento del danno da perdita di chance esprime uno schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso a una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un’astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto (così come chiunque, in generale, partecipi ad una procedura comparativa per la possibilità di conseguire il bene o l’utilità messi a concorso). La chance iniziale e virtuale, che muove dall’essere in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini: non trattandosi di competizione di azzardo ma di contesa professionale in cui occorre mostrare titoli e capacità, diviene effettiva e aumenta o diminuisce nel corso della procedura fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all’operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri.
Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell’amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l’interesse legittimo dell’operatore economico e – se è precluso anche il bene della vita cui l’interesse è orientato – è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta.
La tecnica risarcitoria della chance impone un ulteriore necessario passaggio: posto che l’illegittima condotta dell’amministrazione ha qui determinato un danno risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione occorre definire la misura percentuale che nella situazione data presentava per l’interessato la probabilità di aggiudicazione – la chance appunto – tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l’atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta. Si tratta di passaggio necessario: per la giurisprudenza l’operatore può beneficiare del risarcimento per equivalente solo se la sua chance di aggiudicazione ha effettivamente raggiunto un’apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule “probabilità seria e concreta” o anche “elevata probabilità” di aggiudicazione del contratto. Al di sotto di tale livello, dove c’è la “mera possibilità” di aggiudicazione, vi è solo un ipotetico danno comunque non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto.
In questa direzione, la quantificazione percentuale della figurata lesione della chance identifica la dimensione effettiva di un lucro cessante; del resto, l’operatore che partecipa alla gara non è titolare attuale di un elemento patrimoniale che viene leso dall’attività amministrativa, ma di una situazione soggettiva strumentale al conseguimento di un’utilità futura.
L’utilità futura – l’essere parte del contratto e il trarne il legittimo lucro – è il bene della vita che gli è negato dall’azione illegittima dell’amministrazione. La chance vi rapporta in termini probabilistici le circostanze concrete, allegate e provate, che rilevano per definire, nei limiti del presumibile, la reale probabilità che aveva l’operatore economico di essere prescelto e così di conseguire quell’utilità: in una ricostruzione “dinamica” dell’evolversi della vicenda e non “statica”. In concreto, si è quantificata la chance perduta nella misura percentuale del 20% e per l’effetto sull’utile in astratto ritraibile dall’aggiudicazione e quantificato forfettariamente nel 10% è stata applicata la percentuale del 20% per quantificare il danno da perdita di chance, con ulteriore sottrazione dell’aliunde perceptum [Cons. St., V, 2018 n. 2527].
E’ stata poi affermata la non spettanza dei costi di partecipazione alla gara in caso di perdita di chance: il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione ad una gara pubblica, non è risarcibile, in favore dell’impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell’appalto (o anche la perdita della relativa chance). Difatti, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione. Detti costi di partecipazione si colorano come danno emergente solo se l’impresa illegittimamente esclusa lamenti questi profili dell’illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in rilievo solo la pretesa risarcitoria del contraente che si duole di essere stato coinvolto in trattative inutili [Cons. St., VI, 17.2.2017 n. 731].
E’ stata rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico [Cons. St., V, 11.1.2018 n. 118].
L’ordinanza di rimessione:
a) afferma che la consistenza della chance di aggiudicazione mediante gara, vantata dall’impresa concorrente, è della misura del 20%, derivante dall’esistenza di cinque operatori qualificati nel mercato dei servizi di comunicazione elettroniche per le pubbliche amministrazione;
b) evidenzia che in materia di responsabilità civile ex art. 2043 c.c., nel cui paradigma è inquadrabile la responsabilità della pubblica amministrazione per illegittimità provvedimentale:
b1) la c.d. teoria della causalità alternativa ipotetica ha rilievo solo in relazione agli illeciti omissivi; solo per questa categoria occorre, infatti, stabilire se l’evento dannoso non si sarebbe verificato se il preteso responsabile avesse posto in essere la condotta doverosa imposta;
b2) diversamente, la stessa teoria è priva del suo presupposto rispetto ad illeciti commissivi, quali appunto quelli derivanti dall’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, come nel caso oggetto del presente giudizio; in relazione a quest’ultima categoria, l’accertamento del giudice deve stabilire se gli atti amministrativi abbiano costituito la causa del danno lamentato, e dunque se costituiscano il fatto illecito che è fonte di responsabilità ai sensi della clausola generale dell’art. 2043 c.c.;
c) ricorda che la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che la domanda risarcitoria va respinta una volta accertata la legittimità dell’atto impugnato, perché diviene carente il requisito dell’ingiustizia del danno, essenziale per integrare la fattispecie di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.; se ne desume, a contrario, che una volta accertata l’illegittimità dell’atto, non resta possibile per l’amministrazione sottrarsi all’addebito di responsabilità civile invocando asserite alternative provvedimentali; tanto meno quando queste possano configurare ulteriori ragioni di illegittimità del medesimo atto; infatti, in questa ipotesi si opererebbe una scissione nel rapporto di necessaria consequenzialità tra il giudizio di legittimità sul provvedimento amministrativo oggetto della domanda di annullamento e il rimedio del risarcimento del danno «per lesione di interessi legittimi», la cui cognizione è devoluta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo (art. 7, c. 4, c.p.a.).
Una volta accertata la sussistenza dei presupposti della domanda risarcitoria ed il relativo inquadramento teorico, l’ordinanza di rimessione ha registrato, sul punto specifico della risarcibilità per equivalente della perdita di possibilità, un contrasto tra pronunce aderenti alla teoria della chance eziologica e quelle che invece optano per la chance ontologica.
Secondo un primo orientamento (ritenuto come esemplificato dalle pronunce: Cons. St., III, 9.2.2016 n. 559; Id., V, 1.10.2015 n. 4592) il risarcimento della chance, a fronte della mancata indizione di una gara, è condizionato dalla prova di un rilevante grado di probabilità di conseguire il bene della vita negato dall’amministrazione per effetto di atti illegittimi.
Secondo un diverso approccio (ritenuto come esemplificato dalle decisioni: Cons. St., V, 1.2.2016 n. 3450; Id., V, 8.4.2014 n. 1672; Id., V, 2.1.2011 n. 5837), in circostanze analoghe, di mancata indizione della gara, va riconosciuto il risarcimento della chance vantata dall’impresa del settore. Ciò sulla base del rilievo che, in caso di mancato rispetto degli obblighi di evidenza pubblica (o di pubblicità e trasparenza), non è possibile formulare una prognosi sull’esito di una procedura comparativa in effetti mai svolta e che tale impossibilità non può ridondare in danno del soggetto leso dall’altrui illegittimità, per cui la chance di cui lo stesso è titolare deve essere ristorata nella sua obiettiva consistenza, a prescindere dalla verifica probabilistica dell’ipotetico esito della gara.
All’esito del confronto ricostruttivo, la discriminante tra le due opposte configurazioni viene individuata nel rilievo da attribuire alla possibilità di conseguire il bene della vita illegittimamente privato dall’amministrazione e, in particolare, sul grado di probabilità statistica: quale fattore incidente sulla sola quantificazione del danno risarcibile nel primo caso e sull’an stesso del risarcimento nel secondo.
In tale contesto, mentre la teoria della chance ontologica configura tale posizione giuridica come un danno emergente, ovvero come bene giuridico già presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, la cui lesione determina una perdita suscettibile di autonoma valutazione sul piano risarcitorio, la teoria della chance eziologica intende la lesione della chance come violazione di un diritto non ancora acquisito nel patrimonio del soggetto, ma potenzialmente raggiungibile, con elevato grado di probabilità, statisticamente pari almeno al 50%. Si tratta dunque di un lucro cessante.
