08/02/2023 – La compartecipazione per i servizi residenziali: diritti dei cittadini e obblighi del Comune (G. Taibi)

Il dibattito accesosi in questi giorni sul regionalismo differenziato e sul DDL Calderoli, per quanto non sia forse immediatamente percepibile, tocca la carne viva di un tema sociale enorme come quello delle disuguaglianze, della frammentazione sociale e territoriale, della capacità dei territori di garantire i diritti ai cittadini e dunque tocca in maniera sensibile il tema della povertà e dei diritti1.

Questo, anche in una Regione, come il Veneto, passata, fino alla prima ondata Covid, per essere un modello di riferimento per il sistema socio sanitario, distante anni luce dalle storture determinate dal modello tutto orientato al privato della Lombardia.

Eppure, chi, fra gli operatori locali si trova ad affrontare il tema, sa bene che non tutto è così nitido e che in questa regione, come in altre, il quadro offerto è frammentato territorialmente e risente di prassi e consuetudini diversificate anche tra territori tra loro molto vicini.

In particolare, questa frammentazione emerge come dirompente se il tema è affrontato dall’angolo visuale delle fragilità sociali e questo fa parte ampiamente di un modello che, se è disposto a “solidarizzare” con chi soffre di patologie fisiche, diventa assai poco propenso a rispondere in maniera altrettanto simpatetica al tema della povertà, della marginalità sociale, della fragilità psicologica.

Del resto, le risorse sempre più scarse e i tagli ai servizi impongono delle scelte selettive a fronte di una domanda di servizi sociali sempre più nuova ed in questa situazione senz’altro erogare alcuni servizi rischia di sembrare sempre di più un lusso. D’altro canto, invece, le famiglie, se per sventura, si imbattono in un problema, per esempio di fragilità psichiatrica, fanno l’esperienza di un sistema socio-sanitario che, anche in Veneto, mostra le crepe, con conti da pagare insostenibili e livelli di sostegno del settore pubblico non in grado di soddisfare la domanda.

Il modo in cui viene confezionata la risposta dipende molto dalla valutazione delle unita di valutazione multidimensionali (UVMD), incardinate presso le ULSS che, valutando la condizione di fragilità della persona, hanno il compito di classificare la fragilità stessa e, a seconda della situazione contingente, valutare se l’azione di contrasto ha carattere prevalentemente terapeutico oppure di integrazione sociale, ovvero se la prestazione richieda o meno elevati livelli di continuità assistenziale2.

Eppure, gli operatori del settore3, sempre di più denunciano che c’è un evoluzione del sistema delle prestazioni, tale per cui i confini tra prestazioni terapeutiche e prestazioni socio-riabilitative sono sempre più sfumati, perché è cambiato del tutto il paradigma della gestione della non autosufficienza, ragione per cui la risposta di contrasto richiede strategie più elaborate di risposta che sfuggono alla rigidità degli steccati definitori.

Del resto, il modello di integrazione socio-sanitario Italiano, figlio della Riforma di Tina Anselmi, parte dal presupposto che la sfera del benessere è omnicomprensiva e che l’azione di contrasto alle fragilità deve essere affrontato secondo un approccio multidimensionale, ossia di benessere fisico, psicologico, sociale, come sfere che interagiscono tra di loro nel determinare livelli minimi essenziali di benessere della persona.

Eppure in un quadro, di principio, così ispirato all’universalismo, si insinuano i germi della precarietà sociale e delle risorse scarse, che rischiano di degradare il diritto a un privilegio differenziato territorialmente, specie in una situazione socio-economica in cui alla delega di funzioni agli enti locali non si accompagna un parallelo trasferimento di risorse adeguate, ragione per cui il livello di servizi che un territorio è in grado di assicurare rischia di dipendere dalla capacità fiscale del territorio.

E così, scorrendo le cronache locali, si scopre sempre di più il grido di dolore dei Sindaci che, spesso, vedendo lievitare in maniera drammatica la spesa sociale, denunciano di non essere più in grado di erogare servizi essenziali, per esempio ogni qualvolta si trovano a dover affrontare il problema di avere nello stesso momento diversi casi di minori, anziani, disabili non autosufficienti che necessitano di costosissimi ricoveri in strutture residenziali che il settore privato convenziona a costi altissimi, le cui spese, fatta eccezione per i casi di patologie che richiedono un approccio prevalentemente terapeutico, sono per una parte importante a carico dei cittadini4, ovvero, se questi sono in possesso di determinati requisiti, a carico del Comune.

