Tratto da: luigifadda.it

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* di Giuseppe Taibi, Segretario Comunale

“Ai poveri non si perdona neppure la loro povertà” (Papa Francesco).

“Non è una guerra tra poveri, è una guerra contro i poveri” (Franca Caffa).

*****

Il tema della ripartizione degli oneri tra i diversi soggetti pubblici coinvolti nell’offerta integrata dei servizi sociali e nelle prestazioni di assistenza per i soggetti che necessitano di un ricovero stabile presso strutture specializzate non trova pace.

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Ho già affrontato il tema in un precedente articolo dall’angolo visuale della composizione del rapporto tra enti locali e SSN. Denunciavo lì il rischio che la frammentazione territoriale nell’offerta dei servizi si traducesse in una forte discriminazione territoriale a livello di servizi resi all’utenza tra territori ad alta capacità finanziaria e territori  con risorse limitate.

Analizzando alcune vertenze dalle quali sono scaturite pronunce di un certo clamore, non posso non rilevare come la persistente tensione tra i diversi attori coinvolti troppo spesso  sfoci nella pur non banale questione di chi deve pagare il costo di servizi di accoglienza estremamente onerosi.

È la dimostrazione più plastica del fatto che è una materia in cui ci sarebbe bisogno di omogeneizzare territorialmente l’offerta di servizi e di determinare meccanismi di solidarietà territoriale. Infatti, i comuni spesso si trovano a dover gestire casi sociali in maniera improvvisa e non programmata, perché la vita della persone è complessa e soggetta ad una mobilità territoriale sempre più frequente. Non di rado nuclei familiari fragili finiscono per trovarsi, a seguito di emigrazioni e trasferimenti di residenze, ad interloquire con servizi sociali del tutto diversi facenti capo ad enti autonomi, spesso molto distanti anche fisicamente e che mancano del tutto di canali istituzionalizzati per la condivisione delle finalità e delle modalità degli interventi sociali.

Questo determina un elevato livello di conflittualità tra i diversi enti, la cui principale preoccupazione rischia di non essere la presa in carico dell’individuo.

Ai poveri, come dice Papa Francesco, “non si perdona neppure la loro povertà”.

Si pensi a quanto accade, per esempio, nelle diverse vertenze che vedono coinvolti i minori. Qui gli attori pubblici e privati che intervengono sono:

  1. i Tribunali per i minorenni, chiamati in causa per casi di rilevante drammaticità (sono casi di abusi, disagio sociale persistente, carenze educative), che dispongono un intervento e affidano il minore al Servizio sociale territorialmente competente (sic![1]);
  2.  il Servizio Sociale stesso incaricato della tutela e protezione dei minori;
  3.  l’ULSS che svolge le funzioni relative all’istituzione e organizzazione dell’UVMD (Unità di Valutazione multidimensionale);
  4. Le strutture presso le quali i soggetti sono assistiti;
  5. I genitori, comunque chiamati per essere valutati in ordine alla capacità di esercizio della potestà genitoriale e per esprimere il proprio parere sugli interventi proposti, nonché da ultimo ad intervenire finanziariamente pagando direttamente la retta, quando ne abbiano la capacità economica.

L’intreccio di relazioni tra tutti questi soggetti determina un’ingarbugliatissima trama di rapporti all’interno della quale l’operatore addetto deve destreggiarsi con il rischio di inciampare continuamente nei mille rivoli di norme regionali[2], prassi provinciali, regole giuscontabili, carte bollate, debiti fuori bilancio, etc.

Vediamo di dipanare questa matassa, provando a dare delle indicazioni operative su possibili comportamenti da azionare:

I Tribunali per i Minorenni vengono chiamati in causa in situazioni di grave emergenza sociale per disciplinare interventi di tutela nei confronti dei minori. In situazione di emergenza, ovviamente la priorità del Tribunale e delle Forze dell’Ordine è di mettere in sicurezza il minore, collocando, se vi sono condizioni che lo richiedono, il minore stesso in strutture protette.