Tuttavia la questione non è stata decisa dalla plenaria, che ha restituito gli atti alla sezione rimettente, per ragioni procedurali [Cons. St., ad. plen., 11.5.2018 n. 7].
 
6. Il c.d. risarcimento in forma specifica in materia di procedure di affidamento di pubblici appalti. Il concorso tra risarcimento in forma specifica e per equivalente
In materia di pubblici appalti, si è ritenuto che il risarcimento in forma specifica possa comportare, a seconda del tipo di atto lesivo:
– l’ammissione in gara (in caso di illegittima esclusione);
– il rinnovo della gara (in caso di illegittimo espletamento della stessa);
– l’aggiudicazione dell’appalto (in caso di illegittimo diniego di aggiudicazione).
Dalla casistica giurisprudenziale emerge peraltro che viene qualificata come reintegrazione in forma specifica il conseguimento del bene della vita, il che è in realtà, a ben vedere, ciò che si consegue con l’azione di ottemperanza.
Anche in materia di pubblici appalti, il risarcimento in forma specifica costituisce, in astratto, la principale forma di tutela, sicché il risarcimento per equivalente va disposto solo in via gradata, quando quello in forma specifica sia impossibile o eccessivamente oneroso [Cons. St., IV, 29.4.2002 n. 2280].
Il risarcimento in forma specifica, in generale, è stato in giurisprudenza ritenuto praticabile quando vengono impugnati bandi o atti di esclusione dalla gara e l’aggiudicazione non è ancora intervenuta, o il contratto non ancora sottoscritto: in siffatta ipotesi, il giudice potrà disporre il rinnovo della gara e/o l’ammissione in gara del concorrente escluso.
In un caso pratico, il giudice amministrativo ha ritenuto che è ammissibile la domanda di risarcimento in forma specifica quando non è ancora intervenuta la sottoscrizione del contratto, potendo in tale ipotesi riconoscersi l’obbligo della stazione appaltante di aggiudicare l’appalto al concorrente vittorioso in giudizio [Tar Lombardia – Brescia, 23.4.2002 n. 787, in UA 2002, 1456, nt. Iaione].
Se dall’accoglimento del ricorso in materia di appalto consegue la ripetizione della gara, si ha il soddisfacimento diretto e pieno dell’interesse fatto valere [Tar Campania – Napoli, I, 6.9.1999 n. 2267].
Il risarcimento in forma specifica è anche ritenuto dalla giurisprudenza praticabile quando, pur essendo intervenuta l’aggiudicazione, i lavori non siano iniziati o siano solo nella fase iniziale di esecuzione.
In definitiva e in sintesi, la reintegrazione in forma specifica – nel caso di illegittimo rifiuto dell’aggiudicazione in un appalto – consiste nella doverosa assegnazione dell’appalto alla ditta risultata aggiudicataria, mentre – nel caso di illegittima esclusione – consiste in quell’utilità meramente strumentale che si traduce nella riammissione in gioco dell’offerta assieme a quella delle altre ditte che rientrino nei parametri del capitolato, senza nessuna garanzia di vittoria [Tar Friuli – Venezia Giulia, 27.4.1999 n. 537, in UA 1999, 1237, nt. De Pauli].
Tuttavia, trova spazio, nel giudizio risarcitorio contro la pubblica amministrazione, l’art. 2058 c.c., a tenore del quale il giudice ordina il risarcimento per equivalente se quello in forma specifica risulti eccessivamente oneroso per il debitore.
Una specifica applicazione ne è la tematica delle statuizioni sulla sorte del contratto.
Invero, una volta che l’appalto risulti aggiudicato e i relativi lavori affidati e in corso di esecuzione, o addirittura già ultimati, quando sopraggiunge la pronuncia di annullamento, appare eccessivamente oneroso per l’amministrazione dover porre nel nulla gli atti di gara e i lavori già eseguiti.
In tal senso, si segnala, in giurisprudenza, l’osservazione secondo cui la reintegrazione in forma specifica deve essere intesa come istituto speciale del diritto processuale amministrativo, in cui l’eccessiva onerosità per il debitore prevista dall’art. 2058 c.c. deve essere valutata alla stregua di eccessiva onerosità per il pubblico interesse e per la collettività. Va perciò escluso il risarcimento in forma specifica a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione dell’appalto ove la particolare natura dei lavori induca a ritenere che l’inizio della realizzazione precluda la possibilità di procedere all’aggiudicazione in favore dell’impresa ricorrente illegittimamente esclusa [Tar Lazio – Roma, III-ter, 13.2.2003 n. 962, in UA 2003, 957, nt. Mucio].
In particolare, si è osservato che la reintegrazione in forma specifica in materia di pubblici appalti, mediante aggiudicazione dell’appalto al ricorrente vittorioso, è, ai sensi dell’art. 2058 c.c., oggettivamente impossibile in caso di integrale esecuzione del contratto; in tal caso va solo imposto all’amministrazione, in sede di esecuzione del giudicato, di rinnovare la gara in modo virtuale sulla base del criterio indicato dal giudicato, allo scopo di stabilire se il beneficiario sarebbe stato o no vincitore, e di determinare il risarcimento per equivalente [Cons. St., V, 21.1.2003 n. 204, ord.].
Vi può essere concorso tra reintegrazione specifica e risarcimento per equivalente: ad esempio nel caso in cui, a seguito dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, sia stato riconosciuto il diritto al subentro nel contratto di appalto, la domanda risarcitoria ex art. 124 c.p.a. va accolta per il periodo in cui il contratto di appalto ha avuto effetto, sia perché il giudice amministrativo non può ovviamente dichiarare l’inefficacia della parte del contratto che ha già avuto esecuzione, sia perché la domanda risarcitoria, ancorché presentata in via subordinata a quella di reintegrazione in forma specifica, deve trovare piena considerazione in relazione alla parte del contratto che già ha avuto esecuzione [Cons. St., V, 13.12.2017 n. 5855; Id., V, 25.6.2014 n. 3220; CGARS, 11.2.2019 n. 100; Id., 20.1.2017 n. 24, Id., 8.2.2016 n. 39].
Va però specificato che se l’esecuzione in forma specifica è ancora possibile, almeno per una parte ragionevole, per la tesi preferibile non spetta al ricorrente vittorioso optare per il risarcimento per equivalente, atteso che la forma primaria di ristoro prevista dalla legge è quella specifica. In tale ipotesi, se il ricorrente vittorioso rifiuti il subentro, non gli spetta il risarcimento per equivalente sostitutivo del subentro, mentre gli spetta il risarcimento per equivalente per la parte di esecuzione del contratto svoltasi prima della sua vittoria in giudizio [CGARS, 6.11.2019 n. 947; Id., 26.7.2019 n. 706].