I Comuni, istituzionalmente5, chiamati a rispondere, al bisogno delle famiglie, raramente sono in grado di rispondere adeguatamente, stanziando le risorse necessarie e, pertanto, da qui si innestano una serie di pratiche e di consuetudini di dubbia legittimità, con i responsabili dei servizi sociali, costretti a fare acrobazie tra il tentativo di far sì che le famiglie si accollino6 una parte dei costi delle degenze, oppure di intraprendere dei percorsi giudiziari contro le ULSS, per ottenere la riconduzione delle prestazioni all’interno del perimetro dei LEA7, in modo da non doverne sostenere i costi, rischiando non di rado di andare in default a causa del pagamento di prestazioni “sociali” di centinaia di euro al giorno per anni per ciascuna persona assistita. A tal proposito, va detto che proprio la distinzione tra prestazioni sociali 8 e terapeutiche 9 viene eletta a terreno privilegiato di scontro tra Comuni e famiglie da un lato e ULSS-Regioni dall’altro, visto che la classificazione della prestazione ha dei contorni sempre più sfumati.

Cerchiamo di ricostruire la tela normativa e di capire le ragioni di questo corto circuito.

Il problema: chi paga per primo le rette? La natura giuridica è di appalto/concessione di servizi o si tratta di un contributo?

Il contenzioso che vede spesso coinvolti Comuni, famiglie e strutture residenziali verte, infatti, sulla circostanza che i Comuni siano chiamati a pagare le rette dei soggetti ricoverati e se poi possano recuperarli dai soggetti assistiti o comunque entro quali margini possano farlo. In altri casi, la contestazione si sposta sul terreno della qualificazione della prestazione ovvero se sia tenuta a garantirla il SSN o sia mista.

La risposta a queste domande è complessa e richiede una sere di considerazioni sistematiche.

La risposta alla prima domanda, ovverosia il rapporto sussistente tra Comune e struttura accreditata, richiede una riflessione sulla natura giuridica del rapporto tra questi due soggetti.

La risposta alla seconda domanda, invece, riguarda più da vicino il tema del dibattito di questi giorni, cioè il perimetro dei LEA, rilevabile dai DPCM del 14 Febbraio 2001, 29 Novembre 2001 e 12 Gennaio 2017.

Inquadramento sistematico

La L.r. Veneto (11/2001). articolo 130 comma 1, ha individuato, in linea con quanto previsto dal D. L. vo 112/1998, le materie relative alle funzioni trasferite o delegate ai Comuni, rinviando alla stessa disposizione statale e, quindi, le funzioni ed i compiti amministrativi concernenti i servizi sociali relativi a:

a) i minori, inclusi i minori a rischio di attività criminose;

b) i giovani;

c) gli anziani;

d) la famiglia;

e) i portatori di handicap, i non vedenti e gli audiolesi;

f) i tossicodipendenti e alcool-dipendenti;

g) gli invalidi civili, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 130 del presente decreto legislativo.

Tanto significa che il compito del Comune è quello di organizzare, in rete con i servizi sociali territoriali, l’ULSS e la Regione il novero dei servizi da garantire alla cittadinanza, erogandoli direttamente, ovvero strutturando un regime di accreditamento con i soggetti privati incaricati della gestione.

In particolare, per quanto concerne il tema qui trattato della strutture residenziali per soggetti non autosufficienti, l’erogazione del servizio avviene da un canto attraverso l’accreditamento delle strutture e, in secondo luogo, attraverso la corresponsione dell’eventuale integrazione della retta.

Qui, le due parole chiave: “integrazione” ed “eventuale”.

L’unica cosa che la legge stabilisce in maniera chiara è la competenza territoriale.

Infatti, l’art. 13 bis della Legge Regionale del 3 febbraio 1996, n. 5 e l’art. 6 della Legge 8 novembre 2000, n. 328, radicano la competenza in capo al Comune di residenza del minore al momento del ricovero in struttura quale Ente tenuto ad assolvere “[…] le prestazioni obbligatorie di natura sociale a favore di cittadini in stato di bisogno ed inseriti presso strutture residenziali […]”.

Torniamo ai due concetti critici sopra citati.

