Abstract
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di approfondire il controverso rapporto tra gli ordinamenti italiano e comunitario e la relativa teoria dei controlimiti, partendo da una descrizione dei possibili meccanismi di adattamento e da una lettura sistematica dell’art. 117 Cost. La disamina qui offerta si focalizza poi sulla principale elaborazione giurisprudenziale sul tema, in particolare di quella costituzionale, soffermandosi infine sulla casistica degli atti amministrativi incompatibili con il diritto comunitario.
Sommario
I RAPPORTI TRA ORDINAMENTI E LA TEORIA DEI CONTROLIMITI
- Le limitazioni di sovranità.
- Rapporti da ordinamenti e meccanismi di adattamento.
- Alcuni approfondimenti sul rapporto tra ordinamento italiano e comunitario.
- Il rapporto controverso tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale e la teoria dei controlimiti.
- Punti fermi della lettura sistematica dell’art. 117 Cost.
- Alcuni passaggi chiave della giurisprudenza della Corte costituzionale.
- Un quadro di sintesi dell’elaborazione giurisprudenziale.
- Gli atti amministrativi incompatibili con il diritto comunitario.
- Punti fermi sul tema dei controlimiti.
- L’adeguamento italiano agli obblighi unionali.
- Conclusioni.
- Bibliografia
1. Le limitazioni di sovranità.
La sovranità consiste nel potere supremo dello Stato all’interno del proprio territorio e nell’indipendenza dello Stato rispetto a qualsiasi altro Stato. Ai sensi dell’art. 11 Cost., «L’Italia (…) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni rivolte a tale scopo». È nell’ambito dell’art. 11 Cost. che va collocata l’adesione dell’Italia all’ONU e all’Unione europea. Ebbene, sul rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento interno non si può non rinviare alla lettura della storica sentenza della Corte costituzionale n. 170/1984.
Le organizzazioni internazionali, inizialmente istituite con finalità commerciali o comunque nello spirito dell’art. 11 Cost., hanno costituito il terreno sul quale si è andato a consolidare un vero e proprio diritto globale, che esula dalla sovranità dei singoli Stati. Anche alla luce di tali fenomeni, oggi si parla di crisi della sovranità, in considerazione dell’indebolimento dei poteri statuali a beneficio delle relazioni internazionali, agevolate dalla globalizzazione.
Il rapporto tra le norme di diritto internazionale e gli ordinamenti giuridici nazionali è indispensabile per far sì che le norme internazionali abbiamo attuazione. Ne deriva che sono necessari meccanismi all’interno dell’ordinamento nazionale che contaminino il diritto internazionale.
Sulla costruzione di questa relazione si sono sviluppate tre teorie. La teoria monista-nazionalista è la più datata nel tempo e sostiene che l’unico sistema giuridico vero e proprio sia l’ordinamento dello Stato. Le regole di diritto internazionale, in questo caso, non sarebbero vere e proprie regole giuridiche ma delle raccomandazioni agli stati su comportamenti da tenere nelle loro reciproche relazioni. Questo comportamento verrebbe definito esclusivamente dalle regole di diritto interno. La teoria dualista, che riconosce l’esistenza di due ordinamenti giuridici veri e propri, completi e non dipendenti l’uno dall’altro, ovvero che esistono parallelamente tra loro. La diversità delle caratteristiche dei due ordinamenti si riscontra in termini di soggetti. Nell’ordinamento internazionale i soggetti sono gli stati mentre nell’ordinamento interno sono gli individui. Per quanto riguarda il campo delle fonti l’ordinamento internazionale è rappresentato da consuetudini ed accordi mentre quello interno dalla Costituzione e le altre fonti definite da questa. Per aversi l’applicazione del diritto internazionale in quello interno è necessario immaginare dei meccanismi che consentano questa trasformazione. Questi passaggi sono definiti dagli stati stessi che regolano i meccanismi di entrata del diritto internazionale nell’ordinamento interno.
Approfondendo maggiormente il tema, la teoria del monismo internazionalista è una posizione propugnata da Kelsen nei primi del Novecento. Secondo questa teoria vi è un solo ordinamento giuridico che corrisponde a quello internazionale. È quindi il diritto internazionale a definire e giustificare l’esistenza degli ordinamenti nazionali. La visione maggiormente accredita tra le tre è quella del dualismo ma nel diritto internazionale contemporaneo ci sono elementi che richiamano alla teoria di Kelsen. Questi elementi corrispondono alla gerarchia delle fonti e alle norme di jus cogens che devono valere e prevalere anche nel diritto interno.
2. Rapporti da ordinamenti e meccanismi di adattamento.
I meccanismi di adattamento del diritto internazionale all’interno del diritto interno sono definiti dai sistemi nazionali stessi. Questi si dividono in:
- meccanismi di adattamento automatico-permanenti;
- meccanismi di adattamento ad hoc che sono pensati volta per volta;
- meccanismi di adattamento speciali (o per rinvio).
Il sistema produce una norma che rinvia alle norme internazionali. Questo è il caso dell’art. 10 della Costituzione. Utilizzando questo tipo di procedimento non si rischia di modificare il contenuto della norma e si garantisce che tutti gli stati facciano riferimento alla stessa norma nel momento in cui le vanno a dare l’esecuzione.
Per i meccanismi di adattamento ordinari il sistema nazionale produce una norma che riproduce una norma internazionale trasformandola in nazionale. Con questo tipo di procedimento c’è la possibilità di modificare la norma internazionale facendo sì che abbia un’applicazione diversa a seconda della modifica effettuata. Quindi, dal punto di vista dell’uniformità di interpretazione ed applicazione del diritto internazionale, non è l’ideale. Inoltre, la norma viene riprodotta in un dato momento e poiché queste, nel tempo, si possono modificare si presenta la possibilità che l’ordinamento interno applichi una norma che nel frattempo è cambiata. Il procedimento ordinario ha il limite di non consentire all’ordinamento interno di stare al passo con le modifiche sul piano internazionale. Tuttavia, ci sono norme che non possono entrare a far parte del diritto interno senza questo procedimento. Queste sono le norme non self-executing ovvero norme che, per il loro carattere, non possono trovare un’applicazione diretta poiché vaghe ed imprecise. Riproducendo queste norme lo Stato le completa eliminando gli elementi di vaghezza ed indecisione. È un meccanismo presente per le direttive dell’Unione europea che lasciano allo Stato la possibilità di scegliere i processi di applicazione. Secondo l’art. 10 della Costituzione, l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Questo rappresenta un meccanismo di adattamento permanente. Per “generalmente riconosciute” si intendono le consuetudini del diritto interazionale che dovranno essere interpretate anche dai giudici del sistema interno. È anche un meccanismo di adattamento speciale (o per rinvio) poiché si limita a richiamare l’applicazione del diritto internazionale consuetudinario senza riprodurlo. Questo articolo permette il continuo passaggio delle norme consuetudinarie al sistema nazionale. La norma di diritto internazionale prende il rango della norma di adattamento quindi se una norma consuetudinaria viene adattata attraverso una regola di diritto costituzionale questa varrà quanto la norma costituzionale. Il rapporto che intercorre tra la norma internazionale consuetudinaria adattata e le norme costituzionali prevede che in caso di contrasto si potrebbe usare il criterio cronologico, che prevede che la legge successiva prevalga a quella precedente, ed il criterio di specialità, che prevede che la legge speciale prevalga su quella generale.
La Corte costituzionale in una sentenza del 1961 ha disposto che, in caso di contrasto tra una norma internazionale e una legge ordinaria, prevale sempre la norma internazionale perché ha lo stesso rango dell’art. 10. Questo significa che la Corte riconosce la prevalenza delle norme consuetudinarie e dei principi ordinari di diritto sulle leggi ordinarie. Nel caso in cui il contrasto si presentasse tra una norma consuetudinaria internazionale e una norma costituzionale la Corte prevede che il giudice debba interpretare la norma italiana alla luce della norma internazionale scegliendo l’interpretazione della norma nazionale che non sia in contrasto con quella internazionale.
Possono presentarsi situazioni in cui non esistano interpretazioni che non facciano entrare in contrasto le due norme. In questo caso, la Corte costituzionale ritiene che prevalga il diritto internazionale secondo il principio di specialità con un’eccezione che sta nella teoria dei controlimiti. Questa prevede che la norma internazionale prevarrà su quella costituzionale a meno che il contrasto non si sia formato con uno dei principi fondamentali della Costituzione. Il contrasto, ad esempio, si formò tra l’art. 24, che dispone che tutti possano agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, e le regole sull’immunità degli Stati che prevedono che nessuno stato possa essere portato in giudizio in un tribunale di un altro Stato. In questo caso a prevalere la regola di immunità degli Stati poiché l’art. 24 non è un principio fondamentale della Costituzione. La Corte costituzionale ha quindi affermato nel tempo che:
- dato il tenore dell’art. 10 c’è un ingresso automatico e permanente del diritto consuetudinario; l’art.10 fa sì che il diritto internazionale generale acquisisca il rango di norma costituzionale;
- il rango acquisito fa sì che le norme internazionali prevalgano sulle leggi ordinarie;
- nel caso di contrasto tra norma internazionale e norma costituzionale prevale il diritto internazionale secondo il criterio di specialità legato all’origine della norma internazionale salva l’ipotesi in cui il contrasto sia con uno dei principi fondamentali della Costituzione (teoria dei controlimiti accettata dalla Costituzione nel 1979).
