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Sapido ed interessantissimo l’articolo di Matteo Barbero “A chi convengono le unioni di comuni?”, che pone una domanda semplicemente retorica, come ben si arguisce dalla condivisibile conclusione proposta: “ci si chiede se a chi convenga oggi mantenere questo istituto nella sua attuale configurazione o se non sia opportuno ripensarne l’assetto, tenendo conto che in moti casi l’unione serve semplicemente a tenere aperti servizi che, diversamente, i singoli comuni non sarebbero materialmente in grado di erogare”.
Barbero giunge a queste conclusioni a partire dalla lettura attenta delle indicazioni rilevabili dal parere della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna 13.8.2025, n. 98. I giudici contabili si sperticano nell’evidenziare condizioni e presupposti, specie di natura organizzativa, e fini generali delle unioni di comuni. In sintesi, esse non dovrebbero consistere nella somma degli stanziamenti dei bilanci volti a finanziare le attività messe in comune, bensì aumentare l’efficienza nei confronti dei cittadini, riducendo i costi finanziari.
Concetti bellissimi e in astratto condivisibili: come si farebbe ad esprimere idee non conformi alle previsioni normative ed alle letture proposte dalla magistratura contabile?
Purtroppo, il caso delle unioni di comuni è emblematico della distanza siderale che intercorre tra norme elaborate sulla base di preconcetti astratti e non sperimentati, poi interpretati dalla magistratura contabile come fossero realmente applicabili, e la realtà concreta delle cose.
Chi scrive ricorda benissimo che le unioni dei comuni, già in piena crisi di identità e dimostratesi del tutto incapaci di garantire efficienza e riduzione dei costi, furono indicate come ideali enti capaci di succedere alle abrogande province.
Una totale follia normativa e di prospettiva, che infatti non ha avuto alcun seguito, ma perfetta cartina di tornasole per far comprendere quanto talvolta si legiferi solo per slogan.
Alla domanda posta dal Barbero, a chi convengono le unioni dei comuni, dunque è possibile rispondere in maniera secca ed incontrovertibile: a nessuno, se non a coloro che dalla costituzione di tali enti ricavano qualche incarico e qualche maggiorazione ai trattamenti economici.
Le unioni di comuni scatenano complessità nella gestione finanziaria sproporzionate all’utilità astrattamente perseguibile.
Soprattutto, tutto sono fuorchè enti associativi capaci “olisticamente” di dare vita ad un risultato di efficienza maggiore della somma dei fattori messi in comune.
Le unioni non garantiscono per nulla una maggiore forza. Nella gran parte dei casi, si rivelano esclusivamente non unioni che fanno la forza, ma disperate unioni di debolezze, attraverso le quali provare ad avere 2 o 3 persone in un ufficio, invece di una sola, così da permettere di non chiudere per ferie o per malattia, o provare ad avvalersi di qualche maggiore esperienza (nei ritagli di tempo) nella gestione di appalti o riscossione dei tributi. Nemmeno si possono mettere davvero in unione (se non di gestione del personale) gli uffici demografici.
La realtà dei fatti è una sola: le unioni di comuni sono un gigantesco flop ordinamentale, un monumento alla superficialità e sommarietà con cui si attivano le riforme.