In dettaglio, si ricorda che secondo una parte minoritaria e non condivisibile della giurisprudenza, la “scelta” tra il conseguimento degli effetti della tutela demolitorio/conformativa (id est: l’ottenimento del risarcimento in forma specifica, mediante il “subentro” nel contratto e la realizzazione dei lavori) e la tutela risarcitoria, non può che spettare alla ditta che ha proposto vittoriosamente il ricorso, e ciò soprattutto nel caso in cui il bene della vita controverso sia ormai conseguibile solo in parte [CGARS, 16.11.2011 n. 854; Cons. St., VI, 10.11.2004 n. 7256; Id., VI, 25.1.2008 n. 213]. Al riguardo è stato affermato, infatti, che “mentre, (…), l’interesse originario dell’impresa è indirizzato all’esecuzione dell’appalto per il suo complessivo valore, quale identificato nel bando di gara, la prestazione del servizio per un periodo di limitata durata introduce condizioni nuove negli aspetti economici ed organizzativi, che l’impresa può valutare con la più ampia sfera di autonomia con riguardo sia al diverso impegno di mezzi e attrezzature, sia al mutato livello di remunerazione che ne può conseguire in relazione all’offerta presentata in sede di gara”.
Per corroborare tale tesi, è stato altresì ritenuto che “(…) la possibilità di optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l’esecuzione, ormai solo parziale del giudicato, deriva anche dall’applicazione del principio di carattere generale, desumibile dall’art.1181 c.c., secondo cui il creditore può sempre rifiutare l’offerta di un adempimento ‘parziale’ rispetto alla originaria configurazione del rapporto obbligatorio (…)” (CGARS, 16.11.2011 n. 854).
In tale prospettiva si è anche affermato che:
– “se è vero che, in caso di annullamento dell’aggiudicazione, la stipula del contratto con l’aggiudicataria non è di ostacolo al subentro del soggetto non aggiudicatario che abbia impugnato (NdR: vittoriosamente) gli atti gara, spetta, tuttavia, a quest’ultimo scegliere se procedere al ‘subentro’ – ove l’appalto non sia stato ancora interamente eseguito – ovvero se optare per il risarcimento del danno in relazione alla parte del contratto non eseguita”;
– “pertanto trattandosi di potere nella disponibilità del soggetto che agisce per il risarcimento del danno, la parte su cui grava il risarcimento non può far valere a suo vantaggio una facoltà di cui non dispone” [Cons. St., V, 21.3.2012 n. 1597].
Secondo un diverso e preferibile orientamento giurisprudenziale, invece, “di norma, la via del ‘risarcimento per equivalente’ viene percorsa qualora risulti preclusa quella della ‘tutela in forma specifica’”, e ciò in quanto “la reintegrazione in forma specifica rappresenta, (…) in ambito amministrativo, l’obiettivo tendenzialmente primario da perseguire, mentre il ‘risarcimento per equivalente’ costituisce una misura residuale, di norma subordinata all’impossibilità parziale o totale di giungere alla correzione del potere amministrativo, come dimostra, d’altra parte, anche la vicenda giurisprudenziale e normativa relativa alla dichiarazione di inefficacia del contratto d’appalto, come da ultimo risolta per effetto del d.lgs. n. 53/2010, le cui previsioni sono confluite nel codice del processo amministrativo agli artt. 121 e ss” [Cons. St., V, 8.11.2012 n. 5686].
A supporto di tale tesi si invoca l’art. 1227, c. 2, c.c. che pone il principio secondo cui non sono risarcibili i danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato, nonché l’art. 1206 del medesimo codice che pone il principio, altrettanto importante ai fini della valutazione della responsabilità, secondo cui il creditore è tenuto a cooperare (con il debitore) nell’adempimento della prestazione, il che significa – tra l’altro – che non può “rifiutarla” (rectius: opporsi a riceverla) ove sia ancora possibile effettuarla (semprecchè, beninteso, il termine essenziale non sia scaduto).
Nel settore dei rapporti tra cittadino e P.A., si ritiene che il principio poggi (anche) sull’art. 30, c. 3, c.p.a. (in relazione al quale vanno lette ed interpretate le norme civilistiche dapprima citate), che stabilisce che «il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti».
Ed invero, proprio dall’art. 30 c. 3 c.p.a. (e a maggior ragione se interpretata sistematicamente, alla luce del pervasivo principio di buona fede) – l’Adunanza plenaria ha introdotto, in tema di responsabilità della P.A., il principio della cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il privato non avrebbe subito se avesse tenuto il comportamento collaborativo cui è tenuto sulla base degli obblighi di correttezza su di esso gravanti, tra i quali si può ritenere che rientri anche quello di subentrare nel contratto ove la stazione appaltante lo richieda.
Tra i due orientamenti appare preferibile il secondo, ritenendosi – sulla scorta di quanto in ultimo affermato proprio al riguardo, seppur incidentalmente, dall’Adunanza Plenaria n. 2/2017, par. 15 – che sia quello che meglio contemperi l’interesse pubblico e quello privato, assicurando – comunque – un adeguato livello di tutela ad entrambe le parti [CGARS, 6.11.2019 n. 947].
 
7. La quantificazione del risarcimento per equivalente
 
7.1. Domanda di parte e onere della prova. Scompare la liquidazione forfettaria del mancato utile
Se il giudice non ritiene di dover dichiarare inefficace il contratto e disporre il subentro della parte vittoriosa, dispone il risarcimento per equivalente; il risarcimento per equivalente può in taluni casi aggiungersi e sostituirsi in parte al risarcimento in forma specifica, quando ad es. venga disposto il subentro nel contratto non ab initio ma per la residua parte che resti da eseguire.
A tal fine, occorre la domanda di parte, e occorre che la parte provi il danno subito (art. 124 c.p.a.).
L’art. 124 c.p.a. recepisce il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il risarcimento postula la domanda di parte e la prova del danno con onere a carico del danneggiato [Cons. St., ad. plen., 14.2.2003 n. 2; in prosieguo Cons. St., ad. plen., 12.5.2017 n. 2].
L’aver ribadito il principio dell’onere della prova fa giustizia di quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il mancato utile potrebbe essere quantificato in misura forfettaria, utilizzando il criterio dettato dal legislatore a tutt’altri fini, del 10% del prezzo offerto in gara.
Invero, il principio secondo cui può essere risarcito solo il danno provato, implica che del danno inteso come mancato utile vada data la prova rigorosa, individuando l’utile effettivo secondo l’offerta fatta in gara.
 
7.2. La mancata domanda di subentro nel contratto e la quantificazione del risarcimento per equivalente ai sensi dell’art. 1227 c.c.
Altra questione affrontata espressamente dalla norma positiva è se vada o meno risarcito il danno per equivalente quando la parte ricorrente, pur potendo conseguire l’aggiudicazione e il contratto, non ne faccia richiesta, ovvero, dopo averne fatto richiesta, non si renda disponibile a subentrare nel contratto.
Se tale condotta ostativa è priva di giustificato motivo, il giudice ne tiene conto al fine del se e del quanto del risarcimento per equivalente, ai sensi dell’art. 1227 c.c. (art. 124 c.p.a.).
Ancora più drastico era stato il Consiglio di Stato, che aveva formulato la norma nel senso più severo che il risarcimento per equivalente è senz’altro escluso, a fronte di tale ingiustificata condotta ostativa.
Tale soluzione trovava il suo fondamento nella considerazione che chi impugna l’aggiudicazione mette in moto un meccanismo che blocca l’azione amministrativa, ed è dunque doveroso da parte sua un reale interesse a conseguire l’aggiudicazione e il contratto. Non risponde invece a buona fede la condotta di chi impugna l’aggiudicazione non perché ha interesse a ottenere il contratto, ma solo perché mira ab initio ad un risarcimento per equivalente.
In sintesi, si può dire che:
1) in caso di mantenimento del contratto deciso dal giudice nonostante la domanda di subentro, il risarcimento per equivalente spetta solo al ricorrente che ha titolo all’aggiudicazione;
2) in caso di mantenimento del contratto deciso dal giudice perché manca la domanda di subentro, il risarcimento per equivalente non spetta se il rifiuto di subentro è ingiustificato.