- il divieto di tortura deve trovare sempre applicazione nell’ordinamento italiano e sta sopra anche al Codice penale composto da leggi ordinarie come predisposto dall’art. 10. Non essendo però una regola self executing non può trovare applicazione in tutti casi nell’ordinamento italiano. Se il giudice nazionale non può dare applicazione diretta alla norma internazionale deve applicare il diritto interno alla luce del diritto internazionale. Deve quindi interpretare ed usare le norme interne sulla base di ciò che è stabilito dal diritto internazionale.
Inoltre, quando al posto di norme consuetudinarie i procedimenti di adattamento vanno attivati per i trattati non si fa riferimento all’art. 10 poiché contengono norme riconosciute tra gli Stati che hanno firmato quello specifico accordo. L’art. 11 della Costituzione dispone che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e consente in condizioni di parità a limitazioni di sovranità necessarie per assicurare la pace e la giustizia. Inoltre, promuove le organizzazioni internazionali volte a questo. Quest’ultimo fa riferimento alle Nazioni unite citando la limitazione della propria sovranità in condizione di parità con gli altri Stati; essendo poi stato scritto nel 1947 fa riferimento alla Carta delle Nazioni Unite. Questo articolo testimonia la volontà dell’ordinamento di adottare quei meccanismi necessari affinché l’Italia partecipi a organizzazioni internazionali riconoscendo l’importanza dei trattati istituitivi di tali organizzazioni. L’art. 11 è stato utilizzato dalla Corte costituzionale per giustificare la particolare forza delle fonti derivate dai trattati dell’Unione europea. Questo non può essere visto come un meccanismo automatico di adattamento come l’art. 10, quindi non rappresenta una norma di adattamento ma una norma che attribuisce determinate funzioni ad una categoria dii trattati quali quelli istitutivi delle organizzazioni internazionali. L’adattamento in questo caso è attuato con procedimento ad hoc che può attuarsi tramite vari procedimenti.
Secondo il procedimento ordinario, l’atto normativo ad hoc, normalmente una legge dello Stato, riproduce tutto il trattato. Questo viene utilizzato solo quando le norme del trattato siano norme non complete che lasciano allo stato un margine di scelta. La legge darà piena esecuzione ad un trattato allegando il testo originale del trattato. Questo ordine di esecuzione, oltre a dipendervi, sta insieme all’autorizzazione alla ratifica. Di solito è un’unica legge che autorizza alla ratifica e contiene l’ordine di esecuzione.
Secondo il procedimento speciale, l’atto normativo ad hoc rimanda alle norme internazionali dando piena esecuzione ad un trattato. Questo tipo di procedimento è utilizzabile solo nel caso in cui il trattato sia completo o quando la parte non congrua sia riscritta o reinterpretata. In entrambi i casi le norme del trattato sono state trasformate in legge ordinaria che assume lo stesso rango di tutte le altre leggi ordinarie. Vanno distinti il procedimento di ratifica, che autorizza lo stato alla ratifica del trattato, e quello dell’esecuzione, che implica l’adattamento delle norme all’ordinamento interno.
Si può poi presentare il contrasto tra legge-trattato e le altre leggi nazionali che crea un problema concreto poiché riguarda ipotesi di applicazione. In questo caso non sono utilizzabili né l’art. 10 né l’art. 11 nonostante quest’ultimo fosse utilizzato dalla Corte costituzionale per giustificare il fatto che le fonti di diritto comunitario siano più importanti della legge ordinaria perché fondate su tale articolo. L’art. 117, che fa parte della riforma della Costituzione, regola il rapporto tra Stato e Regione e dispone che le norme internazionali vincolano la potestà legislativa poiché questa viene esercitata nel rispetto dei vincoli internazionali. Ciò significa che la legislazione ordinaria è condizionata dall’esistenza di diritto comunitario e di regole del diritto internazionale dei trattati. Questo articolo consente di chiarire che, in caso di contrasto o contraddizione tra una norma interna semplice e una norma di adattamento al trattato, quest’ultima prevale perché tale articolo fa sì che il trattato internazionale sia una norma interposta tra Costituzione e legge ordinaria. Non ha quindi lo stesso rango delle norme costituzionali ma ha comunque un rango superiore a quello della legge ordinaria. Ne deriva che le regole dei trattati sono sottoposti al vincolo della Costituzione; quindi, laddove una norma di un trattato sia in contrasto con una norma costituzionale quest’ultima prevale. Prima dell’entrata in vigore dell’art. 117 la supremazia delle norme dei trattati era espressa in via interpretativa. Conforti sosteneva che, comunque, le norme dei trattati dovessero prevalere in base al criterio di specialità poiché l’origine di queste norme testimoniava la volontà dello Stato di adeguarsi a certe regole attraverso l’entrata in un trattato. La Corte costituzionale si è occupata di questo tema e si sono stratificate due sue importanti decisioni, le sentenze 348 e 349 del 2007, nelle quali si stabilisce con chiarezza che le regole dei trattati hanno un valore superiore alla legge ordinaria proprio perché l’art. 117 ha riconosciuto loro il ruolo di norma interposta. Il giudice di merito, quindi, deve interpretare qualunque norma nazionale, anche quelle successive al trattato, in modo da non entrare in contrasto con il trattato stesso.
Si possono presentare situazioni in cui ciò non sia possibile e si crei un contrasto tra trattato e diritto interno. In questo caso la scelta della Corte è stata conservativa. Questa dispone che in caso di insanabile contrasto tra queste il giudice di merito debba sollevare la questione di costituzionalità della norma interna. Non attribuisce, quindi, al giudice la possibilità di fare una disapplicazione diretta della norma interna a favore di quella del trattato. Questa scelta della Corte è coerente con l’ordinamento italiano che prevede un controllo accentrato di costituzionalità. Nelle sue successive pronunce, come la sentenza 80 del 2011, ha sempre ribadito che il primo obbligo del giudice sia quello di garantire l’applicabilità del trattato attraverso un’interpretazione conforme della norma interna. Nel diritto dell’Unione europea il regolamento entra in vigore in tutti gli Stati membri senza il bisogno di nessun tipo di adattamento. In una situazione di contrasto il giudice è consapevole di dover applicare il regolamento ma allo stesso tempo, utilizzando i normali criteri come la successione del tempo, si trova nella posizione di dover applicare le leggi nazionali. La Corte costituzionale, in merito a questo dilemma, applica l’art. 11 sostenendo che, visto che tale articolo dispone una limitazione di sovranità, l’Italia accetta che il regolamento sia direttamente applicabile e, quindi, che, rispetto a tale articolo, le fonti di diritto comunitario hanno primazia sulla legge ordinaria. In caso di insanabile contrasto tra una norma europea e una italiana il giudice di merito è tenuto a disapplicare la norma interna senza dover passare il caso alla Corte costituzionale.
3. Alcuni approfondimenti sul rapporto tra ordinamento italiano e comunitario.
Occorre ora soffermarsi maggiormente sul problema del controverso rapporto tra le norme comunitarie e gli ordinamenti giuridici nazionali, nei quali esse producono i loro effetti. I rapporti tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento comunitario sono stati oggetto di un contrastante orientamento della dottrina ma soprattutto della giurisprudenza: da una parte la Corte di Giustizia, nell’affermare una concezione “monista” dei rapporti fra ordinamenti, con la prevalenza “gerarchica” del diritto comunitario su quelli nazionali; dall’altra le Corti costituzionali nazionali, compresa quella italiana, che invece hanno affermato una concezione dualista dei rapporti fra ordinamenti, visti come reciprocamente separati. Nell’esaminare più in dettaglio la posizione della Corte costituzionale italiana, si deve rimarcare come, dopo le prime pronunce in cui essa addirittura sosteneva la possibilità del legislatore nazionale di modificare o abrogare le norme comunitarie preesistenti (sent. n. 14/1964) o ipotizzava la dichiarazione di incostituzionalità delle leggi contrastanti con le fonti comunitarie per violazione dell’art. 11 Cost. (sent. n. 232/1975), si è approdati ad una posizione relativamente chiara e duratura, consacrata nella storica sentenza n. 170 del 1984. In essa la Corte, premesso che ordinamento comunitario e ordinamento interno sono separati, benché coordinati, per cui le fonti del primo non sono necessariamente tali anche nel secondo, ha sostenuto che tali atti sottostanno al regime previsto dall’ordinamento di appartenenza, ma trovano applicazione anche nell’ordinamento italiano.
