03/04/2019 – Assunzioni in stato confusionale

Assunzioni in stato confusionale

di Luigi Oliveri

Il decreto legge 4/2019, convertito dalla legge 26/2019 conferma lo stato confusionale che, purtroppo da anni, caratterizza il Legislatore, specie in materia di disciplina delle assunzioni nella PA in generale e negli enti locali in particolare.

Sono ormai decenni che senza tregua una legislazione torrenziale pone regole, le puntella, le espande, le restringe, le rende più stringenti, le estende, le modifica, le rimodifica. In un inseguirsi senza fiato, che lascia gli operatori nella condizione che un ordinamento giuridico dovrebbe invece scongiurare: l’assoluta incertezza.

Il tutto, aggravato, per altro, dall’imposizione di programmazione dei fabbisogni, all’evidenza rese impossibili o, quanto meno, ridondanti proprio dalla circostanza che nessun programma può mai risultare né credibile, né attuabile nella sua durata triennale, visto che entro lassi di tempo drammaticamente inferiori il Legislatore continua coi suoi ripensamenti sulla materia.

Sta di fatto che il d.l. 4/2019, convertito in legge 26/2019, contiene un’evidente correzione – sia pure parziale – alla rotta disposta pochissimi giorni prima dalla legge di bilancio per il 2019, la legge 145/2019 ed una decisa rivisitazione delle previsioni contenute nel d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014.

Partiamo da questo. Nonostante siano passati, ormai, 5 anni quasi, è ancora vivo il ricordo di quella norma, sbandierata come una riforma “epocale”, finalizzata alla “staffetta generazionale”, che avrebbe dovuto svecchiare la PA consentendo nuove assunzioni.

Come si ricorda, si era previsto un progressivo abbandono della regola generale (ma molte volte derogata) del limite alle assunzioni del 25% del costo delle cessazioni dell’anno precedente, portato al 60% per gli anni 2015-2015, crescente all’80% per gli anni 2016-2017 e destinato a toccare il 100% nel 2018.

Subito dopo, però, è intervenuta una delle riforme più devastanti mai viste per l’ordinamento: la legge Delrio. Essa ha causato il blocco quasi totale delle assunzioni nel biennio 2015-2016 a causa della dissennata riforma delle province. Problemi, perfettamente prevedibili già nel 2014, di finanza pubblica, poi, hanno modificato le ottimistiche previsioni del d.l. 90/2014, sì da stringere in vario modo, con mille deroghe, le maglie dei vincoli alle assunzioni con una serie di norme disposte a partire dalla legge 208/2015, più volte ritoccata, rivista, aggiornata e modificata.

Per arrivare brevemente ai giorni nostri, ancora una volta Governo e Parlamento hanno agito in modo da affrontare problemi di programmazione in modo assolutamente non coordinato ed episodico.

Mentre, infatti, si elaboravano le norme su “quota 100”, contenute proprio nel d.l. 4/2019, parallelamente si definiva la legge 145/2018 mirata a stringere sull’utilizzo dello scorrimento delle graduatorie per la chiamata degli idonei ed a ripetere per il reclutamento dei nuovi dipendenti i medesimi errori commessi per la gestione degli appalti, puntando ad una centralizzazione dei concorsi destinata senza alcun dubbio a bloccare proprio quelle assunzioni che, invece, si intenderebbero attivare. Parentesi: il “decreto crescita” ai nastri di partenza di fatto vuole chiudere proprio con l’esperienza – fallimentare, come previsto – della concentrazione delle stazioni appaltanti, a riprova che, gli slogan prodotti da presunti esperti di spending review che non hanno mai concretamente conosciuto la gestione operativa, sono buoni solo per i talk show ed i titoloni sui giornali.

Avviatasi la possibilità di avvalersi del pensionamento anticipato, Governo e Parlamento si sono “accorti” di quello che era già evidente: la normativa avrebbe velocizzato il processo di pensionamento che a partire dal 2019, ma con punte elevatissime nel 2020 e nel 2021, porterà al pensionamento di circa 450.000 dipendenti pubblici, tutti d’un colpo.

Quindi, con la legge di conversione del d.l. 4/2019 adesso si intende correre ai ripari, mettendo letteralmente sulla graticola gli enti locali, che si erano cimentati nell’ardita impresa di programmare le assunzioni secondo le velleitarie regole della riforma Madia del 2017; impresa, ricordiamolo, resa tanto più improba dalle semplicemente assurde regole di programmazione generale disposte da un’altra riforma che sarebbe da correggere radicalmente al più presto, quella, cioè, della contabilità pubblica, causa misconosciuta di appesantimenti e blocchi burocratici anche degli appalti pubblici.

La legge 26/2019 agisce su due fronti. In primo luogo da una marcia indietro, tanto parziale quanto largamente prevedibile, sulla possibilità di scorrere le graduatorie per assumere gli idonei.

L’articolo 14-ter della legge di conversione rivede il contenuto del famigerato articolo 1, comma 361, della legge 145/2018, dettando un contrordine. Sarà, dunque, possibile utilizzare le graduatorie dei concorsi banditi successivamente alla vigenza della norma non più solo per assumere i vincitori, ma anche per coprire i posti “che si rendono disponibili, entro i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero dei posti banditi e nel rispetto dell’ordine di merito, in conseguenza della mancata costituzione o dell’avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori”.

Insomma, il Legislatore si è accorto – con poco perdonabile ritardo – che gli idonei “servono” e che risulta molto più pratico scorrere una graduatoria, piuttosto di attivare un altro concorso. Sicchè, se qualcuno tra i vincitori rinuncia o si dimette entro il triennio di efficacia delle graduatorie, per evitare alle amministrazioni di passare di nuovo attraverso le forche caudine delle procedure concorsuali, sarà possibile chiamare gli idonei.