 
7.3. Il danno emergente
Il risarcimento per equivalente ha ampio spazio nel processo in materia di pubblici appalti, ed è per legge la forma principale di tutela in caso di infrastrutture strategiche.
La casistica giurisprudenziale si è occupata dei criteri di quantificazione del danno, distinguendo il danno emergente, il lucro cessante, e la perdita di chance.
Il danno emergente consiste nei costi sopportati per la partecipazione alla gara.
Tale danno è stato ritenuto risarcibile autonomamente rispetto al mancato utile, solo nel caso di illegittima esclusione dall’appalto.
Nel caso, invece, di partecipazione alla gara, i costi di partecipazione rimangono a carico del concorrente, per cui di fatto vengono ristorati solo all’aggiudicatario.
La giurisprudenza ha affermato che il danno emergente consistente nei costi di partecipazione a gara di appalto, è risarcibile autonomamente rispetto al lucro cessante (mancato utile) in caso di illegittima esclusione da gara di appalto [Cons. St., VI, 7.8.2003 n. 4567].
Ha infatti puntualizzato che la partecipazione alle gare di appalto comporta per le imprese dei costi che, ordinariamente, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione; detti costi di partecipazione alla gara si colorano come danno emergente solo qualora l’impresa subisca un’illegittima esclusione, perché in tal caso viene in rilievo il diritto soggettivo del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili e addirittura illegittime; i costi di partecipazione alla gara qualificati come danno emergente in caso di condotta illecita della stazione appaltante vanno, in via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica, mediante rinnovo delle operazioni di gara e solo ove tale rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente [Cons. St., VI, 21.5.2009 n. 3144; Id., VI, 11.1.2010 n. 20].
Per converso, nel caso in cui il giudice disponga il risarcimento in forma specifica dell’illegittima esclusione dalla gara di appalto, mediante rinnovo delle operazioni di gara, non vi è spazio per il risarcimento per equivalente del danno emergente consistente nei costi di partecipazione alla gara, atteso che tali costi restano ordinariamente a carico dei partecipanti alla gara, e che mediante il risarcimento del danno non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione, atteso che anche l’aggiudicatario sopporta in proprio i costi di partecipazione alla gara [Cons. St., VI, 4.9.2002 n. 4435].
Giova infine osservare che se viene accordato il ristoro dell’interesse positivo (in relazione al danno da mancata aggiudicazione di appalto), resta escluso il ristoro dell’interesse negativo (spese di partecipazione alla gara), in quanto il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale esclude il diverso titolo della responsabilità precontrattuale [CGARS, 18.4.2006 n. 153; Cons. St., VI, 17.2.2017 n. 731; Id., V, 25.6.2014 n. 3220; Id., VI, 20.10.2010 n. 7593].
Nel danno emergente non rientrano, poi, le spese generali e quelle per l’ammortamento e deprezzamento dei beni da utilizzarsi nella esecuzione dell’appalto, in quanto si tratta infatti di voci di costo che l’impresa comunque sostiene a prescindere dall’esecuzione di commesse pubbliche e che vanno a ridurre il risultato di esercizio annuo, secondo i principi e le regole di contabilità aziendale comunemente applicabili. Rispetto ad esse difetta dunque il rapporto di causalità con l’illegittima aggiudicazione [Cons. St., V, 26.7.2019 n. 5283].
 
7.4. Il lucro cessante come mancato utile
Il lucro cessante in materia di procedure di affidamento di pubblici appalti comprende, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, sia il mancato utile, sia il danno curricolare e all’immagine professionale dell’impresa e la perdita di ulteriori occasioni favorevoli.
Il punto sul danno risarcibile a titolo di lucro cessante e sull’onere della prova è stato fatto dalla plenaria n. 2/2017 che ha recepito arresti che si sono andati consolidando negli anni precedenti e ne ha fatto un vero e proprio decalogo:
a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, c. 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
b) nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto). Non è dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere, comunque, fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti;
c) spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, c. 1 e 3, c.p.a.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, c. 1, c.c.;
d) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno;
e) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
g) va esclusa la pretesa di ottenere l’equivalente del 10% dell’importo a base d’asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l’importo a base d’asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo);
h) anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante;
i) il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non concorrere all’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
j) tale ripartizione dell’onere probatorio in materia di aliunde perceptum ha sollevato in dottrina alcune perplessità, avvalorate dal pacifico orientamento della Corte di cassazione secondo cui, costituendo l’aliunde perceptum vel percipiendum un fatto impeditivo (in tutto o in parte) del diritto al risarcimento del danno, il relativo onere probatorio grava sul datore di lavoro (da ultimo, Cass., sez. lav., 30.5.2016 n. 11122).
Se non che, anche a volersi convenire con la ragionevole considerazione che l’aliunde perceptum costituisca un fatto impeditivo del danno, non potrebbe addivenirsi a diversa conclusione rispetto a quella poc’anzi prospettata, segnatamente in relazione al settore degli appalti; e ciò per un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, non può negarsi che, ai fini della sussistenza dell’aliunde perceptum, possa essere invocato il meccanismo della presunzione (semplice). In forza di tale meccanismo può quindi individuarsi una presunzione in tal senso, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili. Pertanto, in mancanza di prova contraria, che l’impresa che neghi l’aliunde perceptum può fornire anche sulla base dei libri contabili, deve ritenersi che essa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subito per la mancata aggiudicazione l’aliunde perceptum, calcolato in genere in via equitativa e forfettaria. Del resto –e si è al secondo ordine di considerazioni – nell’ambito delle gare d’appalto, tale conclusione risulta avvalorata dalla distinta, concorrente circostanza che, da un lato, non risulta ragionevolmente predicabile la condotta dell’impresa che immobilizza le proprie risorse in attesa dell’aggiudicazione di una commessa, o nell’attesa dell’esito del ricorso giurisdizionale volto ad ottenere l’aggiudicazione, atteso che possono essere molteplici le evenienze per cui potrebbe risultare non aggiudicataria della commessa stessa (il che corrobora la presunzione); dall’altro che, ai sensi dell’art. 1227, c. 2, c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno, sicché il comportamento inerte dell’impresa ben può assumere rilievo in ordine all’aliunde percipiendum (Cons. Stato, sez. V, 9.12.2013 n. 5884; Id., V,, 27.3.2013 n. 1833; Id., V, 7.6.2013 n. 3155; Id., V, 8.11.2012 n. 5686). Tale orientamento –assolutamente prevalente, sia pure con sfumature diverse in punto di motivazione (tra le varie: Cons. St., IV, 11.11.2014 n. 5531; Id., VI, 15.10.2012 n. 5279)- consente del resto di evitare che la sentenza che vede l’impresa vittoriosa diventi occasione e strumento di ingiusta locupletazione.
In sintesi, secondo la plenaria, nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto). Spetta, in ogni caso, all’impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, c. 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno [Cons. St., ad. plen., 12.5.2017 n. 2].
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum [Cons. St., ad. plen., 12.5.2017 n. 2].