Nelle materie previste dal trattato, infatti, le norme comunitarie operano con efficacia immediata, indipendentemente dalle leggi nazionali ad esse precedenti o successive, che dovranno semplicemente non essere applicate dai giudici ordinari[1]. Sul tema dei rapporti fra i due ordinamenti si è aperto poi una nuova stagione di riflessioni, in ragione di due eventi, uno attuale e l’altro ancora per il momento potenziale: ci si riferisce alla modifica del titolo V, parte II della Costituzione, che per la prima volta ha introdotto in Costituzione una serie di riferimenti espliciti alle istituzioni comunitarie ed alla approvazione della nuova Costituzione europea. Invero, la recente riforma della Costituzione non ha introdotto, come da più parti si richiedeva, quell’articolo che finalmente fosse idoneo a fondare in linea generale l’appartenenza italiana alla Comunità. Il nuovo testo dell’art. 117, comma 1 della Cost., presenta, però, una disposizione dal contenuto tutt’altro che ininfluente: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Ebbene, si rinviene nella sentenza n. 406 del 2005 il primo caso in cui la Corte costituzionale ha applicato direttamente questa disposizione, in un giudizio in via principale, arrivando sotto questo profilo a dichiarare incostituzionale una legge regionale[2] direttamente contrastante con il diritto comunitario. Con questa pronuncia, si può ritenere conclusa la stagione aperta con le sentenze (n. 384 del 1994 e n. 94 e del 1995) con cui la Corte aveva aperto alle questioni relative alla violazione del diritto comunitario promosse in via principale in relazione all’art. 11 Cost., per iniziare una nuova fase in cui, essendo sopravvenuto un più preciso parametro di costituzionalità, rappresentato dal novellato art. 117, l’art. 11 può rimanere sullo sfondo, quale principio fondamentale di sistema. Tuttavia, l’utilizzazione dell’art. 117, comma 1, non ha prodotto finora grandi stravolgimenti nelle soluzioni sin qui seguite. Infatti, fuori dal giudizio in via principale, in cui il parametro di valutazione delle leggi regionali in contrasto con la normativa comunitaria non sarà più l’art. 11 ma l’art. 117, comma 1, Cost., nel giudizio in via incidentale la soluzione dell’antinomia “interna – comunitaria” tramite la disapplicazione della norma interna incompatibile con quella comunitaria non pare sia stata né debba essere abbandonata. Tale ricostruzione era il frutto di una giurisprudenza ormai risalente della Corte di giustizia, poi seguita dalla Corte costituzionale, ed appare ancora adatta a garantire l’immediata ed uniforme applicazione del diritto comunitario direttamente applicabile, essendo sicuramente compatibile con una ricostruzione monista dei rapporti tra i due ordinamenti.
Vi è poi un evento potenzialmente destinato ad incidere sul tema dei rapporti tra ordinamenti interno e comunitario: la sottoscrizione a Roma, il 29 ottobre 2004, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, meglio conosciuto come “Costituzione europea”. L’art. I – 6 del Trattato, infatti, recita: “La Costituzione e il diritto adottato dalle Istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul diritto degli stati membri”. Si è già detto, però, che le sorti di questo Trattato, come di tutto il processo di costruzione comunitaria, sono ancora incerte, per la mancata ratifica dello stesso da parte di alcuni importanti Stati della Comunità. In attesa di questi sviluppi, si può comunque concludere nel senso che il rapporto fra i due ordinamenti non possa più descriversi in termini di separatezza, quanto di coordinamento e comunicazione.
Comunque, il tema del rapporto tra gli ordinamenti, implica anche il problema dell’esecuzione degli obblighi comunitari. Ovviamente, il problema non si pone per il diritto comunitario auto applicativo (regolamenti). Le direttive comunitarie, invece, possono essere recepite da ciascuno Stato membro nel modo che ritiene più opportuno, purché tale adeguamento intervenga entro i termini stabiliti e realizzi il risultato prefissato. Per lungo tempo l’ordinamento italiano ha proceduto ad adeguarsi alle direttive comunitarie utilizzando lo strumento dell’attuazione diretta o della delega legislativa a favore del Governo, con conseguente lentezza del procedimento e gravi ritardi nel recepimento delle direttive, che spesso lo portavano a soggiacere ad una sentenza di condanna per inadempimento da parte della Corte di giustizia. La razionalizzazione delle procedure di adeguamento si è realizzata con la Legge 9 marzo 1989, n. 86, meglio nota come legge “La Pergola”, contenente norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario. Detta legge è stata abrogata dalla legge 4 febbraio 2005, n. II (c.d. “legge Bottiglione”), che non si limita a garantire solo l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (fase discendente), ma disciplina anche il processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione europea (fase ascendente).
Per quanto concerne l’esecuzione degli obblighi comunitari, la disposizione centrale di questa legge è rappresentata dall’art. 8, che impone al Presidente del Consiglio o al Ministro per le politiche comunitarie di presentare, entro il 31 gennaio di ogni anno, un disegno di legge al Parlamento recante Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (c.d. “legge comunitaria”). Tale legge consente di dare attuazione nel nostro ordinamento alle disposizioni comunitarie attraverso:
- la normazione diretta. In questo caso si abrogano o si modificano norme interne in contrasto con quelle comunitarie direttamente attraverso la legge comunitaria. Questo metodo è utilizzato soprattutto per il recepimento di disposizioni di non rilevante complessità;
- la delega al Governo. In questa ipotesi, dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni, l’esecutivo emana disposizioni di attuazione delle direttive comunitarie tramite decreto, regolamento o altro atto amministrativo, a seconda della materia oggetto della norma comunitaria.
4. Il rapporto controverso tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale e la teoria dei controlimiti.
I trattati istitutivi delle Comunità comportano un trasferimento di funzioni (legislative, esecutive e giurisdizionali) a favore delle Istituzioni Comunitarie, esercitando un’incidenza significativa su norme di livello costituzionale, essendo le competenze degli organi statali fissate direttamente dalla Costituzione e comportando una significativa riduzione della sovranità statale. Di conseguenza, fin dall’epoca della loro ratifica si pose il problema del fondamento costituzionale dell’adesione italiana alle Comunità europee, anche perché ai trattati istitutivi delle tre Comunità è stata data esecuzione in Italia mediante leggi ordinarie.
Come si è sopra accennato, la Corte costituzionale ha individuato come fondamento costituzionale dell’appartenenza italiana alle Comunità l’art. 11 Cost., che consente, “in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Si tratta evidentemente di una interpretazione evolutiva: nel 1947 le Comunità non esistevano ancora e l’art. 11 si riferisce piuttosto ad organizzazioni come l’ONU, che in quei giorni venivano costituite.
Si ritenne, così, che detto articolo potesse coprire anche le consistenti limitazioni di competenza introdotte dai trattati comunitari. Tali limitazioni concernono non soltanto l’attività normativa dello Stato, ma anche quella amministrativa e giurisdizionale sicché, in conseguenza della stipulazione dei trattari comunitari, i cittadini si trovano sottoposti, oltre che alle autorità nazionali, ad un sistema di pubblici poteri estraneo ed indipendente rispetto ad esse.
La previsione espressa di riferimenti all’Unione europea compare nel testo costituzionale soltanto con la riforma del titolo V della parte II della Costituzione, approvata con la Legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3.
II primo riferimento all’ordinamento comunitario è ora rintracciabile nel comma 1 dell’articolo 117 della Costituzione, laddove è inserita una clausola generale di sottoposizione della legislazione (nazionale e regionale) ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.
La disciplina dei rapporti fra lo Stato e l’Unione europea è affidata alla legislazione esclusiva statale (art. 117, comma 2), mentre compete alla legislazione concorrente regionale quella dei rapporti fra l’Unione e le stesse Regioni (art. 117, comma 3).
L’art. 117, comma 5, inoltre, fissa i principi generali dell’attività diretta alla formazione e all’attuazione degli atti comunitari, affidando alla legislazione esclusiva statale la disciplina degli aspetti procedurali e dell’eventuale esercizio del potere sostitutivo statale in caso di inadempienza. In attuazione di tali ultime previsioni sono stati emanati l’art. 5 della legge n. 131 del 2003 (c.d. Legge La Loggia) e la legge n. 11 del 2005 (c.d. Legge Buttiglione), che definiscono le procedure per la partecipazione in sede comunitaria delle Regioni sia in via indiretta, cioè attraverso la formazione della volontà statale, che diretta.
Si avverte comunque tuttora la mancanza di una previsione più esplicita dell’art. 11 nella parte della Costituzione relativa ai principi generali, in considerazione del grado ormai assai avanzato di integrazione raggiunto.
La Corte costituzionale, tuttavia, sulla scorta di analoga giurisprudenza tedesca, pur consentendo in base all’art. 11 le limitazioni di sovranità derivanti dall’istituzione delle Comunità europee, ha elaborato una dottrina dei controlimiti, individuati nel rispetto dei diritti inviolabili della persona umana e dei principi fondamentali. Con la conseguenza che l’ingresso nell’ordinamento interno del diritto comunitario contrastante con detti valori sarebbe precluso, riservandosi la Corte di sindacare la legittimità costituzionale della legge di ratifica dei trattati istitutivi (fonte del diritto sindacabile dalla Corte), nella misura in cui consente l’ingresso nel nostro ordinamento di queste norme con esso assolutamente incompatibile.
Il concetto di controlimite ha sempre avuto particolare attenzione nel dibattito dottrinale[3], a partire dal momento in cui, nel decennio che va dalla prima metà degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80, ha fatto la sua prima comparsa nella giurisprudenza costituzionale di alcuni Stati europei[4]. Il confronto che ruota attorno a tale concetto si è rafforzato, soprattutto a seguito dei mutamenti che hanno visto il dilatarsi della tradizionale sfera della tutela dei diritti, passata da una pertinenza esclusiva in capo agli Stati nazionali alla moltiplicazione delle sedi di tutela, operanti su piani distinti, in base a Carte distinte nonché attraverso l’intervento di organi giurisdizionali non sempre allineati su livelli omogenei nella garanzia di diritti analoghi.
A tutt’oggi uno stesso diritto potrebbe essere oggetto di una triplice garanzia nel panorama europeo, in quanto riconosciuto dalla Costituzione dello Stato, in secondo luogo perché, a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), gli Stati aderenti si sono impegnati a rispettarne le disposizioni e la giurisprudenza della Corte EDU che le attua, e, infine, perché, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) è stata riconosciuta la stessa efficacia giuridica dei Trattati, ampliando così i margini di protezione da parte della Corte di giustizia.
