09/01/2019 – Legittimo il licenziamento per il dipendente pubblico iscritto all’albo degli avvocati

Legittimo il licenziamento per il dipendente pubblico iscritto all’albo degli avvocati

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 32156, del 12 dicembre 2018, ha rigettato il ricorso presentato da un dipendente nei confronti del Comune di appartenenza; per i giudici di legittimità il dipendente comunale che svolge contestualmente la libera professione di avvocato si trova in una situazione di incompatibilità di cui all’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001 ed è, pertanto, legittimo il licenziamento disciplinare.

Il licenziamento, secondo i giudici di legittimità, è da considerarsi corretto anche solo in presenza di mera iscrizione all’albo degli avvocati, che farebbe presumere in ogni caso, lo svolgimento della libera professione.

Il contenzioso

La Corte di appello aveva rigettato il reclamo proposto dal dipendente ricorrente avverso la sentenza del Giudice del lavoro, con cui era stata rigettata la domanda, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento disciplinare, disposto nei suoi confronti, dal Comune da cui dipendeva con nota del settembre 2015, per l’incompatibilità della funzione di pubblico dipendente, con l’esercizio della professione forense.

La Corte territoriale ha respinto le censure mosse dal dipendente ricorrente, riguardanti la tardività dell’azione disciplinare, sulla non corrispondenza tra contestazione e addebiti posti a base del licenziamento e sul difetto di prova dei fatti ascritti.

In particolare i giudici del merito, con riferimento alla contestazione del dipendente ricorrente sul difetto di corrispondenza tra addebito contestato e quello individuato nella lettera di licenziamento, ha osservato che il corretto contenuto della lettera di contestazione lasciava intendere che l’Amministrazione avesse addebitato al dipendente di non avere dichiarato la propria situazione di incompatibilità, ossia di essere rimasto iscritto all’albo degli avvocati e che ciò lasciasse anche presumere l’esercizio della professione forense; che con tale missiva il Comune aveva provveduto a ricostruire tutta la normativa applicabile, richiamando non soltanto le norme che prevedono situazioni di incompatibilità con la qualifica di pubblico dipendente (art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001artt. 60 ss., T.U. n. 3 del 1957) e con l’esercizio della professione forense (L. n. 339 del 2003L. n. 247 del 2012), ma anche quelle in base alle quali è possibile presumere il concreto esercizio dell’attività professionale (art. 21L. n. 247 del 2012); in altri termini, la Corte territoriale, ha ritenuto legittima la decisione del Comune che aveva messo in stretta correlazione l’iscrizione all’albo degli avvocati con l’esercizio della professione forense, con conseguente incompatibilità con la funzione di dipendente.

Le motivazioni del ricorso in Cassazione

Avverso la sentenza della Corte territoriale, il dipendente è ricorso, con una seria articolata di motivazioni, in Cassazione evidenziando che :

1) con il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, per tardività della contestazione rispetto al momento di conoscenza dei fatti. Ritiene che la Corte territoriale aveva erroneamente interpretato e applicato alla fattispecie l’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001, poiché l’Amministrazione comunale aveva conoscenza della sua iscrizione all’albo degli avvocati dal dicembre 2013: a tale data risaliva la prima acquisizione della notizia dell’infrazione; rispetto a tale momento la contestazione disciplinare era tardiva, poiché avvenuta soltanto l’11 giugno 2015. Deduce che il concetto di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, da cui dipende l’esatta identificazione del dies a quo per il valido esercizio dell’azione disciplinare, indica un comportamento puramente ricettizio di un fatto oggettivo, esente da qualsiasi valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione, restando esclusa una fase procedimentale per avere la certezza della notizia come acquisita.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti e nullità della sentenza per omessa motivazione in ordine alla richiesta di cancellazione dall’albo degli avvocati avanzata dal ricorrente nel dicembre 2012. Assume il ricorrente che la circostanza di avere avanzato tale richiesta, se valutata, avrebbe consentito di fare ritenere a lui non ascrivibile il ritardo, imputabile invece al Consiglio dell’Ordine, nel provvedere a tale cancellazione.

