La maggiore età anagrafica non può essere il criterio di preferenza al fine dell’attribuzione della progressione verticale, nel caso di parità di punteggio ed identica anzianità di servizio.
E’ quanto evidenzia la sentenza del Tar Sicilia, Catania, Sezione II, con la sentenza 17/05/2024 n. 01845, di annullamento di un regolamento di un ente locale, contenente tale criterio.
Si tratta di una pronuncia condivisibile solo in parte. Infatti, se da un lato la sentenza pare cogliere nel segno laddove afferma la scarsa rilevanza dell’età e dell’anzianità di servizio, dall’altro lato non appare del tutto incisiva su questo punto, invece decisivo, e non persuade nemmeno completamente nelle altre parti in cui continua ad estendere alle progressioni verticali elementi normativi specifici dei concorsi.
L’affermazione di maggiore rilevanza della sentenza si coglie nel passaggio nel quale i giudici rilevano che “la maggiore qualificazione professionale – che la procedura comparativa intende valorizzare – non è necessariamente legata alla (maggiore) anzianità anagrafica, dipendendo da fattori diversi, quali il conseguimento di titoli di studio e professionali, lo svolgimento di incarichi, anche di responsabilità, per l’Amministrazione, conferiti sulla base del merito e della particolare attitudine del dipendente, lo svolgimento del servizio con diligenza e, dunque, la produttività e l’efficienza del dipendente”.
L’indicazione del Tar sarebbe da sottoscrivere pienamente, se non vi fossero una serie di attenuazioni nell’ambito della sentenza. Una delle quali si rileva già nel passaggio riportato sopra, ove è specificato che la maggiore qualificazione professionale non è “necessariamente” legata alla maggiore età anagrafica.
A ben vedere la qualificazione professionale con l’età anagrafica non pare abbia assolutamente nulla a che vedere in termini assoluti: affermare, invece, che ciò non sia “necessariamente” rilevabile porta a concludere che, allora, in alcuni casi l’età anagrafica possa avere un peso.
Il Tar evidenzia che la riforma dell’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001, disposta col d.l. 80/2021 attraverso l’abbandono del concorso pubblico con riserva e l’utilizzo della procedura comparativa interamente riservata agli interni “ha inteso valorizzare le professionalità interne nell’ambito delle procedure per le progressioni fra le aree, nel senso che mentre in precedenza le Amministrazioni avevano l’obbligo di indire un concorso pubblico aperto a candidati esterni, con facoltà di riservare posti (in misura non superiore al 50 per cento) agli interni, a seguito della novella legislativa le progressioni fra le aree avvengono mediante procedure comparative tra gli interni (salvo l’obbligo di riserva di una quota di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno)”.
Non vi è dubbio: l’intento del legislatore è permettere alle PA di non rivolgersi al “mercato”, utilizzando il concorso pubblico, quando vi sia ragionevole certezza dell’esistenza nel proprio organico di dipendenti sotto qualificati, in possesso di titoli di studio persino superiori a quelli necessari per l’accesso ai posti vacanti da coprire e, soprattutto, già valutati come capaci di svolgere con efficacia rilevante le proprie mansioni e potenzialmente in grado di assolvere a maggiori responsabilità proprie della qualifica superiore.
Tale intento va perseguito, quindi, con una progressiva attività di “osservazione”. Le progressioni verticali sono riservate ai dipendenti della medesima PA che le indice. Non può non presumersi che i dirigenti esercitanti i poteri datoriali non dispongano di “indicatori” per rilevare nel tempo l’efficienza e le capacità dei propri dipendenti, così da segnalare appunto la sussistenza effettiva di potenzialità tali da poter “investire” con le progressioni verticali.
Tuttavia, tale potenziale non può e non deve avere, tra gli indicatori, nè l’età, nè l’anzianità di servizio, elementi accessori completamente irrilevanti ai fini della selezione da realizzare.