La prima apparizione della teoria dei controlimiti nella giurisprudenza costituzionale italiana risale all’inizio degli anni ’70 e, più precisamente, alla sentenza 27 dicembre 1973, n. 183 (c.d. sentenza Frontini)[5]. In questa sede la Corte costituzionale aveva rilevato che l’ordinamento della Comunità economica europea prevedeva un efficace sistema di tutela giurisdizionale dei diritti in capo alla Corte di giustizia, limitatamente alle materie di competenza normativa della Comunità (che inizialmente si estendeva all’ambito economico) secondo quanto stabilito dall’art. 189 del Trattato. Tuttavia affermava che «in base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma […], possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Ed è ovvio che qualora dovesse mai darsi all’art. 189 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali. Deve invece escludersi che questa Corte possa sindacare singoli regolamenti, atteso che l’art. 134 della Costituzione riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, e tali, per quanto si è detto, non sono i regolamenti comunitari».
Tale importate affermazione viene poi ribadita qualche anno dopo con la sentenza 8 giugno 1984, n. 170 (c.d. sentenza Granital), nella quale la Corte riprende l’inciso secondo cui in caso di violazione dei principi supremi non possa essere precluso il suo sindacato sulla legge di esecuzione del Trattato, affermando la regola di risoluzione dei conflitti tra diritto nazionale e diritto europeo tutt’ora vigente. In caso di contrasto spetterà al giudice comune rimuovere la disposizione di legge nazionale contrastante con il diritto delle Comunità europee in virtù del principio del primato e degli effetti diretti di quest’ultimo[6].
Tuttavia, non resta preclusa la possibilità di operare lo scrutinio di costituzionalità su quelle disposizioni interne che hanno l’effetto di impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato. In questo caso, «la Corte sarebbe […] chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuno dei limiti della sovranità statuale, da esso medesimo posti, mediante la legge di esecuzione del Trattato, in diretto e puntuale adempimento dell’art. 11 Cost.».
Attraverso queste due sentenze, come si è detto, la Corte costituzionale ha costruito un meccanismo di risoluzione dei conflitti tra diritto nazionale e diritto europeo che, salvo alcuni assestamenti, ha retto a diversi livelli fino ai nostri giorni. Viene definita sia la regola di risoluzione “ordinaria” dei conflitti a favore dell’applicazione diretta del diritto europeo, sia quella relativa alla violazione dei “principi supremi” e dei “diritti inviolabili” con possibilità di azionare il controlimite consistente nel controllo della legge di esecuzione del Trattato.
Si consideri poi che, al momento della sua affermazione, la teoria dei controlimiti[7] era pensata con un ben preciso significato “difensivo”. Essa, partendo dalle limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost., ha avuto il fine di evitare che queste potessero estendersi fino al punto da intaccare i principi supremi dell’ordine costituzionale, trasformando limitazioni accettate in una inammissibile rinuncia alla sovranità.
In particolare, per quanto riguarda l’Italia, è stata oggetto di grande interesse in dottrina la c.d. “vicenda Taricco”, che si è snodata lungo un percorso estremamente articolato, fatto di diversi “rimbalzi” dalla Corte nazionale a quella europea e che ha visto l’assunzione da parte della prima di toni di particolare fermezza, al punto da minacciare l’attivazione dei controlimiti, quale strumento di sindacato sulla legge di esecuzione dei Trattati[8]
Sinteticamente, si deve osservare come essa prenda avvio da una questione pregiudiziale promossa nel 2014 innanzi alla Corte di giustizia dal GUP presso il Tribunale di Cuneo il quale dubitava che la disciplina nazionale in materia di prescrizione non fosse conforme ad alcune norme dei Trattati, in particolare nella misura in cui non consente di perseguire efficacemente alcuni reati fiscali lesivi di interessi finanziari dell’Unione.
5. Punti fermi della lettura sistematica dell’art. 117 Cost.
È dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti della Corte costituzionale, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l’art. 117, primo comma, Cost.
Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma da parte dell’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte della Corte soltanto entro i consueti limiti sopra accennati. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l’espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla “non applicazione” utilizzabile per il diritto comunitario.
Non v’è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti della Corte, che il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano, a livello primario, l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Ciò non significa che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il citato parametro costituzionale comporta, infatti, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e, dunque, con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione.
Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire la Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma.
In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali, peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima[9].
Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell’una e dell’altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest’ultima, così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.
La Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri. Alla Corte costituzionale, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l’interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare, per altro verso, un vulnus alla Costituzione stessa.
Ebbene, in seguito alla sentenza Granital, l’art.117 ha aggiunto altra base giuridica per affermare il diritto dell’Unione; oltre all’art.11 si è codificato il principio del primato del diritto unionale.
Le novità del Trattato di Lisbona possono essere così riassunte:
- si è dato rango costituzionale alla Carta dei diritti fondamentali; comunque la carta corrisponde all’ambito di applicazione e competenza dell’UE. Inoltre, la CGUE, nel momento in cui si verifichino violazioni di un diritto riportato dalla carta, ha consentito ai giudici nazionali di privilegiare la questione di costituzionalità rispetto alla pregiudiziale comunitaria, purché i giudici mantengano la possibilità di adire la CGUE.
- Secondo la sentenza n. 269/2017 la Corte costituzionale italiana afferma che le violazioni dei diritti fondamentali richiedono un intervento erga omnes che non può essere assicurato dalla diretta disapplicazione della legge incompatibile con il diritto dell’Unione e, così, viene esteso il controllo di costituzionalità anche alle norme provviste di efficacia diretta, in virtù sia dei principi dell’ordinamento nazionale sia di quello comunitario. Quindi, questo rischia di determinare potenziali conflitti tra le due Corti per cui non è del tutto chiaro che potere abbia il giudice nazionale in relazione a quale corte adire prima.
- Poi, in una successiva sentenza (20/2019) la Corte ha affermato che il giudice nazionale può fare rinvio pregiudiziale in ogni caso, se lo ritiene necessario (non solo per “altri profili”).
- Con sentenza n. 63/2019 la Corte costituzionale riconosce al giudice comune il potere /dovere di fare egli stesso un rinvio pregiudiziale alla corte dell’Unione, anche dopo un giudizio di legittimità costituzionale. La stessa pronuncia chiarisce anche che, qualora la corte costituzionale dovesse decidere che quella norma sia incostituzionale, la norma fuoriuscirebbe definitivamente dall’ordinamento nazionale e, quindi, il giudice comune non potrebbe più fare un rinvio pregiudiziale perché ormai la norma non esisterebbe più.
- Con l’ordinanza 117/2019 si stabilisce un quadro di costruttiva e leale cooperazione nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di Giustizia affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti. Quindi con le ultime sentenze si è voluto ristabilire un dialogo fra le Corti, lasciando ampia discrezionalità al giudice nel valutare a quale corte rivolgersi prima a seconda dei casi.
Inoltre, la decisione potrà determinare scenari diversi:
- Il giudice comune potrebbe esperire prima il sindacato di costituzionalità e poi sottoporre alla Corte di giustizia un rinvio pregiudiziale di interpretazione o validità, sia quando la norma sia stata dichiarata legittima dalle Corte cost., sia quando la questione di costituzionalità sia stata dichiarata inammissibile o rigettata. In alternativa, se possibile, potrebbe anche decidere di ricorrere all’interpretazione conforme o alla disapplicazione. Inoltre la Corte di Giustizia potrebbe giungere a conclusioni opposte facendo perdere l’autorevolezza alla decisione della Consulta.
- Nel caso in cui una sentenza di accoglimento di illegittimità costituzionale faccia salvi alcun effetto della norma, la Corte di giustizia può essere adita per far sospendere tali effetti. Se la Corte dichiarasse tout court l’incostituzionalità di una norma, il giudice dell’Unione non può essere chiamato a pronunciarsi su una norma nazionale che sia stata espunta dall’ordinamento interno con effetti erga omnes.
- Il giudice comune potrebbe rivolgersi sia alla Corte di Giustizia sia alla Corte costituzionale contemporaneamente (doppia pregiudizialità diretta), con conseguenti problemi se i due procedimenti dovessero concludersi con soluzioni diverse.
- Nei casi di rinvio pregiudiziale d’urgenza, accelerato e di validità, il giudice comune deve rivolgersi direttamente alla Corte di Giustizia.
- Il giudice potrebbe adire esclusivamente alla Corte di costituzionale anche laddove le questioni del diritto dell’Unione fossero evidenti. In caso di mancato rinvio da parte della corte Costituzionale, si potrebbe attivare, come conseguenza, la procedura di infrazione.
6. Alcuni passaggi chiave della giurisprudenza della Corte costituzionale.
La giurisprudenza della Corte costituzionale, nell’interpretare le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali – per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost. – ha costantemente affermato che l’art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (cfr., sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e l’art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate.
L’art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l’altro, che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (cfr. sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984).
Con riguardo alle disposizioni della CEDU, la Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell’ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (cfr. sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Il giudice delle leggi ha altresì ribadito l’esclusione delle norme meramente convenzionali dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo comma, Cost. (cfr. le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994).
L’inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, del parametro dell’art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i precedenti della Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono limitate a dare atto (cfr. sentenze n. 125 del 1977, n. 120 del 1967).