Nei procedimenti davanti al Tribunale per i Minori, allorquando venga in rilievo la valutazione della “responsabilità genitoriale”, viene, infatti, frequentemente disposto l’affidamento dei minori al servizio sociale (ex art. 330 e seguenti del codice civile).[3] Nell’ambito di questi procedimenti, i minori, in particolare, possono essere affidati ai servizi sociali quando i comportamenti dei genitori creano un pregiudizio all’interesse dei figli.

E qui viene il primo problema. È sempre più invalsa la prassi da parte dei Tribunali di non individuare il Comune competente in maniera puntuale e nominativa. Infatti, i Giudici si limitano ad enunciare una forma laconica (“affidare il minore all’ente competente all’attuazione del progetto” o “al soggetto territorialmente competente”), senza dire se lo stesso coincida con il Comune di residenza del minore, di uno dei genitori, ovvero del Comune nel quale il minore risieda di fatto.[4]

È evidente che, in una prospettiva de iure condendo, forse il  criterio formale dell’ultima residenza prima del ricovero andrebbe rivisto. Non si può non cogliere, a tal proposito,  con favore la suggestione che deriva dalla recente Riforma Cartabia. Quest’ultima, a proposito del Giudice competente ad assumere i provvedimenti relativi ai minori, radica la competenza in base alla residenza abituale del minore, ossia per dirla con le parole della Corte di Cassazione “la residenza abituale corrisponde al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare, ed ai fini del relativo accertamento rilevano una serie di circostanze che vanno valutate in relazione alla peculiarità del caso concreto: la durata, la regolarità e le ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro, la cittadinanza del minore, la frequenza scolastica e, in generale, le relazioni familiari e sociali”. (Cass. civ., SS. UU., 10 febbraio 2017, n. 3555.)

Il tema, come anticipato sopra, diventa sempre più attuale, perché a differenza di quanto poteva accadere in passato, è cambiata la composizione delle famiglie, la mobilità territoriale è sempre più frequente, l’esigenza di una visione integrata sempre più grande. Non è raro che i Comuni si trovino a dover ricostruire fili di vicende intricatissime che scaturiscono da contesti territoriali di cui mancano totalmente le coordinate.

Infatti, frequentemente, accade che ci siano nuclei che dimorano abitualmente in un Comune, ma ancora non abbiano ultimato le pratiche per il trasferimento di residenza e continuano a risiedere (solo formalmente) in quello di origine. In questo caso, anche per ragioni di prossimità territoriale, il servizio sociale che interviene è quello del Comune dove questi dimorano abitualmente. Poi, magari a distanza di mesi, il Comune ove questi risiedono (solo sulla carta, a volte per mancanza di solerzia nel fare i dovuti controlli e procedere con i procedimenti di cancellazione anagrafica) si trova ad essere chiamato a rispondere per decine di migliaia di euro per ricoveri di cui i propri servizi sociali non sono neppure informati[5].

A tal proposito, va, a mio avviso, detto che il tema viene posto in maniera estemporanea e il mero rinvio formale al criterio di cui all’articolo 6 comma 4 della Legge 328/2000 rischia di non essere esaustivo. Infatti, se la norma in parola viene decontestualizzata, agganciando l’individuazione del Comune onerato della retta al mero dato formale del “ comune nel quale essi (i soggetti assistiti) hanno la residenza prima del ricovero”, non si tiene conto del fatto che la disposizione è inserita in un quadro normativo che fa riferimento alla titolarità dei Comuni in ordine all’esercizio “ delle funzioni amministrative concernenti gli  interventi  sociali  svolti  a  livello locale”.