Il decalogo della plenaria si presta ad alcune considerazioni critiche:
a) anzitutto sulla portata nomofilattica effettiva del decalogo, atteso che non si tratta di questioni specificamente rimesse dalla sezione, e che si tratta di questioni su cui ci sono contrasti di giurisprudenza, ma la plenaria non esamina i singoli contrasti, limitandosi invece ad aderire ad una tesi piuttosto che un’altra su ciascuna questione;
b) quanto al danno all’immagine professionale, la plenaria sembra farlo rientrare nel genus danno curricolare, laddove sembra avere una portata autonoma, e non se ne occupa funditus;
c) quanto al danno curricolare, la plenaria accoglie una delle varie tesi della giurisprudenza, senza specifici argomenti;
d) quanto all’aliunde perceptum o percipiendum, sebbene la massima della plenaria sia tranciante e si presti alla lettura che il mancato utile sarebbe del tutto non risarcibile in difetto di prova del mancato aliunde perceptum o percipiendum, in concreto la decisione utilizza parametri forfettari ed equitativi, con una presunzione di aliunde perceptum o percipiendum parziale (e decurtazione del 25% del mancato utile effettivo); ma giurisprudenza successiva è stata più rigorosa escludendo del tutto il ristoro del mancato utile [Cons. St., V, 23.8.2019 n. 5803], v. oltre.
e) si evidenzia, infine, che il decalogo della plenaria non si occupa della tecnica di risarcimento del danno da perdita di chance, in quanto attribuisce in pieno il mancato utile in caso di “certezza dell’aggiudicazione” ma nulla dice per il caso di mera “chance di aggiudicazione”.
In passato erano stati utilizzati svariati criteri per determinare il mancato utile.
Prima del d.lgs. n. 53/2010 non di rado veniva utilizzato il criterio legale che quantifica l’utile di impresa nella misura del 10% del valore dell’appalto, in base all’art. 345, l. n. 2248/1865, all. F, norma comunemente considerata espressiva del criterio generale di quantificazione del margine di profitto nei contratti con l’amministrazione [Cons. St., V, 8.7.2002 n. 3796; Id., V, 11.11.2004 n. 7346].
Peraltro si era ritenuto che il criterio legale, che quantifica l’utile di impresa nella misura del 10%, fosse un criterio meramente presuntivo che è suscettibile di essere disatteso caso per caso ove l’utile risulti provato in una misura differente, superiore o inferiore [Cons. St., VI, 7.8.2003 n. 4567; Id., VI, 10.11.2004 n. 7256, in www.lexfor.it, nt. Chieppa].
In particolare, il criterio legale del 10% non trova applicazione se l’utile è pari ad una minore percentuale desumibile dall’offerta e dalla sua eventuale giustificazione [Cons. St., V, 6.4.2009 n. 2143; Id., V, 13.6.2008 n. 29678], dovendosi avere riguardo all’utile netto [Cons. St., III, 2.4.2019 n. 2181].
Ma in termini generali si doveva contestare siffatto criterio. Esso veniva desunto da alcune disposizioni in tema di lavori pubblici, che riguardano però altri istituti, come l’indennizzo dell’appaltatore nel caso di recesso dell’amministrazione committente o la determinazione del prezzo a base d’asta. Tale riferimento, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale. In tal modo il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe di meno. Ulteriore difetto di tale tecnica risarcitoria è che obbliga i giudici più sensibili a moltiplicare gli sforzi per trovare correttivi che rendano meno evidenti gli ingiustificati esborsi a carico della finanza pubblica; in quest’ottica, a titolo di esempio, è ricorrente la massima secondo cui l’utile conseguibile dall’impresa nella misura forfettaria del 10% deve essere decurtato ove l’impresa non dimostri di non aver potuto utilizzare diversamente le maestranze ed i propri mezzi per l’espletamento di altri servizi.
Tali escamotage offrono un rimedio inappagante perché scontano il vizio d’origine del costrutto argomentativo che nasce all’interno della logica indennitaria e non si concilia affatto con il regime della prova nel sistema della responsabilità civile in genere e della p.a. amministrazione in particolare.
Già prima del d.lgs. n. 53/2010, che, come visto, impone la prova rigorosa del danno, era preferibile il diverso indirizzo che esigeva la prova rigorosa, a carico dell’impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto; prova desumibile, in primis, dall’esibizione dell’offerta economica presentata al seggio di gara [Cons. St., VI, 21.5.2009 n. 3144; Id., V, 6.4.2009 n. 2143, in FI 2009, III, 309, nt. Simonetti; Id., V, 16.2.2009 n. 842, in UA 2009, 557, nt. Reggio D’Aci].
Dopo il c.p.a. la giurisprudenza ha ribadito che il criterio che quantifica il mancato utile nell’equivalente del 10% dell’importo a base d’asta, esula storicamente dalla materia risarcitoria, e non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l’importo a base d’asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo) [Cons. St., V, 20.4.2012 n. 2317; Id., V, 7.6.2013 n. 3135; Id., V, 11.6.2013 n. 3230; Id., V, 21.6.2013 n. 3397; Id., V, 31.12.2014 n. 6453].
Ove, poi, l’impresa illegittimamente esclusa da una gara di appalto sarebbe stata sicura aggiudicataria se il procedimento non fosse stato inficiato dagli errori commessi dalla stazione appaltante, il mancato utile va calcolato non sulla base dell’importo teorico del 10% dell’ammontare a base d’asta, ma tenendo conto della quota di utile che, in sede di offerta, l’impresa partecipante aveva stimato sufficiente nell’economia generale dell’appalto [Cons. St., VI, 4.4.2003 n. 1775].
Dunque, se vi è la prova che il ricorrente in mancanza dell’atto illegittimo avrebbe vinto la gara, il risarcimento va quantificato nella misura dell’utile conseguibile in caso di aggiudicazione; se invece il ricorrente allega solo la perdita di una chance di vittoria, la somma commisurata all’utile di impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria [Cons. St., IV, 6.7.2004 n. 5012; Id., IV, 10.8.2004 n. 5500].
Secondo una tesi, il risarcimento del danno da mancata aggiudicazione andrebbe quantificato nella minor somma tra 10% e utile dichiarato in offerta, e decurtato per considerare il possibile esito negativo della verifica di anomalia [Tar Lazio – Roma, III, 22.2.2011 n. 1680].
Quanto alla base di calcolo della percentuale di mancato utile, si è osservato che tale percentuale non va calcolata sul prezzo posto a base di gara, bensì sul prezzo indicato nella sua offerta dal concorrente che chiede il risarcimento del danno [Cons. St., V, 26.7.2019 n. 5283; Id., V, 28.5.2019 n. 3492; Id., III, 22.8.2018 n. 5014; Id., V, 27.6.2018 n. 3954; Id., V, 14.5.2018 n. 2853; Id., V, 13.12.2017 n. 5855; Id., V. 4.12.2017 n. 5698; Id., V, 12.6.2017 n. 2807; Id., V, 5.4.2005 n. 1563; CGARS, 6.11.2019 n. 947; Id., 21.10.2019 n. 917; Id., 11.12.2017 n. 543; Id. 20.1.2017 n. 24; Id., 3.11.2016 n. 381; Id., 26.9.2016 n. 332; Id., 5.5.2016 n. 131; Id., 5.5.2016 n. 132; Id., 8.2.2016 n. 39].
Non manca giurisprudenza che continua a calcolare equitativamente il mancato utile, ordinariamente in una percentuale del 5% del valore dell’appalto sulla base del prezzo offerto [Cons. St., VI, 17.10.2017 n. 4803; Id., III, 10.5.2017 n. 2173], ovvero direttamente quantificandolo in una somma [Cons. St., V, 13.7.2017 n. 3448], o con ulteriore diverso criterio equitativo [Cons. St., V, 30.10.2017 n. 4968, che quantifica equitativamente il mancato utile nel 3% del valore dell’offerta al netto del ribasso d’asta e vi applica poi una ulteriore decurtazione del 40% “sia in considerazione della mancata puntuale allegazione del quantum del danno patito, sia in considerazione del mancato rischio connesso all’effettiva realizzazione dell’opus”].