In riferimento alla CEDU, la Corte ha, inoltre, ritenuto che l’art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (cfr. sentenza n. 188 del 1980).
Né la rilevanza del parametro dell’art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario.
È vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei princìpi generali di cui essa garantisce l’osservanza. È anche vero che tale giurisprudenza è stata recepita nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (cfr. sentenza n. 393 del 2006).
In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992.
In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, in particolare, alla Convenzione di Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (cfr. sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario[10].
In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento, l’Unione europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato dell’appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell’Unione al Consiglio d’Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato.
Altrettanto inesatto è sostenere che l’incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla generale “comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme e, in particolare all’art. 1 del Protocollo addizionale, l’effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto; in particolare, la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un contrasto “strutturale” tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze.
Stante quanto sopra, nella giurisprudenza della Corte costituzionale sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell’atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d’altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle norme convenzionali (cfr. sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990), sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse stabiliti ed i princìpi costituzionali (cfr. sentenze n. 388 del 1999, n. 120 del 1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema […] del rango» delle disposizioni convenzionali (cfr. sentenza n. 123 del 1970). In altri casi, detta questione non è stata espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita dall’ordinamento internazionale (cfr. sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002 e n. 376 del 2000). È stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (cfr. sentenza n. 1 del 1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (cfr. sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998). Così, il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dall’art. 2 della Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (cfr. sentenza n. 98 del 1965).
In linea generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (cfr. sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (cfr. sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, la Corte, nel fare riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di un’interpretazione conforme alla Convenzione (cfr. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell’esegesi accolta (cfr. sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (cfr. sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998), nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti […] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (cfr. sentenza n. 154 del 2004).
È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (cfr. sentenza n. 10 del 1993).
Dagli orientamenti della giurisprudenza della Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare.
La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell’uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l’attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (cfr. d.p.c.m. 1° febbraio 2007, Misure per l’esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo).
7. Un quadro di sintesi dell’elaborazione giurisprudenziale.
In Italia l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione dei Trattati istitutivi delle Comunità europee (come anche di tutti quelli modificativi) sono stati dati con legge ordinaria, non costituzionale, essendo difficile l’adozione di quest’ultima a causa di una forte opposizione ostile, all’epoca, all’integrazione europea (cfr. legge 25 giugno 1952 n. 766 di ratifica ed esecuzione del Trattato CECA, legge 14 ottobre 1957 n. 1203 di ratifica ed esecuzione del Trattato CEE e del Trattato CEEA; infine, il Trattato di Lisbona del 2007 è stato ratificato ed eseguito in base alla legge 2 agosto 2008 n. 130). Alla luce di questa ‘anomalia’ dinanzi alla Corte costituzionale italiana si è posta sin quasi da subito la questione della legittimità costituzionale di tali leggi.
La Corte, sin dalla sentenza del 7 marzo 1964 n. 14 (Costa contro ENEL), ha dichiarato che le leggi di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati comunitari (come di quelli modificativi) trovano un fondamento nell’art. 11 Cost. nella parte in cui dichiara: «L’Italia […] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Benché inserita in Costituzione per agevolare la partecipazione dell’Italia all’ONU, tale norma è stata considerata idonea a consentire “limitazioni di sovranità” e, quindi, a permettere al legislatore ordinario di effettuare tali limitazioni. Nella sentenza del 7 marzo 1964 n. 14 la Corte costituzionale ha affermato, infatti: «La norma significa che, quando ricorrano certi presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria».
A questo impianto normativo la nostra Corte costituzionale è restata stabilmente devota. Risolto il problema del fondamento giuridico dell’adesione dell’Italia alla CE, si poneva, poi il problema relativo alla prevalenza del diritto comunitario o, viceversa, di quello interno, nell’ipotesi, non meramente teorica, di contrasto tra le norme dei due ordinamenti. Il problema riguardava specificamente le norme europee direttamente applicabili, poiché solo per esse, di fatto, può porsi la questione se il giudice nazionale (o anche, eventualmente, l’autorità amministrativa) debba applicare la norma europea o quella nazionale, qualora il loro contenuto si riveli incompatibile. In proposito, originariamente la posizione della Corte costituzionale, espressa proprio in Costa contro ENEL era la seguente: essendo stati resi esecutivi i Trattati europei con legge ordinaria, le disposizioni del diritto comunitario non avevano un’efficacia superiore a quella propria della legge ordinaria. Le norme comunitarie e le leggi italiane avevano pari efficacia giuridica e, pertanto, le ipotesi di contrasto andavano risolte in base ai principi della successione delle leggi nel tempo (lex posterior derogat priori), con la conseguenza che una legge italiana successiva conservava la sua piena efficacia e poteva senza dubbio modificare o abrogare le disposizioni comunitarie contrastanti.
Questa tesi incontrò un’immediata reazione della Corte di giustizia, la quale, pronunciandosi in via pregiudiziale con riguardo alla medesima vicenda Costa contro ENEL, affermò il primato del diritto comunitario (direttamente applicabile) sulle norme interne contrastanti e l’invalidità di tali norme. Da quel momento in poi iniziò un vero e proprio rimbalzo tra le due Corti, che si riporterà di seguito[11].
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1963, Van Gend en Loos (sent. 5/2/63 in causa 26/62): “La CEE costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a favore del quale gli stati membri hanno rinunziato, se pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non soltanto gli stati membri, ma pure i loro cittadini” Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 15/7/64 in causa 6/64): (la CEE è ordinamento proprio, la CEE è ordinamento integrato in quelli nazionali (concezione monistica) e ad essi sovraordinato, è affermata la prevalenza del diritto CE (UE) anche su leggi nazionali posteriori)
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 15/7/64 in causa 6/64). A differenza dei comuni trattati internazionali, il trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in specie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza – da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi.
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 15/7/64 in causa 6/64). Tale integrazione nel diritto di ciascuno Stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie e, più in generale, lo spirito e i termini del Trattato, hanno per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non è opponibile all’ ordinamento stesso. Scaturito da fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno (si tratti anche di leggi posteriori) senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità.
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 15/7/64 in causa 6/64). Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del trattato, implica, quindi, una limitazione definitiva dei loro poteri sovrani.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 24/2-7/3/64, n. 14). Viene affermato che l’art. 11 non dà alla legge ordinaria di esecuzione del Trattato di Roma forza particolare, per violazione del Trattato emerge solo la responsabilità di diritto internazionale, in caso di conflitto si applica criterio temporale (lex posterior).
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 24/2-7/3/64, n. 14): “… è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria; ma ciò non importa alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine alla efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati, non avendo l’art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il trattato, un’efficacia superiore a quella propria di tale fonte di diritto …”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1964, Costa/ENEL (sent. 24/2-7/3/64, n. 14): “… la violazione del trattato, se importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge [successiva] con esso in contrasto la sua piena efficacia. Nessun dubbio che lo Stato debba fare onore agli impegni assunti e nessun dubbio che il trattato spieghi l’efficacia ad esso conferita dalla legge di esecuzione. Ma poiché deve rimanere saldo l’impero delle leggi posteriori a quest’ultima, secondo i principi della successione delle leggi nel tempo, ne consegue che ogni ipotesi di conflitto fra l’una e le altre non può dar luogo a questioni di costituzionalità” Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1965, Acciaierie San Michele (sent. 16-27/12/65, n. 98 secondo cui diritto UE e nazionali sono ordinamenti autonomi e distinti): “La CECA [ma idem dicasi per la UE], avendo lo scopo di coordinare alcune iniziative economiche svolgentisi nel territorio di più Stati, compone un ordinamento del tutto distinto da quello interno; il quale ha riconosciuto l’ordinamento comunitario, non per inserirlo nel suo sistema, ma per rendere in questo operante la cooperazione internazionale che è nei suoi fini, e per delimitare i casi in cui ha effetti interni l’attività che gli organi della comunità sono legittimati a svolgere nella cerchia della rispettiva competenza”.
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1970, Internationale Handelsgesellschaft (sent. 17/12/70 in causa 11/70, con cui si afferma la prevalenza del diritto comunitario su qualsiasi norma nazionale, la prevalenza anche su norme costituzionali).
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1970, Internationale Handelsgesellschaft (sent. 17/12/70 in causa 11/70): “La validità degli atti emananti dalle istituzioni della Comunità può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario. Il diritto nato dal Trattato, che ha una fonte autonoma, per sua natura non può infatti trovare un limite in qualsivoglia norma di diritto nazionale senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che sia posto in discussione il fondamento giuridico della stessa Comunità”.