Partiamo dal secondo termine: l’integrazione è “eventuale” e il Comune di ultima residenza ne assume l’onere, dopo essere stato “informato”. Dunque, il Comune neppure firma il contratto di inserimento in struttura che è firmato dal soggetto interessato ovvero da chi lo rappresenta. 10 Questo, a mio sommesso avviso, vuol dire che l’aggettivo “eventuale” vuole semplicemente significare che l’obbligo è, in via principale, del soggetto assistito, mentre il Comune ne assume l’onere pagando direttamente la prestazione se, e solo se, il soggetto assistito abbia i requisiti previsti. Dunque l’assunzione dell’obbligo del comune, ricorrendo agli istituti del diritto civile, è un adempimento del terzo o meglio ancora si configura un accollo del debito ex lege, essendo di fatto il Comune “obbligato” (nei confronti dell’assistito e solo di riflesso nei confronti della struttura) e non essendo il pagamento spontaneo. Tanto basterebbe per dire che la pretesa da parte delle strutture residenziali di addossare il debito dei ricoverati ai comuni in via principale, e senza alcuna considerazione della condizione economica del soggetto, è infondata, in quanto altrimenti quella del Comune sarebbe un’obbligazione di garanzia nei confronti delle strutture accreditate, e non l’erogazione di un beneficio nei confronti di un soggetto avente diritto, in quanto questi ne fa domanda11. Per attribuire un significato all’aggettivo “eventuale” bisogna, dunque, leggere l’ultimo comma dell’articolo 6 della legge 328/2000 in combinato disposto con il DPCM 159/2013, recante il Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente

Il Regolamento citato, DPCM 159/2013 condiziona l’esistenza del diritto alla situazione economica dell’assistito così come attestata dall’indicatore ISEE.12

Diversificazione delle quote

Premettiamo che la retta convenzionata con le strutture residenziali si divide in due quote, quella sanitaria, a carico del SSN e quella sociale – alberghiera.

Il nodo è, in primo luogo, la classificazione, perché se la prestazione è ad alta intensità assistenziale13, la retta non è da integrare e da qui il primo terreno di conflitto che vede contrapposti cittadini e Comune da una parte e ULSS-Regione dall’altro.

Disabilità e patologie psichiatriche

Per ciò che concerne le persone affette da condizioni di disturbo psichiatrico, i due DPCM del 2001, sopra citati fanno una distinzione tra ricovero in strutture semiresidenziali che svolgono “attività sanitaria e socio- sanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi” a seconda che si tratti di “persone con problemi psichiatrici” (con spesa a carico del servizio sanitario nazionale) e a favore di “disabili fisici, psichici e sensoriali” nei quali è prevista una quota di compartecipazione del 30 %14. Se il ricovero ha, invece, carattere residenziale per le “persone con problemi psichiatrici”, la quota di compartecipazione è del 60 % se la persona necessita di “prestazioni terapeutiche e socioriabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale”, mentre non c’è alcuna quota di compartecipazione se le prestazioni sono “ diagnostiche, terapeutiche, riabilitative e socioriabilitative”. Per i disabili “disabili fisici, psichici e sensoriali”, invece la situazione cambia a seconda che l’intervento sia di “Assistenza ai disabili attraverso interventi diretti al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e tramite prestazioni residenziali” (a totale carico del SSN) ovvero di “Tutela del disabile attraverso prestazioni di riabilitazione in regime residenziale, compresi gli interventi di sollievo alla famiglia” (con contribuzione a carico dell’assistito o del Comune dal 30 al 60 %, a seconda che si tratti o meno di disabili gravi).

Sul livello di intensità assistenziale, la definizione è, fra l’altro, coniata dall’Accordo del 17/10/2013 sancito in sede di Conferenza Unificata, nel quale si legge che “il livello di intensità assistenziale offerto deve essere correlato al grado di autonomia complessivo rilevato nel paziente. In particolare, un ruolo fondamentale nella valutazione assumono gli aspetti correlati alla vita di relazione, quali ad esempio, essere in grado di gestirsi autonomamente per alcune ore da soli; stabilire rapporti di fiducia con gli operatori, accettando regole e limitazioni proposti; prestare attenzione anche alle esigenze altrui (capacità di convivenza); curare l’igiene personale”.

Il quadro complessivo è ulteriormente complicato dalle delibere della Giunta Regionale del Veneto (numeri 494/2013, 1749/2013, 2227/2002, 3979/2002) che hanno disciplinato il riparto tra quota sanitaria e quota sociale ed hanno previsto, in maniera analoga a quanto successo in altre regioni, il principio di ripartizione tra quota sociale e quota sanitaria anche per strutture residenziali psichiatriche (per es. le SRP. 3.1. ovvero le strutture residenziali psichiatriche per interventi socioriabilitativi con personale sulle 24 h giornaliere), quindi con intensità assistenziale non bassa.