Con un altro motivo di ricorso, il dipendente ricorrente contesta la sussistenza del fatto ascritto all’incompatibilità posta a base del licenziamento. Assume che il fatto contestato non sussiste, in quanto la permanenza dell’iscrizione all’albo era dipesa dal ritardo imputabile al Consiglio dell’Ordine e che la sola iscrizione un albo professionale non è vietata, in quanto il divieto posto dall’art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001 e dall’art. 60 del Testo Unico n. 3 del 1957, concerne il concreto esercizio della professione forense.

L’analisi della Cassazione

Per i giudici di legittimità i motivi del ricorso sono infondati. La Cassazione evidenzia che è stato precisato che, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione ex art. 55-bis, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001, in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. con sentenza n. 310 del 5 novembre 2010, assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare (cfr. Cass. civ. n. 7134 del 2017 e n. 6989 del 2018).

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha evidenziato che, dalla sequenza dei fatti e dal tenore delle richieste avanzate dal Comune, alla data indicata dal ricorrente (dicembre 2013) ancora non era chiara la posizione del dipendente ricorrente, sussistendo dubbi circa l’effettiva situazione di incompatibilità, e che elementi sufficienti a consentire la formulazione della contestazione si ebbero solo con la risposta fornita dall’interessato nel maggio 2015. Tale ricostruzione del momento di acquisizione della notizia qualificata dell’infrazione è stata condotta dal giudice di merito con motivazione congrua e immune da vizi.

La contestazione disciplinare riguardo alla lettera di licenziamento attenevano, come evidenziato dalla Corte di appello nella sentenza impugnata, alla falsa dichiarazione da parte del ricorrente, resa in sede di assunzione presso il Comune, in merito alla inesistenza di cause di incompatibilità con lo status di dipendente e di tale falsa attestazione non poteva non essere consapevole proprio in ragione della inesistenza, all’epoca dell’assunzione (settembre 2012), della cancellazione dall’albo degli avvocati e dall’effettivo esercizio dell’attività professionale (pure ritenuta comprovata in giudizio).

Per i giudici di legittimità, inoltre, il permanere dell’iscrizione all’albo degli avvocati lasciava presumere l’esercizio della professione forense con connotazione di abitualità e che dirimenti fossero anche le risultanze istruttorie, che avevano evidenziato come il dipendente comunale avesse continuato a curare cause innanzi all’autorità giudiziaria, negli anni successivi al 2012.

Per la Cassazione il motivo è anche destituito di fondamento giuridico.

Il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi) dispone, al comma 1, che resta “ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’art. 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117art. 6, comma 2, e dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662art. 1, commi 57 ss. Restano ferme altresì le disposizioni di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297art. 267, comma 1, artt. 273274508 nonché art. 676, alla L. 23 dicembre 1992, n. 498art. 9, commi 1 e 2, alla L. 30 dicembre 1991, n. 412art. 4, comma 7, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina. Gli altri commi dello stesso articolo si occupano, con norme dichiarate espressamente applicabili sia ai dipendenti a regime di diritto pubblico sia a quelli c.d. contrattualizzati, dello svolgimento di attività extraistituzionali (incarichi), disciplinandone le condizioni di legittimità e prevedendo poteri di autorizzazione dell’amministrazione”.

La norma dettata dal richiamato art. 53, comma 1, ha sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, compresi quelli per i quali vigeva in precedenza una disciplina speciale (quali i dipendenti degli enti del parastato L. n. 70 del 1975, ex art. 8), della disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato agli artt. 60 e seguenti. La stessa norma, poi, ha fatto salve le disposizioni speciali in materia di incompatibilità già vigenti per il personale docente, direttivo e ispettivo della scuola, per il personale docente dei conservatori di musica, per il personale degli enti lirici e del servizio sanitario nazionale, nonché per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale. Dunque osservano i giudici di legittimità, l’art. 53 cit. ha ribadito il generale principio dell’incompatibilità, sancito per i dipendenti statali (e degli enti pubblici non economici), con riferimento a tutti i pubblici dipendenti.

Le conclusioni

La Corte di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Cass. civ., Sez. Lavoro, 12 dicembre 2018, n. 32156

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