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1972, Commissione/Repubblica Italiana (sent. 13/7/72 in causa 48/71). Viene affermato che: il diritto statale non può pregiudicare l’applicazione del diritto comunitario; il diritto comunitario deve essere applicato simultaneamente e incondizionatamente in tutto il territorio della CE; non è accettabile la tesi secondo cui per porre termine alla violazione di una norma CE occorre ricorrere agli strumenti costituzionali degli Stati membri perché ciò equivarrebbe a dire che l’efficacia delle norme CE è subordinata alla volontà degli Stati membri di applicarla.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1973, Frontini (sent. 18-27/12/73 n. 183/73). Viene affermato che il potere normativo CE equivale ad un parziale trasferimento di competenze, che per ratifica ed esecuzione non occorre legge costituzionale e che l’art. 11 implicitamente impone il rispetto dei principi costituzionali fondamentali.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1973, Frontini (sent. 18-27/12/73 n. 183/73). Viene affermato che, in punto di garanzie del Trattato CE, è difficile che atti compatibili con esso violino principi costituzionali e che comunque la Corte costituzionale ha il diritto di giudicare della compatibilità fra Trattato e norme costituzionali interne.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1973, Frontini (sent. 18-27/12/73 n. 183/73) “Questo potere normativo compete agli organi della Comunità “per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal Trattato “; è stato così attuato da ciascuno degli Stati membri un parziale trasferimento agli organi comunitari dell’esercizio della funzione legislativa, in base ad un preciso criterio di ripartizione di competenze per le materie analiticamente indicate nelle parti seconda e terza del Trattato.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1973, Frontini (sent. 18-27/12/73 n. 183/73) “… le precise e puntuali disposizioni del Trattato forniscono sicura garanzia, talché appare difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana …” Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1973, Frontini (sent. 18-27/12/73 n. 183/73) “… in base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma – sottoscritto da Paesi i cui ordinamenti si ispirano ai principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei cittadini -, possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale,– i diritti inalienabili della persona umana …” (controlimiti) Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1973, Frontini (sent. 18-27/12/73 n. 183/73) “… qualora dovesse mai darsi all’art. 189 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali”: viene affermata la possibilità per la Corte costituzionale di giudicare illegittima la legge di esecuzione del Trattato CEE.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1975, Industrie chimiche (sent. 232/75) “Per quanto concerne le norme interne successive, emanate con legge o con atti aventi valore di legge ordinaria, questa Corte ritiene che il vigente ordinamento non conferisca al giudice italiano il potere di disapplicarle, nel presupposto d’una generale prevalenza del diritto comunitario sul diritto dello Stato. Certamente non può accogliersi la soluzione (…) di una declaratoria di nullità della legge successiva interna…”.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1975, Industrie chimiche (sent. 232/75) “… dovendosi escludere che il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche, sulla base d’un preciso criterio di ripartizione di competenze per determinate materie, “per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dai trattati” (cfr. art. 189 del Trattato di Roma), comporti come conseguenza una radicale privazione di efficacia della volontà sovrana degli organi legislativi degli Stati membri, pur manifestata nelle materie riservate dai trattati alla normazione comunitaria; tale trasferimento fa sorgere, invece, il diverso problema della legittimità costituzionale dei singoli atti legislativi.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1975, Industrie chimiche (sent. 232/75) “Non sembra nemmeno possibile configurare la possibilità della disapplicazione come effetto di una scelta tra norma comunitaria e norma interna, consentita di volta in volta al giudice italiano sulla base di una valutazione della rispettiva resistenza. In tale ipotesi, dovrebbe riconoscersi al giudice italiano non già la facoltà di scegliere tra più norme applicabili, bensì quella di individuare la sola norma validamente applicabile, ciò che equivarrebbe ad ammettere il suo’ potere di accertare e dichiarare una incompetenza assoluta del nostro legislatore, sia pur limitatamente a determinate materie, potere che nel vigente ordinamento sicuramente non gli è attribuito”.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1975, Industrie chimiche (sent. 232/75) “Ne consegue che di fronte alla situazione determinata dalla emanazione di norme legislative italiane, le quali abbiano recepito e trasformato in legge interna regolamenti comunitari direttamente applicabili, il giudice è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale”.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) -1976 (sent. 182/76). Viene affermato che le norme CE abrogano ogni eventuale incompatibile normativa statale o regionale preesistente e vincolano l’esercizio dell’attività legislativa–amministrativa delle Regioni, anche a statuto speciale.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1977 (sent. 22-29/12/77 n. 163/77). Viene affermata l’abrogazione, se la legge italiana è anteriore e, se posteriore, l’illegittimità per contrasto con l’art. 11 Cost. “[disposizioni di regolamenti CE] hanno rispettivamente determinato l’implicita abrogazione delle anteriori disposizioni, con esse incompatibili e confliggenti, … che saranno pertanto disapplicate dal giudice a quo, senza che qui occorra dichiararne l’illegittimità costituzionale.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1977 (sent. 22-29/12/77 n. 163/77). Viene affermata l’abrogazione, se la legge italiana è anteriore, se posteriore, l’illegittimità per contrasto con l’art. 11 Cost. “Deve invece pronunciarsi … la incostituzionalità, in riferimento all’art. 11 Cost., della successiva legge …, emanata in contrasto con le disposizioni degli artt. 19, n. 2 e 22 del regolamento n. 804/1968, nonché con i principi sanciti dagli articoli 9, 12, 13 e 95 del trattato di Roma”.
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1978, Simmenthal (sent. 9/3/78 in causa 106/77). Viene riaffermata la dottrina monista: “In forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni … hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli stati membri, non solo di rendere ipso jure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli stati membri – di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie.”
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1978, Simmenthal (sent. 9/3/78 in causa 106/77). La dottrina monista viene riaffermata: “Il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della Comunità, – altrimenti incompatibili col diritto comunitario, equivarrebbe infatti a negare … il carattere reale d’impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità.”
Corte di giustizia UE (impostazione monista) – 1978, Simmenthal (sent. 9/3/78 in causa 106/77). La dottrina monista viene riaffermata “Il giudice nazionale, incaricato di applicare … le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere – attendere la previa rimozione in via legislativa– mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170). Viene affermata la prevalenza in ogni caso del diritto CE, non si distingue più fra leggi anteriori – posteriori alle norme CE, è abbandonata la tesi della incostituzionalità.
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170). “Quando, poi, vi sia irriducibile incompatibilità fra la norma interna e quella comunitaria, è quest’ultima, in ogni caso, a prevalere. Tale criterio opera, tuttavia, diversamente, secondo che il regolamento segua o preceda nel tempo la disposizione della legge statale. Nel primo caso, la norma interna deve ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento comunitario, la quale andrà necessariamente applicata dal giudice nazionale. Tale effetto caducatorio, com’è stato avvertito nelle più recenti pronunzie di questa Corte, è altresì retroattivo, quando la norma comunitaria confermi la disciplina già dettata – riguardo al medesimo oggetto, e prima dell’entrata in vigore della confliggente norma nazionale – dagli organi della CEE.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) -1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170). “In questa evenienza, le norme interne si ritengono, dunque, caducate sin dal momento al quale risale la loro incompatibilità con le precedenti statuizioni della Comunità, che il nuovo regolamento ha richiamato. Diversa è la sistemazione data fin qui in giurisprudenza all’ipotesi in cui la disposizione della legge interna confligga con la previgente normativa comunitaria. È stato invero ritenuto che, per il fatto di contrastare tale normativa, – anche di derogarne– di riprodurne il contenuto, la norma interna risulti aver offeso l’art. 11 Cost. e possa in conseguenza esser rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170) “… Vi è un punto fermo nella costruzione giurisprudenziale [della Corte cost.] dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno: i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170) “… Le norme poste da tale atto sono, invero, immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria. Esse non devono, né possono, essere riprodotte– trasformate in corrispondenti disposizioni dell’ordinamento nazionale. La distinzione fra il nostro ordinamento e quello della Comunità comporta, poi, che la normativa in discorso non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti aventi forza di legge) dello Stato.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170) “… le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore – successiva.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) -1984, Granital (sent. 5-8/6/84 n. 170) “… [l’effetto delle norme CE] è perciò quello, non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall’abrogazione, – da alcun altro effetto estintivo – derogatorio, che investe le norme all’interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta – è stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito – nemmeno affetta da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario.”
Corte costituzionale italiana (impostazione dualista) – 1985, vari contro l’Amministrazione Finanziaria dello Stato 19/04/1985 (sent. 113/85). Viene affermato che anche le interpretazioni date dalla Corte di giustizia CE in via pregiudiziale prevalgono sul diritto interno “La normativa comunitaria entra e permane in vigore, nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato; e ciò tutte le volte che essa soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità. Questo principio vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti, come nella specie, dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia”.
8. Gli atti amministrativi incompatibili con il diritto comunitario.
Per quanto riguarda il tema in senso lato delle fonti un’attenzione particolare merita, da un lato, la questione dei rapporti tra ordinamenti giuridici che comunque presenta sempre profili di attualità e, dall’altro lato, la classica questione dell’atto amministrativo adottato in contrasto con il diritto comunitario e, quindi, l’invalidità comunitaria e la conclusione cui giunge la giurisprudenza in base alla quale l’invalidità comunitaria dà luogo all’annullabilità; in tal caso non è richiesto un trattamento particolare e il rimedio è quello che viene normalmente predisposto dal diritto interno le violazioni della legge nazionale.
Si ricordi che, laddove il diritto comunitario non preveda una disciplina processuale specifica e quindi il rimedio processuale che consegue alla violazione di una norma che attribuisce a livello comunitario ai privati posizioni giuridiche sostanziali si apre poi una questione di tutela, quindi questione processuale; in materia processuale i due principi che, da sempre, anche la Corte di Giustizia ha enunciato sono quelli di equivalenza e di effettività.