Il Consiglio di Stato con sentenza 8608/2019 aveva, sulla base del precedente assetto normativo, già sancito che le strutture catalogate come SRP3 sono caratterizzate sì da una componente terapeutica marginale, ma hanno un livello di intensità assistenziale diversificata in 24 ore, 12 ore e fasce orarie e, dunque, non potrebbero essere definite automaticamente come a bassa intensità assistenziale.

Infatti, il Consiglio di Stato, testualmente, recita “Se dunque la regola della compartecipazione vale solo per le “prestazioni terapeutiche e socio riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale” (pag. 38 DPCM 29.11.2001), vi è da chiedersi se prestazioni connotate al contempo da livelli di “bassa intensità riabilitativa” e da diversificati livelli di “intensità assistenziale”, possano essere complessivamente e indistintamente ricondotte nell’area della compartecipazione dei costi, in quanto appartenenti alla tipologia delle “prestazioni socio riabilitative a bassa intensità assistenziale. Il Collegio ritiene di dovere rendere una risposta negativa sul punto. ”

Successivamente il DPCM del 14 Gennaio 2017, disciplinando la materia agli articoli 32 e 33, recanti rispettivamente “Assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neuro sviluppo” e “Assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disturbi mentali”, torna sull’argomento distinguendo, per i minori, tra “trattamenti ad alta e media intensità terapeutico-riabilitativa” (lett. A e b del comma 3) e “trattamenti a bassa intensità terapeutico-riabilitativa” (lett. C del comma 3) comunque a totale carico del servizio sanitario nazionale e soggetti non minori per i quali, invece, il DPCM, all’articolo 33 prevede che la copertura sia al 100 % a carico del SSN, solo se si tratti di strutture ad “alta e media intensità terapeutico riabilitativa”, mentre se le strutture erogano trattamenti di carattere socio-riabilitativo, la prestazione è a parziale carico del soggetto (40 %).

Secondo le Regioni, dal DPCM discende la conseguenza diretta di una generalizzazione del principio di compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini, almeno in tutti i casi in cui non si tratti di minori e i trattanti non abbiano carattere terapeutico riabilitativo.

Infatti, la Regione Veneto con le successive delibere di Giunta Regionale, n. 1978/2017, 1673/2018, interviene nuovamente sul tema della compartecipazione alla spesa, generalizzando effettivamente il principio della compartecipazione per le strutture che erogano trattamenti socio-riabilitativi.

Invero, però, il Consiglio di Stato, sempre nella sentenza citata, dice che “peraltro, pur non costituendo oggetto specifico di questo giudizio, è lecito dubitare che l’art. 33 comma 4 del DPCM del 12 gennaio 2017 abbia alterato l’assetto regolatorio degli oneri di compartecipazione: in realtà, anche tale disposizione prevede una contribuzione al 40% da parte del Servizio Sanitario nazionale limitatamente ai trattamenti residenziali socio-riabilitativi di cui al comma 2, lettera c) – connotati da bassa intensità riabilitativa; mentre risulta confermato che i trattamenti residenziali di alta e media intensità riabilitativa di cui al comma 2, lettere a) e b) sono a totale carico del Servizio sanitario nazionale”.

Il tema è evidentemente aperto, perché la pretesa delle Regioni di prevedere che i trattamenti socio- riabilitativi abbiano di per sé una connotazione di bassa intensità riabilitativa rischia di scontrarsi direttamente con la norma nazionale che disciplina i Lea, ambito sottratto alla potestà legislativa regionale.

La Regione Veneto ha, infatti, previsto, con l’articolo 19 della L.R. 43/2018, che “la quota di compartecipazione sociale per i trattamenti residenziali socio-riabilitativi ai pazienti inseriti nelle Comunità Alloggio Estensive e di Base e nei Gruppi Appartamento Protetti della salute mentale è stabilita nella misura del quaranta per cento della tariffa giornaliera; la quota sanitaria è fissata nella misura del sessanta per cento.”

Sul punto, però, il rischio che la disciplina contrasti con i LEA è estremamente concreto, specie se si considera che le Comunità alloggio estensive e di base, a differenza dei gruppi appartamento, sono comunque caratterizzati, per definizione comunque da una componente terapeutico riabilitativa, tanto che nei documenti che la Regione stessa distingue tra le seguenti categorie di strutture che erogano interventi socio-riabilitativi:

o Comunità Alloggio Estensiva (CA estensiva), nella sotto tipologia con personale sociosanitario presente nelle 24 ore (SRP3.1);

o Comunità Alloggio di Base (CA base), nella sotto tipologia con personale sociosanitario presente nelle 12 ore (SRP3.2);

o Gruppo Appartamento Protetto (GAP), nella sotto tipologia con personale sociosanitario presente per fasce orarie (SRP3.3).

