21.05.2015 – Dirigenza pubblica: la macchiettistica e devastante visione del bocconiano

Dirigenza pubblica: la macchiettistica e devastante visione del bocconiano

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Nutre un viscerale disprezzo per i dirigenti pubblici e l’organizzazione pubblica in generale, ma quando ha l’occasione di acquisire consulenze dai ministeri o incarichi da dirigente in aziende a capitale pubblico, si butta a capofitto.

E’ un bocconiano di ferro, di quella schiera che da 20 anni sentenzia su come riformare la pubblica amministrazione e fa da consulente a governi di qualsiasi schieramento e pensiero, sempre allo scopo di coadiuvarli per fare “riforme epocali”. Che non funzionano mai, e che richiedono dopo pochi mesi nuove “riforme epocali”, per le quali si chiamano come consulenti, coloro che avevano svolto questo ruolo per le precedenti riforme fallite.

Giovanni Valotti, prorettore della Bocconi e attuale presidente della società A2A (azienda energetica e ambientale lombarda controllata dai Comuni di Milano e Brescia, quotata in Borsa), ha tantissime responsabilità nel sistematico insuccesso delle tante riforme della pubblica amministrazione, in particolare proprio per quelle parti che concernono la dirigenza e, ancor più, per i sistemi di valutazione. Ha avuto un ruolo di primo piano per la riforma Brunetta, esattamente nella parte relativa ai meccanismi di valutazione, vantandosi di aver fatto introdurre il concetto di “performance”, un’inutile parola straniera in un ancor meno utile sistema valutativo, fallito senza appello, come dimostrato dalla parabola della Civit, nata per fare sfracelli ed insegnare al mondo come si valuta, ed evaporata dopo pochi anni per manifesta incapacità ed inutilità.

Ci sarebbero moltissime ragioni per mettere una volta e per sempre da parte i consigli e le consulenze dei Valotti, ringraziandoli per l’operato passato. Eppure, ancora oggi il Valotti continua, invece, a pontificare sulla dirigenza pubblica, grazie anche alle inopportune occasioni che gli forniscono i media. Su Italia Oggi del 20 maggio, nell’articolo “I limiti dei dirigenti pubblici” il Valotti cerca per l’ennesima volta di mettere sotto accusa il mondo della dirigenza pubblica, ma rivela come di pubblica amministrazione sappia davvero poco. Troppo poco, per poter davvero essere considerato autorevole sulla materia.

L’errore fondamentale dei Valotti è continuare a insistere su un parallelismo tra aziendalismo privato e pubblica amministrazione. Non è evidentemente ancora chiaro che esso è la causa micidiale della china discendente del sistema pubblico. Non è chiaro che mentre le aziende hanno dinamiche volte a vendere prodotti, creare clientele, produrre fatturato, distribuire profitti e dividendi occupando fette di mercato, la pubblica amministrazione non deve acquisire clientela né interessarsi al fatturato. La pubblica amministrazione ha un compito diverso: saper distribuire in maniera corretta, spessissimo antieconomica (si pensi al trasporto pubblico, alla sanità, ai servizi sociali), le risorse acquisite attraverso le imposte, in modo da dare servizi, possibilmente per riequilibrare le posizioni differenziate nella società.

Le aziende cercano valore, agiscono in concorrenza, sgomitano e non si interessano, naturalmente, di problemi di redistribuzione di reddito e servizi. Le aziende spesso, anzi, agiscono per nicchie di mercato, come le industrie di produzione di auto di lusso, le case di alta orologeria, le scuole private per la ricca borghesia. Tutto perfettamente legittimo.

Il sistema pubblico opera per fini completamente diversi, molte volte per supplire ai ben noti fallimenti del mercato, che proprio perché orientato spesso a certe tipologie di clientela e alla reddititività, mai si interesserebbe di gestire servizi a rete di fognature o di servizi domiciliari per anziani.