Ove il bando prescriva la presentazione di un’offerta complessiva, anche per l’eventuale successiva estensione del contratto, la base di calcolo per il risarcimento è costituita dall’offerta complessiva [Cons. St., VI, 19.7.2007 n. 3955, in DPA, 2007 n. 9, 80, nt. Usai].
Dal danno quantificato nel mancato utile va detratto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum: il concorrente danneggiato deve dimostrare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, rimasti a disposizione della stazione appaltante, per l’espletamento di altri servizi [Cons. St., V, 31.12.2014 n. 6453; Id., VI, 19.4.2011 n. 2427].
In quest’ultima linea di pensiero si è affermato che il mancato utile va ristorato nella sua interezza solo se l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare le maestranze ed i mezzi, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri contratti; in caso contrario è da ritenere che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri lavori, servizi o forniture [Cons. St., IV, 27.10.2003 n. 6666; Id., V, 24.10.2002 n. 5860].
In difetto di tale prova, il giudice amministrativo ha ritenuto ragionevole presumere il riutilizzo di mezzi e maestranze per alti lavori, servizi, o forniture, e ha quantificato nel 5% del prezzo offerto l’utile di impresa presunto e dunque il danno risarcibile [Cons. St., VI, 9.6.2008 n. 2763; Id., IV, 11.10.2006 n. 6059, in UA 2007, 357, nt. Ponzio; Id., VI, 9.3.2007 n. 1114].
Sotto il profilo dell’onere probatorio, l’onere di provare (l’assenza del) l’aliunde perceptum grava non sull’amministrazione, ma sull’impresa.
Tale soluzione giurisprudenziale si è prestata in dottrina a rilievi critici: infatti la detrazione dell’aliunde perceptum è una forma di compensatio lucri cum damno, il cui onere della prova incombe non già sul danneggiato, bensì sulla pubblica amministrazione; sicché, non può accollarsi sull’appaltatore la prova dell’immobilizzazione delle risorse, bensì grava sull’amministrazione la prova che l’appaltatore ha medio tempore acquisito contratti la cui esecuzione è incompatibile con quello de quo [Baccarini].
Non vi è concordia sulla misura da detrarre per aliunde perceptum vel percipiendum: come visto, la plenaria ha applicato una riduzione forfettaria del 25%, altra giurisprudenza applica una riduzione dell’utile del 50% [CGARS, 6.11.2019 n. 947; Cons. St., V, 2.1.2019 n. 14] o prossima al 50% [in un caso quantificato l’utile equitativamente nel 5%, ne è stato detratto il 2% per aliunde perceptum o percipiendum: così Cons. St., VI, VI, 17.10.2017 n. 4803].
Ulteriore giurisprudenza, con maggiore severità, una volta riscontrato che dai documenti contabili dell’impresa non è emersa una immobilizzazione di personale e mezzi durante il periodo in cui l’appalto non conseguito ha avuto esecuzione, ha escluso del tutto la risarcibilità del mancato utile ritenendo che vi sia stato integralmente aliunde perceptum: si è affermato che “il riconoscimento del lucro cessante deve ritenersi subordinato:
a) all’assolvimento, in positivo, di un preciso onere probatorio, inteso a dimostrarne, anche per via indiziaria, la consistenza, avuto riguardo alle caratteristiche dell’appalto, al mercato di riferimento, alle condizioni operative dell’impresa, alle dimensioni organizzative, alle risorse reali e finanziarie disponibili, alle multiformi peculiarità della fattispecie;
b) alla dimostrazione, in negativo, anche qui per via indiziaria (e, per esempio, mediante la non disagevole allegazione dei libri contabili) della mancata interinale utilizzazione delle proprie risorse reali e personali e della obiettiva ed involontoriaimmobilizzazione delle stesse, nonchédella diligente condotta imprenditoriale, preordinata a non trascurare occasioni di utile impiego, nell’esclusivo e non commendevole intento di aggravare il danno da mancata aggiudicazione.  Nella specie, la lettura dell’elaborato peritale, al quale l’appellante affida i suoi argomenti, non conforta in ordine alla postulata immobilizzazione forzosa delle risorse, assunta a criterio (meramente astratto e, nei sensi chiariti, non contestualizzato) di quantificazione del danno rivendicato.  Deve, con ciò, presumersi – alla luce delle esposte premesse – che la società appellante abbia, secondo l’id quod plerumque accidit e, comunque, alla luce dell’evidenziato onere di non aggravamento (per sé in grado di elidere il danno suscettibile di ristoro, ex art. 1227 c.c.), utilizzato diversamente personale, beni e capitali (della cui consistenza e composizione non viene data specifica contezza). Con ciò, appare lecito presumere che alcun utile avrebbe potuto prospetticamente conseguire dall’appalto non aggiudicato (legittimandosi, in considerazione della complessiva, ridotta dimensione dell’impresa, la presunzione di integrale utilizzazione delle risorse disponibili e palesandosi, con ciò, non arbitrario argomentare l’integrale elisione, piuttosto che la semplice decurtazione, del lucro prospetticamente ricavabile dalla esecuzione dell’appalto per cui è causa) [Cons. St., V, 23.8.2019 n. 5803].
La dottrina ha sostenuto che l’aliunde perceptum verrebbe in considerazione come fatto impeditivo del diritto al risarcimento del danno e non come fatto costitutivo, con la conseguenza che la relativa prova dovrebbe gravare sulla stazione appaltante e non sul privato): in replica, la giurisprudenza ha osservato che tale riparto dell’onere probatorio muove, tuttavia, dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative che dalla cui esecuzione trae utili [Cons. St., VI, 9.6.2008 n. 2751].
Sotto il profilo probatorio, il mancato utile può essere determinato con c.t.u. o anche sulla base di perizia di parte. Si è ritenuto che, correttamente, per quantificare l’utile di impresa in sede di giudizio risarcitorio, il giudice si attiene alle risultanze della perizia di parte, senza disporre c.t.u., a fronte della mancata contestazione della perizia di parte ad opera del contraddittore, e dell’attendibilità della perizia medesima, che non rende necessaria un’ulteriore verifica tecnica d’ufficio [Cons. St., VI, 7.8.2003 n. 4567].
Tuttavia la c.t.u. non può mai supplire all’onere probatorio di parte, circa il danno subito [Cons. St., IV, 10.8.2004 n. 5500].
Secondo una prospettazione dottrinale, il lucro cessante per l’impresa non è costituito solo dall’utile che avrebbe percepito dall’appalto, ma da una cifra superiore, pari al margine di contribuzione, ovvero alla somma dell’utile dell’appalto e del contributo che questo avrebbe dato alla copertura dei costi di struttura dell’impresa nel suo complesso, anche se tale grandezza non è quantificabile con la documentazione di gara. Sarebbe perciò utilizzabile il criterio della quantificazione forfettaria del lucro cessante, sulla base dei dati di conto economico del campione di imprese italiane annualmente esaminate da Mediobanca, dai quali si desumerebbe che il margine di contribuzione medio si attesta su un valore compreso tra il 7,5% e l’8%. Anche la detrazione dell’aliunde perceptum non sarebbe sempre ragionevole, dipendendo dalle concrete condizioni di mercato [Prosperetti].