Infatti, come detto sopra, nell’Accordo del 17/10/2013, tutt’ora in vigore, le SRP 3.1 e le SRP3.2 sono caratterizzate comunque dalla presenza di “bisogni nell’area del supporto e della riabilitazione di mantenimento, piuttosto che in quella terapeutica specifica della patologia”. Dunque la risposta terapeutica è non prevalente, ma non è assente, in quanto il livello di autonomia è estremamente limitato. Pensare di far gravare costi come quelli determinati da una situazione in cui l’autosufficienza è gravemente

compromessa significa non tenere conto che il SSN deve occuparsi delle fragilità e che l’azione di contrasto alle fragilità stesse è un interesse primario dello Stato e che richiede una risposta unitaria.

Conclusioni

Appare chiaro come il combinato disposto dalla legislazione nazionale e regionale, nonché di tutta la normativa di esecuzione ponga un quadro fortemente variegato e complesso. Purtroppo la risposta del sistema è molto, forse troppo, orientata sul tema di chi deve sostenere i costi e poco orientata invece sul tema della programmazione.

Gli enti locali, è indubbio, devono rafforzare la propria capacità di incidere dentro gli ambiti sociali di zona, perché il tema non può essere risolto solo sul piano emergenziale e l’unica questione sul tavolo non può essere chi deve pagare il conto delle rette.

L’azione deve essere svolta sul piano preventivo e richiede la messa in discussione dei sistemi, nonché dei livelli di erogazione dei servizi essenziali.

La domanda che bisogna porsi è se un’azione preventiva esercitata con un protagonismo forte degli enti locali non possa ridurre fortemente l’area del disagio. La risposta non può che essere positiva. La questione non può incentrarsi solo sul nodo del pagamento delle rette, ma per esempio, se si parla dei Livelli essenziali di assistenza, non ci si può dimenticare che il DPCM del 2017, nell’area della fragilità psichiatrica richiede interventi importanti, che necessitano di un investimento pubblico rilevante. Ci si riferisce, per esempio, alla necessità di dare attuazione agli articoli 24 e 25 dei LEA, laddove è esplicitamente sancito che il sistema sanitario nazionale (attraverso i consultori) deve necessariamente garantire alcune prestazioni minime essenziali di “presa in carico delle fragilità” e qui si ritorna al tema della debolezza del sistema sanitario, sempre più costretto dentro limiti di contingentamento della spesa e degli organici.

L’articolo 25 dei LEA pone per esempio il tema della cura dei minori con disturbi neuropsichiatrici e stabilisce quali sono le cure minime che devono essere assicurate nella presa in carico delle situazioni di disagio, ossia “prestazioni, anche domiciliari, mediche specialistiche, diagnostiche e terapeutiche, psicologiche e psicoterapeutiche, e riabilitative, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle piu’ avanzate evidenze scientifiche”. L’Associazione di Psicologia per l’Infanzia e l’Adolescenza (PSIAF), da anni, denuncia una situazione di gravissima sottorappresentazione della carenza di organici all’interno dei consultori e dice chiaramente quanto sia forte il rischio che i minori non ricevano le cure adeguate cui hanno diritto.15

Una spinta forte in questa direzione, forse, potrebbe anche determinare degli effetti positivi per tutto il sistema e dare dignità ai soggetti più deboli, ai minori, che oggi più che mai soffrono un problema di mancanza di rappresentanza e di messa in evidenza dei propri bisogni.