Afferma, ancora, il Tar Catania: “La disciplina del riformato art. 52, comma 1-bis, decreto legislativo n. 165/2001 è ispirata al criterio della valorizzazione del “merito” dei dipendenti, che non si esaurisce nell’esperienza professionale in sé (la quale, peraltro, rileva anche per il tramite del criterio preferenziale dell’anzianità di servizio), ma include, più in generale, la formazione, la competenza e la qualificazione professionale del lavoratore”.
Questo è il vizio logico maggiormente rilevante, che indebolisce e contraddice al suo interno la costruzione logico-giuridica della sentenza.
Infatti, o si evidenzia che la norma intende valorizzare il “merito” e quindi si leggono i criteri selettivi indicati a questo scopo; oppure, se si lasciano spazi a criteri selettivi “automatici”, come l’anzianità di servizio, non può più sostenersi che la progressione verticale sia impostata nel senso di valorizzare il “merito”.
A leggere le previsioni dell’articolo 52, comma 1-bis, non risulta alcun dubbio: nè l’età anagrafica, ma nemmeno l’anzianità di servizio sono mai menzionate, nè direttamente, nè implicitamente: “Fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti”.
Come si nota, la norma non parla nemmeno di “esperienza professionale”, quella che, secondo il Tar, come visto prima, può rilevare anche per il tramite dell’anzianità di servizio.
Certo: l’insieme dei 4 criteri selettivi può essere sintetizzato e sussunto in un unico “contenitore definitorio” denominabile come “esperienza professionale”.
Ma, gli enti sono chiamati ad osservare e valorizzare con punteggi, ai fini della selezione, elementi che non considerano in alcun modo nè l’età, nè l’anzianità, nè l’esperienza (invece, menzionata espressamente dai Ccnl per le progressioni orizzontali).
L’unico punto nel quale si potrebbe andare a ricercare l’anzianità di servizio, ferma restando l’assoluta irrilevanza dell’età anagrafica, è il lemma “competenze professionali”.
Ma, a ben vedere, tali competenze non possono presumersi connesse al semplice decorso del tempo. Infatti, non si tratta di competenze qualsiasi, ma di competenze “ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno”.
Si ha la tendenza a riferire l’aggettivo “ulteriori” ai titoli di studio. Ma, non è così. Il terzo criterio valutativo è un insieme di tre criteri, da valutare tutti soltanto e solo se “ulteriori” a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno. Proviamo a rappresentare graficamente la previsione normativa:
titoli professionali | ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno |
competenze professionali | |
titoli di studio |
Sia i titoli professionali (per esempio, abilitazioni), sia le competenze professionali (per esempio, progettazioni connesse al titolo), sia il titolo di studio, debbono essere ulteriori rispetto a quelli per l’accesso dall’esterno, tramite concorso.
Questo passaggio dell’articolo 52, comma 1-bis, è quello assolutamente decisivo ed è la spiegazione in base alla quale il Legislatore ha deciso di non effettuare le progressioni orizzontali come concorso pubblico con riserva di posti, bensì come procedura comparativa interamente riservata agli interni: si è ritenuto di poter valorizzare il “merito” di chi già sia nei ruoli della PA, proprio grazie alla circostanza che per titoli professionali, competenze e professionali e titoli di studio possegga un patrimonio di capacità persino maggiore di quello che sarebbe oggetto di verifica, se partecipasse al concorso pubblico.
Ma, allora, poichè così stanno le cose, l’anzianità di servizio non ha alcuna utilità. Essa, infatti, non comprova nessun titolo professionale ulteriore, nessun titolo di studio ulteriore, ma nemmeno alcuna competenza professionale “ulteriore”. L’anzianità dimostra solo una ripetuta nel tempo attivazione delle competenze professionali strettamente connesse alla qualifica ed alla mansione posseduta, che quindi non è certo “ulteriore”. Dunque, non può e non deve avere alcuno spazio.