 
7.5. Il c.d. danno curricolare
Una voce di danno non di rado richiesta nel contenzioso sui pubblici appalti è quella inerente il c.d. danno curricolare, allorché la mancata aggiudicazione dell’appalto ha impedito al concorrente di eseguire un lavoro c.d. di punta e, quindi, di partecipare, grazie al conseguente arricchimento del curriculum professionale, a gare di appalto di una determinata categoria.
Si tratta, dunque, del pregiudizio subito dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell’amministrazione.
La giurisprudenza ritiene che tale danno, in linea di principio, sia risarcibile [Cons. St., VI, 9.6.2008 n. 2751].
Non è seriamente dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere comunque fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.
L’interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un’impresa, va, invero, ben oltre l’interesse all’esecuzione dell’opera in sé, e al relativo incasso. Alla mancata esecuzione di un’opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all’immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara.
In linea di massima, allora, deve ammettersi che l’impresa illegittimamente privata dell’esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale.
Qui il terreno della prova si fa evidentemente molto scivoloso, posto che, come è stato evidenziato, ammettendo una sorta di “danno per immagine depotenziata”, si entra nelle sabbie mobili di un danno non surrogabile patrimonialmente e non agevolmente quantificabile.
Si ritiene pertanto che per la dimostrazione del danno curricolare non si richieda l’assolvimento di un particolare onere probatorio [Cons. St., V, 19.11.2012 n. 5846].
La quantificazione di tale voce di danno viene, infatti, operata dal giudice amministrativo in via equitativa, riconoscendo una somma pari ad una percentuale (variabile dall’1% al 5%) applicata in alcuni casi sull’importo globale dell’appalto, in altri sulla somma già liquidata a titolo di lucro cessante [Cons. St., V, 19.11.2012 n. 5846 liquida equitativamente il 2% del valore dell’appalto; la seconda soluzione è seguita da Cons. St., VI, n. 1514/2007].
Si ammette la possibilità di risarcire il danno in via equitativa, sia quando è impossibile stimare con precisione l’entità dello stesso, sia quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione sia difficoltosa [Cons. St., IV, 19.12.2003 n. 8364].
In particolare si è riconosciuto in via equitativa il danno consistente nell’incidenza del mancato svolgimento del rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione sui requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare [Cons. St., VI, 9.3.2007 n. 1114; Cons. St., VI, 9.11.2006 n. 6607].
In un caso pratico, il danno curriculare è stato liquidato in via equitativa nella misura del 20% del danno da mancata aggiudicazione [Tar Lazio – Roma, III, 22.2.2011 n. 1680].
Per una tesi più severa, anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante [Const. St., V, 13.9.2018 n. 5375; Id., V, 27.6.2018 n. 3954; Id., V, 26.4.2018 n. 2527, Id., III, 21.3.2018 n. 1828; Id., V, 28.12.2017 n. 6135; Id., V., 27.12.2017 n. 6088; Id., V, 13.12.2017 n. 5855; Id., V. 4.12.2017 n. 5698; Id., VI, 17.10.2017 n. 4803; Id., V, 12.6.2017 n. 2807;  Id., V, 31.12.2014 n. 6453].
Affermata la necessità dell’onere della prova del danno curricolare anche in ordine all’an, la giurisprudenza ha persino affermato che in caso di impresa leader del settore, deve escludersi che la mancata esecuzione dell’appalto e il mancato inserimento nel curriculum sia foriera di danno: si è affermato che siccome la ricorrente “si definisce “primaria impresa nel settore del lava-noleggio industriale con importanti commesse in favore di aziende sanitarie pubbliche e private, regionali ed extraregionali”, aggiungendo di essere stata di recente aggiudicataria del lotto 4 e 5 banditi dalla So.Re.Sa. s.p.a. per l’affidamento del servizio di lava-noleggio ospedaliero nella Regione Campania per un controvalore di oltre € 31.000.000,00. La circostanza dimostra che il mancato inserimento dell’appalto eseguito nel proprio curriculum professionale non ha avuto ripercussioni negative (né presumibilmente ne avrà) sulla possibilità di conseguire le commesse economicamente più appetibili e, più in generale, sul suo posizionamento nello specifico settore di mercato in cui è chiamato ad operare” [Cons. St., V, 28.1.2019 n. 689]; un’impresa leader nel settore difficilmente subisce un danno curricolare dalla mancata aggiudicazione di un appalto, attesa l’inidoneità della mancata assegnazione a scalfirne il prestigio [Cons. St., V, 2.1.2019 n. 14].
Come visto la plenaria n. 2/2017 fa propria questa seconda soluzione, ritenendo che il danno curricolare vada quantificato in una percentuale della somma già liquidata come lucro cessante.
E tuttavia anche dopo la plenaria, perdura un orientamento meno rigoroso, che sul danno curricolare non esige un particolare onere probatorio né in ordine all’an né in ordine al quantum, e che in ordine al quantum propone tre diversi criteri di liquidazione: si è affermato che “la prova di un tale danno, derivante dalla mancata aggiudicazione, è in re ipsa, in quanto insita nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’appalto (…) nell’ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare. L’impresa, infatti, non può ritenersi gravata da alcun particolare onere probatorio, che condizionerebbe soltanto l’accesso per la stessa voce ad un risarcimento più elevato.
Il danno patito da un’impresa sotto il profilo curriculare, infatti, non consiste e comunque non si esaurisce nell’eventuale perdita di fatturato in uno specifico periodo, consistendo piuttosto nella perdita dell’esperienza derivante dallo svolgimento di un appalto, esperienza che può utilmente essere spesa sia in termini di aumento e/o mantenimento delle qualifiche SOA, sia per aumentare le chance di aggiudicazione di altre gare [Cons. St., V, 25.2.2019 n. 1257], e in ordine al quantum si è osservato che tale danno “non potendo essere giammai provato nel suo preciso ammontare, viene valutato dal giudice con equo apprezzamento delle specifiche circostanze del caso e liquidato in via equitativa ex artt. 2056 e 1226 c.c. Nel procedere ad una siffatta quantificazione, a differenza di quanto avviene per il danno da perdita di utile, il giudice amministrativo gode evidentemente della massima discrezionalità (…) non essendo vincolato al rispetto di alcuna percentuale prestabilita di utile atteso, né obbligato a calcolare la predetta percentuale sull’offerta presentata in gara. Il quantum debeatur, in effetti, può essere determinato, a seconda dei casi, direttamente ovvero riferendosi ad una percentuale del valore dell’appalto o, ancora, ad una percentuale dell’offerta presentata in gara dall’impresa che invoca il ristoro” [Cons. St., V, 25.2.2019 n. 1257]
Dunque non vi è ad oggi un orientamento univoco sul danno curricolare né quanto all’onere della prova dell’an né quanto ai criteri di liquidazione del danno pur tendendo a prevalere la tesi di un onere della prova rigoroso.
 
7.6. Il danno all’immagine professionale
Secondo una tesi, in sede di illegittima esclusione da appalto, il danno all’immagine professionale dell’impresa è risarcibile solo se vi sia la prova specifica che l’esclusione ha recato un nocumento all’immagine, alla professionalità, all’esperienza dell’impresa, ad esempio precludendo all’impresa ulteriori appalti in cui occorre dimostrare una specifica esperienza nell’ambito della quale non si può sfoggiare l’appalto non aggiudicato, e senza tralasciare che l’annullamento giurisdizionale dell’esclusione è già di per sé una forma di ristoro in forma specifica di tale danno all’immagine [Cons. St., V, 6.2.2007 n. 478; Id., VI, 7.8.2003 n. 4567].