La risposta di Valotti, dunque, alla domanda su quale sia la differenza tra un dirigente di A2A e un dirigente statale, oltre ad essere uno stereotipo vecchio, stantio, scontato, banale, rivela come il Valotti non abbia davvero idea dello scopo della pubblica amministrazione e risponde: “Il primo sa che ogni giorno deve impegnarsi e anche talvolta lottare per mantenere il posto di lavoro. Invece nel settore pubblico, quando si vince un concorso da dirigente, subentra l’idea di stabilità, per cui il posto è garantito a prescindere dai risultati”.

Insomma, la lotta per il posto è di per sé un valore, per Valotti. Dunque, la soluzione quale sarebbe? Precarizzare la dirigenza pubblica. Esattamente quello che una pubblica amministrazione intenta a fornire servizi e non a realizzare profitti non dovrebbe mai fare. Al netto, ovviamente, della necessità di cacciare chi non è capace.

Proseguendo nell’intervista, Valotti cala dall’alto l’altro stereotipo: “I dirigenti della aziende e fanno carriera anche nella misura in cui conoscono e valorizzano le persone. Quelli pubblici sono più esperti in diritto e procedure. Per dirla con una battuta sono troppo impegnati nel motivare gli atti piuttosto che altro. In una recente causa di lavoro, un’udienza è stata aggiornata a 25 mesi, tenendo in sospeso così il ricorrente e l’azienda resistente, che deve anche bloccare un accantonamento a fondo rischi, un rinvio lunghissimo deciso come se fosse una cosa da nulla”.

In una sola frase, tutta la sommarietà dell’approccio alla questione della dirigenza. Il modo con il quale le aziende, spesso quelle grandi, “conoscono e valorizzano” le persone sarebbe da verificare con i sindacati ed analizzando le tantissime vertenze di lavoro per mobbing o altre cause. Far credere che nel privato ci sia il Paradiso è semplicemente melenso. Far immaginare che i dirigenti del settore privato dispongano di esoterici poteri di questa natura solo apodittico.

Valotti omette scientemente di ricordare che nel sistema privato si dispone di un livello di autonomia, appunto di diritto privato, nelle decisioni e, in particolare, nella gestione del personale, che nel sistema pubblico semplicemente non esiste.

Questo per la semplicissima ragione che la pubblica amministrazione, poiché gestisce risorse non proprie, deve dare conto, per filo e per segno, di ogni decisione adottata, in modo da dimostrare che essa rispetti il fine pubblico al quale è rivolta la propria azione. Per questo il privato può permettersi di non motivare le proprie decisioni, mentre il pubblico deve farlo. Non è uno sport nel quale i dirigenti pubblici intendono dilettarsi: una minima conoscenza del diritto amministrativo, informerebbe Valotti che l’assenza di motivazione rende illegittimo qualsiasi provvedimento, anche il più manageriale, efficiente ed efficace. Che, poi, se illegittimo e annullato dal Tar, di efficace non ha proprio nulla.

Allora, parlare di dirigenza pubblica dal piedistallo, ignorando l’esistenza delle regole pubblicistiche dell’agire, che senso ha? Che aiuto costruttivo può mai derivare?

E come si fa a confondere, come fa Valotti (in questo incredibilmente seguito da tanti) un giudice del lavoro con un dirigente pubblico? Ma, Valotti sa che i giudici sono parte non della PA, ma di un potere, quello giudiziario, completamente indipendente e separato da quello esecutivo, del quale, invece i dirigenti sono espressione? Ma, di cosa parla?

Alla domanda in merito alle cause del presunto atteggiamento “poco manageriale” dei dirigenti pubblici, la risposta di Valotti non può che essere un altro concentrato di banalità pressappochiste: “L’impressione è che i dirigenti pubblici non sempre hanno il senso economico del tempo. spesso, per loro, se una procedura dura sei giorni o sei mesi non ha importanza, basta che sia corretta dal punto di vista formale”. Peccato che proprio la verifica del rispetto dei tempi massimi dei procedimenti sia uno dei pochissimi elementi chiari dei sistemi di valutazione che il Valotti non è mai riuscito a consigliare con efficacia ai vari ministri dela Funzione pubblica. E peccato ancora che l’azione amministrativa, a differenza di quella privatistica, non sia libera nelle forme e che addirittura la Corte dei conti elabora da oltre 150 anni una fittissima giurisprudenza esattamente sulla responsabilità “formale”. Ma, per criticare l’attenzione alle forme, certe cose basta non saperle. E, dunque, sentenziare.