L’integrazione della retta per il ricovero è, cioè,  solo un tassello che contribuisce a creare un quadro composito di interventi integrati in materia di servizi sociali. Questo ha delle immediate ricadute di carattere operativo, cioè, per quanto l’intervento possa essere eseguito su ordine del Tribunale, rimane sempre il fatto che il servizio sociale competente deve svolgere una serie di valutazioni (coinvolgendo anche l’UVMD) sulle eventuali esigenze terapeutiche e/o di intervento psicologicodel soggetto, dai quali poi dipendono anche i costi dell’intervento sociale e, di riflesso, l’individuazione del soggetto onerato.

In questo senso, va letta l’importante sentenza della Corte di Cassazione n. 5869/2022 che smentisce di fatto l’orientamento del Ministero dell’Interno citato in nota 4, che riposava de plano, sul principio secondo cui “ “l’ente competente a sostenere gli oneri derivanti dal ricovero di minori, sottoposti a decreto dell’autorità giudiziaria ed ospitati in struttura residenziale o affidati a famiglie, è quello nel quale gli interessati o, nel caso di minori, i genitori esercenti la potestà hanno la residenza al momento in cui la prestazione assistenziale ha avuto inizio, a nulla rilevando i successivi cambiamenti di residenza dei genitori”.

La Suprema Corte spariglia le carte in tavola e ricostruisce la questione degli oneri del soggetto pubblico territorialmente competente partendo da una considerazione di carattere sistemico. Infatti, dice che “L’inveramento del diritto all’assistenza sociale presuppone……. la realizzazione, secondo le modalità organizzative individuate dal legislatore, nei limiti di una ragionevole attuazione dell’art. 38 Cost., comma 1, di un sistema di protezione sociale capace di elargire prestazioni, sostegni economici e servizi idonei ad assicurare un tenore di vita dignitoso a soggetti in stato di bisogno.”

Il Giudice di Legittimità, continua, attraverso un iter logico molto articolato, arrivando ad esplicitare che “Sotto questo profilo, detto provvedimento normativo(ndr Legge 328/2000) ha segnato il passaggio da una prospettiva meramente assistenzialistica, diretta cioè alla esclusiva riparazione di un disagio, ad una logica promozionale tesa non solo ad intervenire sullo stato di bisogno del soggetto in carico ai servizi, ma a creare i presupposti per prevenire ulteriori fattori di fragilità e favorire prospettive di realizzazione della sua persona e condizioni di vita dignitose (progetti di vita, di inserimento socio-lavorativo, percorsi di auto-mutuo aiuto, etc…). Tale principio implica una serie di azioni che seguono all’accesso ai servizi sociali: dalla valutazione multidimensionale della persona, alla presa in carico e alla definizione di un progetto individualizzato che, nel prevedere le necessarie misure di sostegno, possa attivare le risorse presenti nel contesto familiare, parentale e territoriale anche per offrire al soggetto opportunità per riacquistare libertà e autonomia.”

Quindi, sembra dire la Corte di Cassazione che, solo ove tutte queste valutazioni siano state poste in essere e il Comune si sia effettivamente impegnato, con la presa in carico, la definizione di un progetto personalizzato e abbia assunto l’onere economico, allora ne consegue che l’ente è tenuto a sostenere gli oneri, sulla base di quanto disposto dall’articolo 6 comma 4. Nel caso da cui scaturisce la sentenza, invece, il Comune di residenza, pur essendo stato previamente informato[6], aveva valutato di limitare il proprio intervento ai primi 30 giorni. Successivamente il soggetto era stato affidato ad altro servizio sociale e comunque il primo aveva ritenuto che non fosse necessario un collocamento stabile.

Dunque, secondo la Corte di Cassazione, residua sempre, al contrario di quanto aveva ritenuto la Corte territoriale, uno spazio di valutazione discrezionale da parte del servizio sociale territorialmente competente che deve, appunto, valutare quali sono le reali esigenze del soggetto, valutazioni che sono giustiziabili davanti al giudice amministrativo ma che, fino a prova contraria, hanno il potere di decidere quali sono le esigenze del soggetto preso in carico e come soddisfarle.