Un’opportuna modifica, probabilmente anche fin troppo restrittiva. Sarebbe bastato rendere obbligatoria la previsione – solo facoltativa – già contenuta nella legge Madia di estendere gli idonei al solo 20%, per evitare l’insorgere di un problema, cagionato dal fatto che la mano destra non si occupa di ciò che fa la mano sinistra.

Per il Legislatore, poi, un’altra epifania: se davvero le assunzioni di qua a fine anno invertiranno la drammatica curva di discesa del personale in servizio, l’incremento (in realtà il recupero) del personale, modificherà le percentuali ai fini del computo delle assunzioni di disabili. Da qui la decisione, sempre con l’articolo 14-ter della legge 26/2014 di utilizzare le graduatorie “anche per effettuare, entro i limiti percentuali stabiliti dalle disposizioni vigenti e comunque in via prioritaria rispetto alle convenzioni previste dall’articolo 11 della legge 12 marzo 1999, n. 68, le assunzioni obbligatorie di cui agli articoli 3 e 18 della medesima legge n. 68 del 1999, nonchè quelle dei soggetti titolari del diritto al collocamento obbligatorio di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 23 novembre 1998, n. 407, sebbene collocati oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso”.

Ovvio che queste disposizioni influiscono sulla programmazione: le amministrazioni non dovranno affannarsi a pensare a possibili concorsi da indire nel caso di insufficiente “pescaggio” dei vincitori, ipotesi, questa, per altro non troppo astratta per le amministrazioni locali di piccole dimensioni.

Una seconda misura interviene sull’articolo 3, commi 5 e seguenti, del d.l. 90/2014. La legge 26/2019 interviene proprio sul quinto periodo del comma 5 dell’articolo 3 della legge 90/2014, secondo il seguente prospetto di confronto:

art. 3, comma 5, ° periodo, vecchio testo

art. 3, comma 5, ° periodo, nuovo testo

 

A decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile; è altresì consentito l’utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al triennio precedente

A decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a cinque anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile; è altresì consentito l’utilizzo dei residui ancora disponibili delle quote percentuali delle facoltà assunzionali riferite al quinquennio precedente

 

Si è persa l’occasione di tradurre dal sanscrito la previsione normativa, che per tanti anni ha suscitato incertezze interpretative, per altro non del tutto sopite.

Comunque, di fatto, la norma consente:

  1. di programmare assunzioni cumulate per cinque anni futuri e non solo per tre, come precedentemente previsto; in molti hanno accolto con favore questa previsione, ma nessuno spiega come sia possibile conciliare un cumulo delle risorse in un arco quinquennale, se la programmazione dei fabbisogni e delle assunzioni è solo triennale!;
  2. di utilizzare i resti assunzionali non più del triennio antecedente, ma del quinquennio precedente.

In riferimento al punto 2, quindi, nel 2019 sarà possibile effettuare assunzioni per il 100% del costo delle cessazioni del 2018 ed utilizzare i resti assunzionali del quinquennio 2013-2017.

Anche in questo caso, meglio sarebbe stato se il Legislatore avesse eliminato il fuorviante termine “residui”: le quote assunzionali, infatti, non sono un residuo contabile, ma semplicemente un potenziale di spesa.

In ogni caso, in questo modo si consente alle amministrazioni locali (e alle regioni) di assumere un maggior numero di dipendenti, poiché si incrementa la spesa da investire allo scopo.

Certo è che per le amministrazioni sarà necessario rivedere la programmazione delle assunzioni, per includere nuovi ed ulteriori posti a concorso, corrispondenti ai maggiori finanziamenti resi possibile da un cumulo dei resti assunzionali molto più ampio di quello tenuto in considerazione precedentemente.

Non solo. La legge 26/2019 introduce nell’articolo 3 del d.l. 90/2014 un nuovo comma 5-sexies: “per il triennio 2019-2021, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile, le regioni e gli enti locali possono computare, ai fini della determinazione delle capacità assunzionali per ciascuna annualità, sia le cessazioni dal servizio del personale di ruolo verificatesi nell’anno precedente, sia quelle programmate nella medesima annualità, fermo restando che le assunzioni possono essere effettuate soltanto a seguito delle cessazioni che producono il relativo turn-over”.

Dunque un ritorno all’antico: le assunzioni nel corso dell’anno potranno anche riguardare il personale che cessa dal servizio proprio nel medesimo anno, ovviamente successivamente all’avvenuta efficacia della cessazione stessa.

Anche questa disposizione sortisce l’effetto di incrementare il potenziale delle nuove assunzioni, ma implica una revisione della tormentata programmazione.

Le toppe messe dal legislatore alle conseguenze della “quota 100” probabilmente non sono sufficienti, perché, come rilevato sopra, è a partire dal 2020 (ormai lontano solo 8 mesi) che centinaia di migliaia di dipendenti pubblici andranno in pensione davvero in massa.

Comunque, è il segnale che a Roma si è preso finalmente coscienza che senza adeguate forze in campo, i servizi pubblici rischiano di andare allo sbando.

Ovviamente, queste “toppe” messe in fretta e furia all’anticipo dei pensionamenti hanno lasciato totalmente sullo sfondo il tema – importantissimo – della revisione dei profili professionali e dei nuovi lavori, connessi a diverse e più moderne modalità di gestione delle attività. Anche in questo caso, gli slogan facili a favore di microfono avevano illuso. Ma, solo quelli che non conoscono davvero in profondità i problemi, la normativa, le sue complicazioni, le sue contraddizioni; o quelli che davvero vogliono credere negli slogan.

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