Meno che mai, a questo scopo, può rilevare nemmeno l’età anagrafica, che è semplicemente un segmento temporale biologico.
Il Tar aggiunge alla propria analisi: “Come precisato dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’indomani della novella, con parere in data 6 ottobre 2021, “Appare chiaro, alla luce del quadro delineato, l’intento del legislatore di valorizzare gli elementi maggiormente qualificanti che connotano l’excursus professionale, formativo e comportamentale del dipendente, al fine di rendere esplicito che il ricorso alla procedura comparativa in luogo di quella concorsuale è idonea e parimenti efficace nell’assicurare che la progressione di area e/o categoria o qualifica avvenga a beneficio dei più capaci e meritevoli””. Ma, età anagrafica ed anzianità di servizio non hanno connessione alcuna con capacità e meritevolezza.
Dimostrato che l’anzianità di servizio proprio non deve in alcun modo entrare negli elementi da osservare e valorizzare, soffermiamoci, ora, sull’età.
Il Tar sostiene che il regolamento locale è illegittimo, perchè vìola l’articolo 3, comma 7, della (sciaguratissima) legge 127/1997, ai sensi del quale nell’ambito dei concorsi pubblici occorre, al contrario, affermare la priorità per il concorrente più giovane.
Secondo il Tar anche con riferimento alle procedure di progressione verticale come regolate post d.l. 80/2021 permangono “sul piano sostanziale, le caratteristiche proprie della concorsualità intesa come comparazione tra candidati, i cui esiti si traducano in una graduatoria basata sull’ordine di merito, ai fini della selezione del candidato più capace”.
Non c’è dubbio che le progressioni verticali sono da gestire in modo non solo da realizzare una comparazione, ma anche una selezione: alla comparazione deve seguire, cioè, una graduatoria che determini in modo vincolante e non interpolabile gli esiti della procedura.
Ma, l’età anagrafica appare elemento discretivo solo nell’ambito di procedure selettive concorsuali, volte ad un’immissione ex novo di forza lavoro, così da perseguire l’interesse pubblico ad un ringiovanimento dei ranghi e ad una durata ampia del rapporto lavorativo.
La progressione verticale, invece, contrariamente a quanto afferma il Tar, è totalmente neutrale rispetto all’età.
Si intende affermare che non solo è certamente illegittimo prevedere per via regolamentare preferenza, a parità di punteggio, per il maggiormente anziano anagraficamente; ma, altrettanto illegittimo è anche disporre una preferenza per il più giovane.
Illegittimo perchè l’articolo 3, comma 7, della legge 127/1997 appare senz’altro da riferire tassativamente alla fattispecie regolata, cioè i concorsi pubblici, e non da estendere analogicamente ad una fattispecie diversa, le progressioni verticali, fondate esclusivamente sul merito.
Sicchè, il vero vizio del regolamento interno dell’ente non è solo la previsione volta a dare peso all’età anagrafica, quanto, piuttosto la propria evidente disfunzionalità. Infatti, applicando le disposizioni regolamentari, nel caso di specie ben cinque candidati hanno finito per ottenere pari punteggio: segno che le pesature previste non sono state capaci di specificare le precipue e specifiche competenze individuali.
Criteri selettivi efficienti ed utili, non connessi ad automatismi come anzianità, ben difficilmente potrebbero determinare parità di punteggio. Il vizio, quindi, sta proprio nell’insieme delle pesature: le amministrazioni dovrebbero effettuare una seria valutazione di impatto, simulare gli effetti delle regole e scartare quelle potenzialmente causative di estesi pari merito. La procedura di progressione verticale intende valorizzare il merito, quindi differenziarlo. Regolamentarla in modo da favorire il pari merito, significa semplicemente andare nel senso opposto, cioè appiattire il merito e affidare la verticalizzazione all’ordalia dell’età o dell’anzianità di servizio.