Nel caso di specie, è stato considerato legittimo il comportamento del  Comune che, a seguito di ordine del Tribunale per i minorenni, aveva preso in carico la madre e i minori, limitando la valutazione di necessità del ricovero ad un breve periodo oltre il quale si sarebbero dovute rivalutare le necessità del nucleo familiare. La Corte di Appello, invece, aveva considerato quella limitazione decisa dal Comune di residenza della madre e dei minori improduttiva di effetti, in quanto l’obbligazione giuridica non scaturirebbe da un contratto, ma sarebbe un’obbligazione ex lege, ossia scaturirebbe direttamente dall’applicazione dell’articolo 6 comma 4. Il Comune, secondo il Giudice di Seconde Cure, non ha alcun potere di limitare la portata applicativa della norma.

La Corte di Cassazione mostra di non condividere l’assunto dato per scontato dalla Corte di Appello e invece ritiene che “spetta ai comuni territorialmente competenti, nell’esercizio delle funzioni amministrative normativamente attribuitegli in materia di servizi sociali (commi 2 e 3) e “nell’ambito delle risorse disponibili” (comma 2), provvedere a disporre in ordine alla necessità, o non, del “ricovero stabile” di cui al comma 4.” Ciò, naturalmente, all’esito di un’istruttoria compiuta al momento in cui viene rappresentato il bisogno di sostentamento, così da consentire all’amministrazione di valutare le condizioni cui è subordinata l’operatività, o non, del sostentamento pubblico, e fatta salva, ovviamente, la possibilità di impugnare il corrispondente provvedimento innanzi alla autorità giurisdizionale competente.

È questo, sostanzialmente, il motivo per cui la legge stabilisce l’obbligo della “preventiva informazione al Comune di residenza”, perché vi è un decisore pubblico che deve svolgere delle valutazioni ed assumere degli impegni finanziari.

Il tema dei rapporti tra servizi sociali e ULSS è stato trattato in un mio precedente articolo (La compartecipazione per i servizi residenziali: diritti dei cittadini e obblighi del Comune, in La Settimana Giuridica del 8/02/2023[7].). Uno degli elementi cardine attorno a cui ruota il rapporto con l’ULSS e il Piano sociale di zona che definisce il novero degli interventi che coinvolgono i diversi attori sociali. Nei tavoli in cui si redigono i suddetti piani siedono spesso i Sindaci e l’Ulss, in condizioni di gravissime asimmetrie informative. Forse sarebbe il caso di istituzionalizzare la regola che ai Tavoli assieme ai Sindaci fossero coinvolti sempre i Dirigenti dei Servizi Sociali.

I Comuni devono pretendere, con regole d’ingaggio chiare, di conoscere gli esiti dell’UVMD e che sia rispettato quanto previsto dai LEA (DPCM del 2017), che, per esempio, per i minori dicono che se l’intervento richiesto ricade in ambito neuropsichiatrico, gli oneri ricadono al 100% sul SSN.

La questione dei rapporti tra Comune e strutture di assistenza vive sul filo sottile di un’ambiguità nella qualificazione del rapporto stesso. Si tratta di appalto di servizi e quindi vi è un vero e proprio rapporto negoziale tra Comune e struttura di accoglienza oppure si tratta di un’obbligazione ex lege? La questione rimane tutt’ora aperta. Per esempio, è sintomatico, a tal proposito, che le Faq di ANAC (Faq E13) dicano che per il collocamento di minori, anche in strutture non accreditate, sia obbligatoria l’assunzione di un CIG[8].

È opinione di chi scrive che siamo in presenza di un tertium genus, ossia ricorre probabilmente qualcosa che è assimilabile alla nozione civilistica sussumibile dal diritto romano delle obbligazioni quasi ex contractu. Quindi, non è sufficiente, a mio avviso, che il Comune venga previamente informato, ma occorre che il Comune, quale soggetto obbligato dalla legge, assuma l’impegno di spesa, con ciò esplicitamente assumendo su di sé l’onere di corrispondere la retta per il soggetto assistito. Non avrebbe altrimenti senso logico parlare, come fa l’articolo 6 comma 4 della Legge 328/2000, di compartecipazione alla retta, nonché di qualificare l’integrazione del Comune come eventuale.