E, allora, chiede l’intervistare, come scegliere i manager pubblici? “Non è facile cambiare, perché non si può mettere la dirigenza pubblica in balia della politica con lo spoil-system, se poi la politica non risponde del risultato; ne, viceversa, si può lasciare la politica in mano alle tecnostrutture inamovibili. Occorre accentuare però, rispetto ad oggi, il criterio della responsabilità e quindi anche della rimovibilità dei dirigenti”.

Niente da fare. Valotti non si degna di leggere le norme e prendere atto che l’articolo 21 del d.lgs 165/2001 consente da sempre di rimuovere i dirigenti incapaci. Più facile, invece, sponsorizzare la devastante scelta che stanno operando Governo e Parlamento di far rimuovere i dirigenti non per demeriti accertati, ma per semplicissima decadenza dall’incarico senza successivo incarico, così da consentire una rimozione automatica, immotivata, slegata da ogni valutazione magari sorretta esclusivamente da ragioni di appartenenza politica.

E come fa A2A a selezionare i propri dirigenti, chiede allora l’intervistatore. “Negli ultimi sei mesi abbiamo allontanato dieci dirigenti e ne abbiamo assunto sette nuovi. Per sceglierli, ci siamo avvalsi di una delle tre principali società di cacciatori di teste del mondo, abbiamo visto una long-list di candidati, divenuta poi shortlist, abbiamo letto curricula e fatto colloqui… Un ruolo essenziale lo hanno, in questi casi, nel privato, le referenze, che sono approfondite e impegnano chi le firma, mentre nelle selezioni pubbliche tutti sono impegnati a sterilizzare la scelta del personale dalle referenze, che sono considerate alla stregua di deteriori raccomandazioni”.

Ah, sì, la long-list e la shortlist. Certo, perché l’inglesismo, il latinorum, quando non si ha molto da dire è sempre utilissimo, per far sembrare di emettere sentenze inappellabili.

Liste lunghe e rose ristrette, analisi del curriculum e colloqui. E referenze. Questo sistema, assolutamente non selettivo ma all’evidenza arbitrario, va benissimo nel privato che sceglie esattamente chi meglio ritiene. E’ all’evidenza insufficiente ed infantile per selezionare un apparato che, pur dovendo attuare gli indirizzi politico-amministrativi, operi in via autonoma, nel rispetto dell’interesse pubblico ed applicando le cognizioni tecniche peculiari del pubblico, che, piaccia o non piaccia ai Valotti, non sono meno rispettabili di quelle del privato.

Il capolavoro dell’intervista, però, è la risposta alla domanda se non sia meglio la selezione per concorso. Ecco il cameo: “Le imprese si fanno la guerra per avere i migliori dirigenti, mentre nel pubblico si attende che i dirigenti arrivino dai concorsi, dopo aver studiato per superarli. Si trascura che, spesso, il fatto in sé di studiare per il concorso dimostra che il candidato ha delle cose da imparare per andare a occupare quel posto dirigenziale, mentre dovrebbe poterlo conquistare in virtù di quel che già sa e che ha già dimostrato di sapere”.

Insomma, nel privato esiste la “scienza infusa”, perché la capacità è stata data in modo innato al dirigente, in quantovuolsi così colà dove si pute ciò che si vuole e più non dimandare. I plebei della dirigenza pubblica, invece, sono talmente di basso livello che, addirittura, studiano, si formano e si mettono in gioco per superare concorsi, nei quali, al netto di manipolazioni e corruttele, il curriculum, la referenza, la shortlist, non servono proprio a nulla e si cerca di comprovare che l’esperienza acquisita si riversi in una crescita di livello di cognizioni e competenze.

E’, in conclusione, incredibile come dopo 20 anni ancora si reciti lo stesso rosario fallimentare su dirigenti pubblici e riforma della PA, sotto la direzione sempre degli stessi autori delle “riforme epocali”, ottime per produrre consulenze, slogan e best seller in libreria, ma inutili, se non dannosi, per l’ordinamento.

 

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