Quindi gli Stati devono garantire, da un lato, una tutela che sia equivalente e quindi non discriminatoria, senza sottoporre l’invalidità comunitaria ad un trattamento deteriore rispetto a quello a cui è sottoposta l’invalidità nazionale, prevedendo ostacoli o termini ridotti e, dall’altro, il principio di effettività della tutela nel senso che, laddove l’ordinamento nazionale riservasse alle violazioni dell’ordinamento nazionale un rimedio non effettivo, non adeguato, comunque il diritto comunitario richiede una sorta di “discriminazione alla rovescia”, nel senso che per le violazioni del diritto comunitario si deve garantire comunque l’effettività della tutela, anche al costo di sacrificare l’equivalenza e, quindi, di introdurre un rimedio differenziale.
Il problema si è posto, soprattutto in passato, all’attenzione della giurisprudenza con riferimento alla impugnazione dei bandi di gara, quando era stata sostenuta la tesi secondo cui la violazione del diritto comunitario da parte del bando, quindi il bando comunitariamente illegittimo, sarebbe stato sottoposto ad un regime di invalidità più grave rispetto a quello che caratterizza l’invalidità nazionale, sostenendosi la tesi della nullità, altre volte della disapplicabilità della clausola del bando illegittimo.
A sostegno, del resto, di questi orientamenti che miravano a sottoporre l’invalidità comunitaria dell’atto amministrativo ad un trattamento diverso rispetto alla mera annullabilità vi era anche l’idea, assai suggestiva, in forza della quale si osservava che, del resto, il diritto comunitario, come apparato normativo, è caratterizzato dal principio di primazia. Il principio di primazia significa che il diritto comunitario si impone e prevale sul diritto interno, si impone e prevale sulla legge nazionale, si impone e prevale anche sulle norme costituzionali, tranne quelle che siano espressione dei cosiddetti controlimiti, quindi dei principi fondamentali dell’ordinamento, che eventualmente tutelino diritti fondamentali della persona; tale principio di primazia, quindi, si impone in modo tale da giustificarne direttamente la disapplicazione, da parte non solo del giudice ma anche dell’amministrazione e sistema di disapplicazione diffusa della legge, addirittura delle norme della Costituzione che siano in contrasto con il diritto comunitario.
E allora l’osservazione che si affacciò era sostanzialmente questa: è mai possibile che il diritto comunitario consenta, anche in deroga ad un sistema che conosce per previsione costituzionale il sindacato di costituzionalità accentrato e che quindi non consente al giudice di disapplicare la legge[12] e, invece, quando si tratta di atto amministrativo comunitariamente invalido lo stesso si ritrova ad avere una capacità di resistenza alla forza del diritto comunitario, che, raffrontata a quella della legge sarebbe superiore perché sarebbe un atto provvisoriamente efficace fino a quando non viene impugnato ed annullato nel breve termine di decadenza decorso il quale l’atto finirebbe per consolidarsi.
E allora, proprio sulla base di questa suggestione, anche basata su questa apparente contraddizione, che un atto amministrativo non può avere una capacità di resistenza al diritto comunitario superiore a quella che ha la legge o la Costituzione, si diceva che bisognasse individuare un rimedio diverso, onde evitare che quelle violazioni del diritto comunitario potessero consolidarsi allo scadere del termine di decadenza.
Questa soluzione è stata poi superata dalla giurisprudenza e anche avallata dalla giurisprudenza sovranazionale, cioè dalla Corte di giustizia.
Sono due aspetti differenti cioè un conto è l’antinomia normativa, il contrasto norma-norma, ovvero il contrasto tra una norma comunitaria ed una norma del diritto nazionale, ovvero tra due previsioni generali e astratte, altro è il contrasto tra una norma ed un atto amministrativo; sono due situazioni differenti e il contrasto tra la norma e l’atto amministrativo si risolve con il rimedio giurisdizionale previsto dallo Stato membro.
Del resto si rileva che, già osservando i Trattati, gli stessi prevedono che le istituzioni comunitarie adottino atti amministrativi comunitariamente validi e consentono agli Stati -e talvolta alle persone direttamente colpite- di impugnare questi atti amministrativi dinnanzi al giudice comunitario prevedendo, per questa impugnazione, un termine di decadenza che i trattati declinano in due mesi.
Quindi, anche a livello comunitario emerge l’esigenza, che poi rappresenta la ratio del termine di decadenza e del regime di annullabilità, di preservare la stabilità dell’atto amministrativo, perché l’esigenza di preservare la certezza dell’azione amministrativa è un’esigenza che comunque corrisponde ad un interesse di carattere generale avvertita anche a livello comunitario.
Quindi, da un punto di vista, già questo dimostra che il diritto comunitario non esige l’introduzione, nei confronti dell’atto amministrativo comunitariamente invalido, di rimedi di tutela differenziali. E infatti l’orientamento che si è consolidato è quello secondo cui, di regola, l’atto amministrativo che violi una norma comunitaria[13] è comunque annullabile nel termine ordinario di decadenza.
Questa, del resto, è una conclusione che trova ulteriore conferma a livello nazionale nella disciplina della nullità del provvedimento. Si ricordi che il legislatore, quando ha disciplinato la nullità del provvedimento amministrativo, non ha menzionato tra le cause di nullità del provvedimento la violazione del diritto comunitario[14]. Quindi, di regola la violazione del diritto comunitario non dà luogo a nullità, a meno che, in casi particolari, la violazione del diritto comunitario dovesse ridondare in difetto assoluto di attribuzione.
Questa situazione potrebbe ricorrere laddove la violazione del diritto comunitario investisse non tanto l’esercizio del potere, ma l’esistenza stessa del potere. Sarebbero i casi in cui l’amministrazione pretendesse di esercitare un potere che il diritto comunitario esclude nell’an per cui sarebbe un potere comunitariamente incompatibile, una situazione in cui è escluso che l’amministrazione possa esercitare un determinato potere.
E allora in questo caso si potrebbe ritenere che, per effetto della disapplicazione della norma attributiva del potere, quell’atto venga emanato in difetto assoluto di attribuzione per cui si potrebbe ipotizzare una forma di nullità; si tratta però di casi particolari e non ricorrenti frequentemente nella pratica. A livello comunitario, per quanto riguarda in particolare l’impugnazione dei bandi, la conclusione della mera annullabilità è stata confermata anche dalla Corte di Giustizia.
Qui la sentenza che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento è la sentenza sul caso cosiddetto Santex[15], che risponde ad una questione pregiudiziale sollevata da un giudice italiano, il Tar Lombardia che, appunto, propugnava la tesi della diversità dei rimedi.
E lì la Corte di Giustizia, richiamando il principio di equivalenza e di effettività della tutela afferma che il principio di equivalenza è rispettato, perché il ricorso contro l’atto, anche il bando comunitariamente invalido, è sottoposto allo stesso trattamento che vale per l’atto nazionale, quindi il principio di equivalenza è certamente rispettato.
Il problema è poi anche di comprendere se il principio di primazia possa in qualche modo scalfire la stabilità del giudicato, in ipotesi anti comunitario. Questo è un tema che pure viene risolto affermando il principio in base al quale il diritto comunitario non incide sul regime di stabilità degli atti nazionali, compresi quelli giurisdizionali (anzi, a maggior ragione quelli giurisdizionali).
Il diritto comunitario riconosce la forza del giudicato, la rispetta e non impone la disapplicazione del giudicato o la rimozione del giudicato. Non impone la introduzione di rimedi extra ordinem, specifici, che il diritto interno non conosca in via generale per rimuovere un giudicato anti-comunitario. Questo la giurisprudenza ha avuto modo di chiarirlo in vari momenti, in varie fasi.
Il problema si era aperto in realtà in maniera dirompente quando, in una prima fase, la famosa sentenza Lucchini[16], in materia di aiuti di stato, sembrava aver superato questo principio di stabilità del giudicato. Si trattava in particolare di una sentenza del giudice civile che, ormai passata in giudicato, riconosceva ad un’impresa un contributo che era stato già qualificato come aiuto di stato illegittimo da una precedente decisione della Commissione europea. Quindi era proprio un giudicato anti comunitario, nel senso che ignorava questa precedente decisione della Commissione. Quindi, in base al giudicato l’impresa aveva il diritto di ricevere una somma che per la Commissione non poteva ricevere in quanto aiuto di stato incompatibile. Questa impresa chiede l’esecuzione e nasce il problema della compatibilità del giudicato per cui viene sollevata questione pregiudiziale.
In quella occasione la CGUE disse che il principio di primazia giustifica la disapplicazione del 2909 cc, cioè della disposizione che descrive la stabilità del giudicato. Questo all’inizio sconvolge gli operatori del diritto perché si pensava “caspita, questo principio di primazia travolge il giudicato che rappresenta tradizionalmente un limite a tutto, anche alla dichiarazione di illegittimità costituzionale”[17]. In realtà poi la CGUE ha circoscritto questo parametro, questo orientamento, giustificandolo come un’eccezione derivante dalla circostanza che la materia interessata da questo giudicato è particolare, trattandosi di aiuti di stato. Una materia in cui il Trattato riserva alla Commissione una competenza esclusiva che prevale anche sulle funzioni giurisdizionali degli Stati. Quindi, in materia di aiuti di stato, essendoci una competenza esclusiva della Commissione, questa non può essere menomata dagli Stati neanche nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Quindi, è proprio l’esclusività della competenza che caratterizza questa materia a giustificare eccezionalmente quella forma di disapplicazione. Detto in altri termini, nessuno può interferire sulle decisioni in materia di aiuti di stato, neanche attraverso le decisioni giurisdizionali.