Vieppiù. La Corte di Cassazione nella sentenza sopra citata sembra mettere in discussione un altro principio, ossia quello più volte stabilito dai Giudici di Prime Cure, secondo cui “i limiti di bilancio non possono in alcun modo” pregiudicare il diritto all’assistenza sociale[9].

Anche qui, invece, partendo da un assunto parzialmente diverso, il Giudice di Legittimità concentra l’attenzione giustamente sulle regole giuscontabili, infatti dice in maniera lapidaria che “l’obbligo del comune di residenza di disporre il ricovero di persone presso strutture private è subordinato all’attestazione della relativa copertura finanziaria, in quanto è vietata qualsiasi spesa in assenza di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio di previsione. Tale obbligo di assistenza, infatti, benchè previsto a tutela di un diritto costituzionalmente protetto (artt. 2, 32 e 38 Cost.), non è incondizionato, ma presuppone un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti (ed in tal senso va letta la norma laddove dispone che il comune debba essere “previamente informato”), ravvisabili nelle effettive risorse organizzative e finanziarie di cui l’ente dispone, che si traducono, poi, nell’osservanza delle disposizioni sui contratti della Pubblica Amministrazione”.

E se ci si ragiona la considerazione ha un senso e pare non condivisibile l’assunto di alcuni giudici di merito che, partendo dalla qualificazione dell’obbligazione di cui all’articolo 6 comma 4, come obbligazione ex lege, arrivano a concludere che persino la “preventiva informazione” ai fini della “preventiva assunzione” dell’impegno di spesa abbia una valenza puramente ancillare. Se così fosse, i Comuni potrebbero trovarsi a dover rispondere di un numero indefinito di obbligazioni di cui non hanno la minima contezza, in quanto anche a distanza di tempo possono giungere richieste di pagamento per soggetti di fatto sconosciuti o comunque che hanno perso contatto con il territorio. Peraltro, senza neppure essere stati informati.

Sarebbe utile in questo senso ricostruire, anche a livello di regolazione, un flowchart procedurale che stabilisca i modi e i tempi dell’intervento comunale, conseguenti alla preventiva informazione da parte della struttura individuata dal Tribunale, cui dovrebbero seguire le seguenti fasi:

  1. Acquisizione della valutazione dell’UVMD;
  2. Valutazione della necessità del ricovero stabile da parte del servizio sociale;
  3. Informativa ai familiari sulla necessità di presentare al protocollo comunale l’ISEE, con previsione regolamentare che in caso contrario la quota intera sarà a carico della famiglia;
  4. Verifica susseguente della situazione economica del nucleo familiare;
  5. Individuazione della quota di compartecipazione a carico del privato e assunzione dell’impegno di spesa per la quota a carico del Comune;
  6. Eventuale accordo scritto con i familiari per valutare, in presenza di particolari condizioni, la necessità che il Comune anticipi anche la quota parte della famiglia, individuando forme appropriate di ripetizione della somma;
  7. Comunicazione dell’impegno alla struttura che a quel punto può emettere le fatture;
  8. Verifica annuale della situazione economica del soggetto assistito ai fini della valutazione di una successiva azione di recupero.

Chiariamo subito che, a meno che non sia dichiarata la decadenza dalla responsabilità genitoriale (nel qual caso la stessa verrà esercitata da un Tutore nominato dal Tribunale o dall’altro genitore che non sia stato dichiarato decaduto) o a meno che non venga diversamente indicato nel Decreto del Tribunale, le scelte straordinarie sulla vita dei minori (per tali si intendono quelle che hanno una ricaduta permanente sulla vita dei figli, quali trattamenti chirurgici, neuropsichiatrici, documenti per espatrio, ecc..ecc..) restano di competenza dei genitori biologici.