Le amministrazioni locali avrebbero bisogno di mettere sul tavolo questo tema, dovrebbero assumere il compito di verificare e controllare che, in ciascun territorio della Repubblica, questi livelli di prestazione siano garantiti e siano accessibili a tutti, affinché effettivamente non vi siano cittadini di serie A e di serie B. Affrontare il tema del regionalismo differenziato senza mettere a fattor comune questi nodi critici rischia di dare una rappresentazione della realtà parziale e di cancellare questioni e problemi che già, oggi, necessitano di un approccio unitario e sistemico che vada nella direzione del superamento della frammentazione territoriale.

di Giuseppe Taibi, Segretario Generale dei Comuni di San Martino di Lupari e Tombolo (PD)

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1 Marco Esposito, nel libro Zero al Sud, parla a tal proposito del rischio fondato che il tema del federalismo fiscale contenga in sé il rischio di creare all’interno del territorio Italiano cittadini di serie A e cittadini di serie B, definizione che appare anche in documenti ufficiali

2 Sul punto si vedano i DPCM 14/02/2001, 29/11/2001 e DPCM 12 gennaio 2017, recanti rispettivamente “Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie”, “Definizione dei livelli essenziali di assistenza” e “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502. (17A02015)”, che escludono la compartecipazione al costo per prestazioni caratterizzate da continuità assistenziale elevata e media e per trattamenti ad alta e media intensità terapeutico-riabilitativa

3 Per es. in questo senso, si veda il contributo di Anna Abburrà, il tormentone dell’integrazione tra sociale e sanitario.

4 Le percentuali di compartecipazione alla spesa sono stabilite dai DPCM 14/02/2001 e 29/11/2001 e oscillano tra il 30% ed il 60%, a seconda della tipologia di prestazione

5 La delega delle funzioni ai Comuni disciplinata dalla legge 112/1998, non di rado, non si accompagna ad una parallela messa a disposizione delle risorse, ragione per cui il livello di prestazioni offerte ad un anziano di un territorio non è minimamente paragonabile a quelle che riceve la persona fragile di un territorio in cui il Comune non è in grado di integrare le rette per il ricovero in strutture residenziali. Altro esempio è il fondo per i minori allontanati dal nucleo familiare con provvedimento del Tribunale per i Minori messo a disposizione dalla Regione Veneto per i comuni con popolazione inferiore ai 20 mila abitanti, che risponde in minima percentuale rispetto all’esigenza dei Comuni

6 Per es. molti regolamenti prevedono che i Comuni intervengano ad integrare le rette solo qualora non vi siano obbligati agli alimenti che debbano rispondere in via principale, nonostante la giurisprudenza, ormai granitica sul punto, dica chiaramente che l’obbligazione alimentare è personale, è che il Comune non ha legittimazione a svolgere l’azione in via di surroga (da ultimo, si cita ex multis, il Tribunale di Vicenza, sentenza num. 1625 del 27.06.2018 ).

In altri casi, i Comuni prevedono che la quota di compartecipazione del Comune diminuisca ove vi sia un reddito disponibile aggredibile, come quello dato dall’indennità di accompagnamento (sul punto si veda la sentenza Tar Puglia sent. n. 628/2022.)

7 Il Consiglio di Stato con sentenza n. 8608 del 2019 ha escluso che le strutture che presentano livelli diversificati di intensità assistenziale possano essere tout court ricondotti nella sfera delle ““prestazioni socio riabilitative a bassa intensità assistenziale” e quindi rientrare sempre nell’area di compartecipazione al costo.

8 A carica dell’utente o del Comune in cui questo risiede

9 A carico integrale del SSN

10 Da qui discende il nodo ben conosciuto ai segretari comunali ed agli operatori del settore se la prestazione sia o meno soggetta a obbligo di tracciabilità dei pagamenti (sul punto sia consentito un mero rinvio a L. Oliveri, in Inserimenti di minori in strutture residenziali. Sono appalti di servizi?, nel quale giustamente l’autore tenta di affrontare il tema in maniera sistematica, perché prima ancora di decidere sull’assoggettamento del rapporto agli obblighi di tracciabilità bisogna interrogarsi sulla natura del rapporto.)

11 IL Comune, per es. in alternativa, potrebbe creare un sistema di voucher che il soggetto spende direttamente presso la struttura scelta

12 Qui si apre una questione sulla gestione dell’ISEE, perché le soglie stesse generalmente sono molto basse e l’onere delle rette rischia di mettere a repentaglio anche la sicurezza economica di una famiglia “media” che, sulla base del’ISEE, probabilmente non accederebbe neppure alle prestazioni sociali agevolate ed è qui che probabilmente l’ISEE corrente invece di quello annuale dovrebbe essere maggiormente utilizzato e disciplinato a livello locale.

13 Dopo il dpcm 14 gennaio 2017 si parla di intensità terapeutico riabilitativa

14 Punto 8, a pagina 25 del DPCM 29/11/2001

15 L’Associazione PSIAF ha diffuso un documento con l’invito a inserire nei Piani di Zona una serie di proposte concrete per rilanciare e dare dignità alla protezione dei diritti dei minori.

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