Dirigenti grazie all’olio santo. In Sicilia arriva la Riforma Madia. E ora?
22 novembre 2016 – 20:25 di SALVATORE PARLAGRECO
Il decreto Madia sulla dirigenza pubblica sta per arrivare e anche in Sicilia è in corso di elaborazione la riforma della dirigenza che ripercorre le linee della Madia. Che cosa cambierà? Avremo dirigenti più efficienti che sapranno guidare meglio la macchina dell’amministrazione? Si darà più peso alla meritocrazia e all’autonomia dei grand commis? La tanta annunciata omologazione dei dirigenti in ruoli unici dello Stato e in ruoli delle Regioni e degli enti locali che effetti produrrà?
Il decreto Madia si muove nella direzione inaugurata dal decreto Cassese del ’90, in Sicilia la legge 10 del 2000, e dei diversi provvedimenti normativi dopo varati, il decreto 165 del 2001, il decreto Brunetta del 2009 i più importanti: gestione manageriale affidata ai dirigenti e accentuazione della loro responsabilizzazione.
E’ cambiato molto dopo queste riforme che erano definite epocali? Non mi pare. Tra l’altro le tante leggi che si sono succedute si assomigliano tra di loro e ripetono talvolta le stesse norme o gli stessi principi. Segno che quelle norme e quei principi non sono stati rispettati. Così, per esempio, la regola della rotazione degli incarichi, presente anche nel decreto Madia: sarà ora osservata o se ne terrà conto quando fa comodo?
Se si guarda al passato e al presente col disincanto che l’esperienza insegna, non c’è d’aspettarsi molto da quest’ennesima riforma. Se non altro, per un motivo tanto determinante da avere dentro di sé tutti gli altri. Ciò che rovina la dirigenza, tutto l’apparato della pubblica amministrazione e la sua funzionalità, è il suo perverso legame con la politica.
Che la politica debba dettare le linee delle azioni della p.a. è pacifico. Il politico è legittimato dalla volontà popolare ed è giusto che, in virtù di essa, eserciti le sue prerogative. I dirigenti e i funzionari sono chiamati a tradurre nel concreto gli indirizzi politici. In questo senso sono il loro braccio operativo. Un esempio può chiarire meglio. Se il governo decide di incrementare gli asili nido, il dirigente dovrà attivare tutti gli strumenti tecnici perché questi si moltiplichino e si distribuiscano nel territorio. Su come o con che misure debba raggiungere l’obiettivo però è libero di decidere, salvo il rispetto della legge e senza altro condizionamento. Qui finisce l’”asservimento” del dirigente al politico.
Nella realtà pratica, invece, e in quella della nostra Regione in particolare, vi è un rapporto strettissimo e patologico tra politica, dirigenza e p.a..
I dirigenti apicali sono nominati dalla Giunta, e ciò può giustificarsi perché è opportuno che vi sia sintonia tra governo e vertici burocratici. Purché le scrivanie più prestigiose siano affidate non dimenticando le ragioni della competenza. Che, invece, tante volte – troppe – sono ignorate, tanto la responsabilità della gestione ricade sui dirigenti.
Ma l’ingerenza dei politici si estende anche sugli altri dirigenti e gli assessori, se si guarda alla nostra Regione, tutto fanno meno quello che dovrebbero fare. Gli atti di pianificazione e le direttive, che ci aspetteremmo da loro, latitano (si preferisce improvvisare e comandare con atti informali).
Per dirigere un ufficio è sempre meglio avere la benedizione di uno o più politico. Così accade che nella sovraffollata dirigenza della Regione siciliana, selezionata con i metodi meno meritocratici possibili, uffici anche di un certo rilievo sono assegnati a funzionari privi di preparazione ma con buone coperture politiche. Peraltro, nel variegato e colorito universo dell’amministrazione regionale i politici elargiscono i loro appoggi a tutti, non solo ai dirigenti.
La maggioranza dei dipendenti regionali vanta un suo santo o diavolo protettore nei palazzi che contano. Servirà per ottenere il trasferimento presso l’ufficio che più aggrada e più vicino a casa. Ciò spiega (“elementare Watson”) la pessima distribuzione del personale nell’estesa amministrazione, con uffici periferici sovradimensionati oltre l’immaginabile e uffici centrali privi di figure chiave.
Diffidare della bontà di un’ennesima riforma è, quindi, giustificato se a farla sono i politici, cioè i principali responsabili del dissesto dell’amministrazione. Obiezione: ma chi fa le leggi se non i politici? Vero, verissimo. Solo che è arrivato il momento che i politici devono mettere da parte gli interessi clientelari e guardare a quelli della collettività. Farebbe comodo anche a loro, perché in tempi di vacche magre il clientelismo non paga più.
Nessun tag inserito.