Invero, secondo la giurisprudenza il compito dei genitori di provvedere, se in possesso di adeguate risorse, ad assumere direttamente gli oneri delle rette rimane persino nei casi in cui vi siano provvedimenti diminutivi o privativi dell’esercizio della potestà genitoriale[10].

Da questo deriva, invero, l’obbligo per i Comuni di darsi una procedura corretta di gestione dei casi sociali e dell’assunzione dell’impegno al pagamento della retta, ai quali devesempre seguire una considerazione delle condizioni economiche dei genitori, mediante attestazione ISEE e l’esercizio di eventuali azioni di tutela del credito nei confronti di questi, ove ne ricorrano le condizioni, da presidiare anche con azioni di controllo che garantiscano che gli enti locali si comportino in maniera uniforme con tutti i cittadini.[11]

Si tratta di azioni sicuramente impopolari, ma doverose per i Comuni, tanto più perché pongono l’esigenza, in situazioni di risorse scarse, di far si che le poche risorse vadano effettivamente appannaggio dei soggetti meno provvisti di risorse, per quanto rimanga evidente che si tratta di una risposta limitata, parziale e che in qualche caso rischia di disumanizzare l’immagine della pubblica amministrazione.

Giuseppe Taibi, Segretario dei Comuni di Tombolo  – Monticello Conte Otto e Tezze Sul Brenta


[1]

[2] Non è raro che ci si scontri con un sistema di regole differenziato a livello regionale, che implica una certa difficoltà ad individuare persino la legge applicabile.

[3]Nell’ambito di questi procedimenti i minori possono essere affidati ai servizi sociali quando i comportamenti dei genitori creano un pregiudizio all’interesse dei figli; tale affidamento può comportare il collocamento in una famiglia affidataria, oppure possono essere collocati anche presso la famiglia di origine, o presso uno solo dei genitori, infine presso un parente stretto.

[4] Si rinvia a tal proposito al parere emesso dal Servizio affari istituzionali e locali, consiglio autonomie locali ed elettorale della Regione Friuli Venezia Giulia in https://www.segretaricomunalivighenzi.it/archivio/2019/maggio/13-05-2019-individuazione-del-comune-deputato-a-sostenere-gli-oneri-per-servizi-di-accoglienza-minori-e-infra-ventunenni

[5]Giova altresì richiamare il chiarificante intervento interpretativo portato dalla risoluzione del 9 febbraio 2009 del Ministero dell’Interno – Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriale secondo cui “l’ente competente a sostenere gli oneri derivanti dal ricovero di minori, sottoposti a decreto dell’autorità giudiziaria ed ospitati in struttura residenziale o affidati a famiglie, è quello nel quale gli interessati o, nel caso di minori, i genitori esercenti la potestà hanno la residenza al momento in cui la prestazione assistenziale ha avuto inizio, a nulla rilevando i successivi cambiamenti di residenza dei genitori”.

[6] SI tenga conto che finora la Giurisprudenza di merito aveva persino negato che potesse essere dirimente l’elemento formale della previa informazione del Comune nel quale gli assistiti avevano la residenza prima del ricovero. CfrTribPalermo, Sentenza Sez. I, 655/2016

[7] Link : 08/02/2023 – La compartecipazione per i servizi residenziali: diritti dei cittadini e obblighi del Comune (G. Taibi) —

[8] Sembrerebbe solo a fini di tracciabilità dei pagamenti, ma non è specificato.

[9] Ex multis Tar Lombardia 1825/2021, Consiglio di Stato sentenza 10 gennaio 2017, n. 46

[10] In questo senso, si veda TAR Veneto, sentenza 247/2021 (sentenza non appellata).

[11] Forse non è inutile ritenere che questa materia debba essere oggetto di particolare attenzione a livello di misure di prevenzione del rischio di corruzione.

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