19/12/2017 – Maggiori tutele per i segnalatori di reati o irregolarità nel pubblico e nel privato

Maggiori tutele per i segnalatori di reati o irregolarità nel pubblico e nel privato

di Amedeo Di Filippo – Dirigente comunale

Le novità per le pubbliche amministrazioni

Dopo tanto dibattere, prendono il via le modifiche alle regole che assicureranno maggiori garanzie a quanti avranno la forza di segnalare illeciti di cui vengono a conoscenza nell’ambito lavorativo. Il percorso di tutela dei whistleblowers -i “suonatori di fischietto”- regolato dall’art. 1, comma 51, L. n. 190 del 2012 che ha introdotto l’art. 54-bis al D.Lgs. n. 165 del 2001 -poi in parte modificato dall’art. 31, comma 1, del D.L. n. 90 del 2014 convertito dalla L. n. 114 del 2014– trova una ulteriore implementazione che ha la specifica finalità di rendere maggiormente sicura la “delazione” e così contribuire a far emergere episodi di malamministrazione.

Nell’ambito del lavoro pubblico, l’art. 1L. n. 179 del 2017 sostituisce integralmente l’art. 54-bis. Nella formulazione originale, è stato tutelato il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti o all’Anac, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico, condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro; questi “non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia” (comma 1).

Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato (comma 2).

L’adozione di misure discriminatorie è segnalata alla Funzione pubblica dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere (comma 3). La denuncia è sottratta all’accesso previsto dagli artt. 22 e segg., L. n. 241 del 1990 (comma 4).

Nella versione aggiornata, il dipendente può segnalare, “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione”, oltre che all’Anac anche al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Nei confronti dell’autorità giudiziaria ordinaria o contabile rimane la possibilità della “denuncia”.

L’oggetto delle segnalazioni e/o denunce rimangono le condotte illecite di cui il dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro. In questi casi, egli “non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione”. Nella versione precedente erano prese in considerazione le sole ipotesi di sanzione, licenziamento o sottoposizione a misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

Vengono dunque aggiunte le ipotesi in cui il dipendente venga trasferito o sottoposto ad altra “misura organizzativa” con effetti negativi sulle condizioni di lavoro, categoria moto più ampia di quella “discriminatoria” prevista nella versione previgente.

L’adozione di eventuali misure -identificate come “discriminatorie” nel testo previgente e “ritorsive” in quello modificato- è segnalata non più alla Funzione pubblica ma all’Anac, sempre a cura dell’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’Anac è però tenuto ad informare il Dipartimento della funzione pubblica “o gli altri organismi di garanzia o di disciplina”, con evidente riferimento agli uffici disciplinari delle singole amministrazioni, affinché svolgano le attività e adottino gli eventuali provvedimenti di competenza.

Ulteriore novità, introdotta al comma 2, è la definizione di “dipendente pubblico”, da intendersi non solo quello alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165 del 2001, ma anche:

– il dipendente di un ente pubblico economico;

– il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’art. 2359 del codice civile, ossia le società partecipate e controllate da enti pubblici;

– i lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica, quindi i dipendenti di tutti gli operatori economici che abbiano appalti o concessioni di qualsiasi natura e importo.

Il comma 3 afferma che l’identità del segnalante non può essere rivelata: la novità rispetto all’immediato passato è che tale divieto era limitato all’ambito del procedimento disciplinare, nel quale l’identità del segnalante non poteva essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare fosse fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione ovvero sulla segnalazione e la sua conoscenza fosse assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.

Nella nuova versione, il comma 3 opera distinzioni a seconda del giudice adìto:

– nel caso di ricorso all’autorità ordinaria, l’identità del segnalante “è coperta dal segreto” secondo quanto dispone l’art. 329 c.p.p.;

– nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria;

– nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità non può essere rivelata ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa; qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.

Il comma 4 mantiene la sottrazione della segnalazione all’accesso previsto dagli artt. 22 e segg., L. n. 241 del 1990. Gli ulteriori commi dell’art. 54-bis sono invece del tutto nuovi.

Il comma 5 affida all’Anac, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, l’onere di adottare apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni, le quali prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione.

Il comma 6 consegna all’Autorità anticorruzione un solido potere sanzionatorio nei confronti del “responsabile” rispetto ad alcuni casi specifici:

– qualora nell’ambito dell’istruttoria accerti l’adozione di misure discriminatorie, la sanzione amministrativa pecuniaria va da 5.000 a 30.000 euro;

– qualora accerti l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, la sanzione va da 10.000 a 50.000 euro;

– stesso range qualora accerti il mancato svolgimento di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute.

È poi inserito un potere riduttivo della sanzione per l’Autorità, la quale ne determina l’entità “tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione”.

Viene quindi posto a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente l’onere di dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Nel caso contrario sono nulli (comma 7). Qualora licenziato, il segnalante deve essere reintegrato nel posto di lavoro (comma 8).

Le tutele però non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave (comma 9).

La responsabilità delle società

L’art. 2L. n. 179 del 2017 regola la tutela del segnalante nel settore privato, introducendo alcuni commi all’art. 6D.Lgs.. n. 231 del 2001, che ha disciplinato la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.

L’art. 6 dispone che qualora il reato venga commesso dalle persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso, l’ente non risponde se prova di aver l’organo adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento sia stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; non vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo.

Il comma 2 indica le finalità dei modelli di organizzazione e gestione della prevenzione del rischio: individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire; individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli; introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

Vengono inseriti tre commi:

– il comma 2-bis dispone che i modelli debbano prevedere altresì: a) uno o più canali che consentano ai soggetti di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; b) almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante; c) il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione; d) sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate;

– il comma 2-ter prevede che l’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei segnalanti può essere denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro dal segnalante e dall’organizzazione sindacale indicata dal medesimo;

– per il comma 2-quater, il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo, così come sono nulli il mutamento di mansioni e qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria. Nel caso di controversie, è onere del datore di lavoro dimostrare che le misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione.

L’obbligo del segreto

La L. n. 179 del 2017 si chiude con l’art. 3, che integra la disciplina dell’obbligo di segreto d’ufficio, aziendale, professionale, scientifico e industriale. Al comma 1 viene disposto che le segnalazioni o denunce, sia nel pubblico che nel privato, costituiscono giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui ai seguenti articoli:

– art. 326 c.p., che punisce il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza;

– l’art. 622 c.p., che punisce chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto;

– l’art. 623 c.p., che punisce chiunque, venuto a cognizione per ragione del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche o applicazioni industriali, le rivela o le impiega a proprio o altrui profitto;

– l’art. 2105 c.c., che vieta al prestatore di lavoro di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore o divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

In base al comma 2, le predette disposizioni non si applicano nel caso in cui l’obbligo di segreto professionale gravi su chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata.

Chiude il comma 3, in base al quale quando notizie e documenti che sono comunicati all’organo deputato a riceverli siano oggetto di segreto aziendale, professionale o d’ufficio, costituisce violazione del relativo obbligo di segreto la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito e, in particolare, la rivelazione al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine.

L. 30 novembre 2017, n. 179 (G.U. 14 dicembre 2017, n. 291)

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