Secondo una tesi più rigorosa, in tema di pubblici appalti il danno all’immagine professionale si configura in astratto solo a fronte dell’annullamento di un provvedimento di esclusione dalla gara reso per carenza dei requisiti incidenti sull’onorabilità dell’impresa [Cons. St., V, 6.4.2009 n. 2143; Id., V, 28.3.2008 n. 1331].
 
8. Risarcimento del danno e informativa antimafia
Si è posta anche la questione se sia eseguibile il giudicato amministrativo che accorda un risarcimento danni in materia di mancata aggiudicazione, in favore di soggetto nel frattempo attinto da informativa antimafia interdittiva: è stata rimessa alla plenaria la questione:
a) se il c. 1, lett. g), dell’art. 67 del ‘codice delle leggi antimafia’ (secondo cui “le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere: (…) g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”) osti a che possano essere erogate da una pubblica amministrazione – sia pure in esecuzione di una pronuncia definitiva di condanna resa dal giudice amministrativo – somme di danaro, spettanti a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto che sia stato attinto prima della definizione del giudizio risarcitorio da un’informativa interdittiva antimafia, conosciuta solo successivamente alla formazione del giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la somma accertata come spettante;
b) se la previsione di cui al c. 1, lett. g) dell’art. 67 (laddove espressamente richiama “altre erogazioni dello stesso tipo”), possa essere intesa anche nel senso di precludere il versamento in favore dell’impresa di somme dovute a titolo risarcitorio in relazione a una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto [Cons. St., V, 28.8.2017 n. 4078, ord.].
La plenaria ha accolto una tesi di estrema severità, ritenendo che nella locuzione dell’art. 67, c. 1, lett. g) rientri anche il risarcimento del danno dovuto ad una impresa (persona fisica o giuridica) attinta da informativa antimafia; con il temperamento che non viene meno l’obbligazione giuridica risarcitoria della p.a., ma si determina una temporanea incapacità giuridica dell’impresa di ricevere il pagamento, finché perdura l’interdittiva antimafia: a) il provvedimento di “interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto – persona fisica o giuridica – è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d.lgs. n. 159/2011 n. 159; b) l’art. 67, co. 1, lett. g) del d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa [Cons. St., ad. plen., 6.4.2018 n. 3].
La plenaria invoca il proprio precedente n. 19/2012 (che però riguardava una fattispecie indennitaria e non una condanna al risarcimento derivante da un giudicato), e osserva che l’espressione usata dal legislatore nell’articolo citato ricomprenda anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa. Non si comprenderebbe perché nel divieto legislativo dovrebbero rientrare unicamente le erogazioni dirette ad arricchirlo (l’imprenditore colpito da interdittiva) e non anche quelle dirette a parzialmente compensarlo di una perdita subita sussistendo per entrambe il pericolo che l’esborso di matrice pubblicistica giovi ad un’impresa soggetta ad infiltrazioni criminali.
In sostanza il legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale da parte della pubblica amministrazione in favore di soggetti colpiti da interdittiva, sicché l’art. 67, c. 1, lett. g) non potrebbe che essere interpretato nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla p.a.
Né osterebbe a tale ricostruzione il riferimento normativo a “contributi, finanziamenti e mutui agevolati” (casi specificamente indicati), e “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.
L’espressione “dello stesso tipo” che indicherebbe una riconducibilità delle erogazioni al genus delle “provvidenze” e quindi escluderebbe le somme da corrispondersi a titolo di risarcimento – appare, secondo la plenaria, un argomento esegetico poco persuasivo, potendo opporsi che gli istituti espressamente contemplati dal legislatore (contributi, finanziamenti, mutui agevolati) rientrano tutti nella più ampia categoria delle obbligazioni pecuniarie pubbliche, di modo che lo “stesso tipo” entro il quale rientrano le “altre erogazioni” interdette, ben può essere inteso come il genus delle obbligazioni pecuniarie poste a carico della Pubblica Amministrazione, quale che ne sia la fonte e la causa.
La tesi non appare condivisibile e il precedente n. 19/2012 riguardava tutt’altra questione, ossia la possibilità di erogare un indennizzo a una impresa colpita da un evento calamitoso (abbattimento capi bufalini per emergenza brucellosi), se l’impresa fosse in atto attinta da informativa antimafia. Si poteva anche arrivare a ritenere che lo Stato non fosse tenuto a erogare provvidenze economiche – quali pure sono gli indennizzi – a imprese in atto colpite da interdittiva.
Nel caso di specie si tratta invece di un risarcimento danni derivante da un giudicato, per danni relativi ad epoca in cui non vi era interdittiva. Vi era stato anche un giudizio per revocazione del giudicato, da cui era emerso che non era controversa la spettanza dell’appalto, non conseguito, e la ininfluenza della interdittiva, successiva ai fatti produttivi di danno [Cons. St., V, 16.3.2016 n. 1078]. Diverso sarebbe stato il caso in cui nel giudizio di danno da mancata aggiudicazione, si fosse provato che essendovi una informativa interdittiva, il contratto non si sarebbe potuto conseguire o se stipulato sarebbe stato risolto. In tale evenienza, la interdittiva avrebbe inciso sull’an o sul quantum del risarcimento. Ma non era questo il caso. E dunque, appare discutibile che a fronte di un giudicato che accerta e quantifica il danno, si possa equiparare una obbligazione da fatto illecito a una delle voci dell’art. 67, lett. g), che sono provvidenze economiche “concesse o erogate”, nozione del tutto diversa da somme dovute a titolo di risarcimento in virtù di un giudicato.
 
9. Profili processuali. La tecnica della condanna sull’an con i criteri per il quantum
Nei giudizi risarcitori in materia di appalti non di rado viene emessa una pronuncia di condanna sull’”an”, mentre per la liquidazione del danno si fa applicazione dell’art. 34 c.p.a., ossia la decisione si limita a fissare i criteri sulla base dei quali viene ordinato alla stazione appaltante di formula alla controparte una offerta risarcitoria [Cons. St., V, 26.7.2019 n. 5283; Id., V, 28.5.2019 n. 3492; Id., III. 22.8.2018 n. 5014; Id., V, 14.5.2018 n. 2853; Id., V, 28.12.2017 n. 6135; Id., V, 13.12.2017 n. 5855; Id., V. 4.12.2017 n. 5698; Id., VI, 17.10.2017 n. 4803; Id., V, 25.6.2014 n. 3220; Id., VI, 27.4.2010 n. 2384; CGARS, 6.11.2019 n. 947; Id., 21.10.2019 n. 917; Id., 26.7.2019 n. 706; Id., 11.2.2019 n. 100; Id., 11.12.2017 n. 543; Id., 20.1.2017 n. 24; Id., 3.11.2016 n. 381; Id., 26.9.2016 n. 332; Id., 5.5.2016 n. 131; Id., 5.5.2016 n. 132; Id., 8.2.2016 n. 39].
 
 
Rosanna De Nictolis
Presidente Cga
 
Pubblicato il 23 dicembre 2019
 

[1] Relazione svolta al Convegno organizzato dall’Ufficio studi e massimario della Giustizia amministrativa “A 20 anni dalla sentenza n. 500/1999: attività amministrativa e risarcimento del danno”,  tenutosi a Roma, 16 dicembre 2019 (Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro, 13 – Roma).
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