9. Punti fermi sul tema dei controlimiti.
Ebbene, il tema dei controlimiti si pone rispetto a tutte le fonti internazionali, in quanto ogni fonte internazionale ha dei controlimiti diversi a seconda della collocazione che la fonte ha nella Costituzione. Quindi, il diritto comunitario ha, come controlimiti, il nocciolo duro (diritti inalienabili della persona). Gli altri trattati internazionali, come dice la Corte costituzionale, hanno tutte le norme della Costituzione. C’è una differenza quantitativa. Oggi, i principali problemi dei controlimiti si pongono rispetto a diritto comunitario e CEDU, che sono le fonti internazionali maggiormente pervasive.
Rispetto alle consuetudini internazionali generalmente riconosciute pure lì, raramente, si pone un problema di controlimiti. Le consuetudini internazionali generalmente riconosciute vengono richiamate dall’art. 10 della Costituzione. Ancora una volta, come controlimiti, operano soltanto i principi fondamentali inalienabili. In teoria, una consuetudine internazionale generalmente riconosciuta da tutti gli stati, da tutta la comunità internazionale, non si potrebbe immaginare che violi dei principi fondamentali, costituzionali di uno Stato.
In realtà, la questione si è posta con riferimento alla tutela giurisdizionale contro lo stato straniero autore di gravi crimini di guerra lesivi di diritti umani. Si fa riferimento, ad esempio, alle azioni intentate da cittadini italiani deportati nei campi di concentramento, che chiedevano risarcimento per i crimini patiti durante il nazismo; risarcimenti che venivano inizialmente accordati. Poi ci fu la decisione della Corte internazionale di giustizia che affermò “non lo potete fare perché c’è l’immunità dello stato perché sono atti iure Imperi e sono coperti da immunità”.
Il legislatore ha adottato una legge che escludeva la proponibilità di queste azioni e che prevedeva anche l’ineseguibilità dei giudicati nel frattempo intervenuti. La questione fu portata all’attenzione della Corte costituzionale. La Corte costituzionale, in quell’occasione, affermò che la consuetudine internazionale sull’immunità giurisdizionale degli stati non può coprire gli atti che siano gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona perché c’è un problema di controlimite. E ha affermato che una norma consuetudinaria, se veramente esistesse così, nel nostro ordinamento non potrebbe entrare perché ci sarebbe questa barriera, questo sistema di tutela preventiva contro le consuetudini internazionali che possono eccezionalmente ledere i diritti fondamentali della persona.
Oltre questo precedente importante, ma molto particolare, invece il problema dei controlimiti è frequentissimo per diritto UE e CEDU sebbene si ponga in maniera molto diversa.
Ciò accade sia perché UE e CEDU hanno una diversa collocazione costituzionale, per cui sono diversi i controlimiti, sia perché opera una differenza quantitativa.
C’è poi anche una differenza di approccio, qualitativa. La CEDU è semplicemente una convenzione sui diritti umani, tutela i diritti umani, si ispira alla clausola della maggior tutela. Già questo potrebbe rendere difficile immaginare un problema di controlimiti rispetto ad una convenzione che mi dice “io ti dò un livello minimo di tutela, li vuoi tutelare di più? Fallo pure non è un mio problema”.
Il problema si pone perché noi sappiamo che i diritti umani non sono in scala, ma sono spesso equi ordinati tra loro. Quindi esiste un problema di bilanciamento. Quando dai spazio ad uno devi sempre sacrificare qualcos’altro. C’è poi un problema di bilanciamento di valori. Questo bilanciamento può essere fatto in maniera diversa a livello sovranazionale e a livello nazionale, costituzionale.
I conflitti nascono perché a volte c’è un diverso bilanciamento, c’è un diverso punto di equilibrio, per cui esiste questo problema di attrito con la CEDU che deriva semplicemente da un diverso bilanciamento di diritti.
Ebbene, se questo conflitto non dovesse essere superato in relazione a quel bilanciamento che la CEDU impone, in maniera da sacrificare un valore costituzionale oltre una soglia di rinunciabilità, si dovrebbe affermare che la CEDU è incostituzionale. Si dovrebbe dichiarare incostituzionale quella legge sulla cui base la CEDU vuole entrare tramite l’interpretazione fornitane dalla Corte UE.
I meccanismi per disinnescare questo conflitto sono due:
- da un lato, negare che quello è un orientamento consolidato perché la Corte costituzionale ha detto chiaramente che la CEDU vincola se è espressione di diritto vivente (orientamento consolidato). Se non è orientamento consolidato c’è il principio che il giudice è soggetto soltanto alla legge (vedi Caso Varvara);
- dall’altro, valorizzare la differenza tra Corte EDU e Corte costituzionale, tra giudizio di costituzionalità e giudizio dinanzi alla CEDU.
Si ricordi che il giudizio dinanzi alla CEDU è sempre un giudizio del caso concreto. Si va alla CEDU dopo aver esperito i mezzi interni, ovvero un individuo lamenta che, nel caso concreto, è stato violato un diritto umano.
Qui la Corte afferma che anche laddove la sentenza della CEDU sia effettivamente espressione di diritto vivente o di un orientamento consolidato, però non c’è dubbio che nel passaggio dal caso concreto al sistema, che è il passaggio che avviene quando prima si decide di un caso singolo e poi decide se espellere per sempre una norma dall’ordinamento giuridico, non c’è dubbio che la visione cambia e il giudice costituzionale, pur senza contraddire il parametro astratto indicato dalla CEDU, può però individuare in concreto quelle ragioni che soddisfano quel parametro. Ad esempio, la CEDU afferma che la legge retroattiva in materia previdenziale non va bene, a meno che non sia giustificata non da mere esigenze finanziarie, per fare cassa, ma da interessi più importanti, da finalità sociali o da esigenze solidaristiche, non solo per risparmiare le pensioni da pagare. È il caso delle c.d. pensioni svizzere in cui c’era un trattamento contributivo molto favorevole per i lavoratori che avevano maturato un periodo contributivo maturando in Svizzera. Il legislatore italiano approva una legge retroattiva di interpretazione autentica e la CEDU afferma che questa interpretazione autentica non va bene perché viola le regole del gioco e non si possono cambiare regole a processo in corso. Per la CEDU non c’è alcun valore che giustifichi questo sacrificio e lo stato italiano lo avrebbe fatto solo per risparmiare i soldi delle pensioni, per esigenze meramente finanziarie. E quindi la CEDU afferma che la legge di interpretazione autentica sulle pensioni svizzere viola il diritto all’equo processo.
Allora, si va davanti alla Corte costituzionale per la dichiarazione di incostituzionalità, la Corte potrebbe affermare che concorda con il principio della CEDU, concordando anche con il bilanciamento tra equo processo e altri valori, ma potrebbe evidenziare che la CEDU, occupandosi del caso concreto, non si rende conto, perché non ha la visione di sistema che, invece, la Corte costituzionale possiede; ad esempio la Corte potrebbe rilevare che quella legge non ha esigenze meramente finanziarie ma è volta a realizzare la perequazione, l’uguaglianza tra lavoratori, per evitare ingiuste disparità di trattamento. Quindi la finalità è perequativa, di uguaglianza sociale, e l’uguaglianza sociale, anche in base alla CEDU, può giustificare una retroattività in materia. Quindi, la Corte non dichiarerebbe la norma incostituzionale e non affermerebbe di non essere d’accordo con la CEDU.
La CEDU direbbe che vuole un interesse che non sia meramente finanziario, ma un interesse ulteriore, una finalità sociale e nel caso concreto non la vede. La Corte direbbe che quella finalità sociale che la CEDU non vede nel caso concreto, lei la vede guardando al sistema. E, quindi, si ravvisano questi due meccanismi di flessibilità che consentono alla Corte di dire quello che ha detto la CEDU mi interessa, applico il suo parametro ma, nell’applicarlo, lo adatta perché la CEDU quel parametro lo applica al caso concreto, invece lo stesso va applicato al sistema e si tratta di due valutazioni differenti.
Quindi, i controlimiti nei confronti della CEDU sono abbastanza gestibili e questo perché la CEDU tutela i diritti umani, consente di tutelarli in misura superiore e, quindi, un problema può nascere dal diverso bilanciamento che viene fatto nelle sentenze CEDU. E questo bilanciamento lo si può adattare al sistema, se non lo si condivide, oppure si può affermare che non è un orientamento consolidato. Ci sono dei meccanismi, quindi, che consentono di prevenire l’esplosione del conflitto.
Meccanismi molto diversi rispetto all’Unione europea, per varie ragioni. Infatti, l’Unione europea tutela oggi anche i diritti umani con la Carta di Nizza e, anch’essa, si ispira in teoria alla clausola della maggior tutela (si dice che nessuna disposizione preclude una maggior tutela). E, quindi, la tale clausola opera anche qui. Il problema è che l’Unione europea non si limita a tutelare i diritti umani, ma disciplina tante materie e, in quelle materie, che disciplina offre anche una tutela ai diritti umani. Allora ben può accadere che, nel disciplinare una di queste tante materie, l’Unione approvi alcune norme che contrastino con i diritti fondamentali delle costituzioni nazionali. E si potrebbe dire che in questo caso opererebbe il controlimite.
Questo è accaduto soprattutto all’estero, non in Italia e, questo, rende la questione più delicata. Non c’è dubbio che il pericolo che giustifica quella tendenza a centralizzare il controllo sui controlimiti, e quindi la riluttanza della CGUE a riconoscere alle Corti costituzionali che possono fare un controllo diffuso di tutela dei loro diritti costituzionali e, quindi, di compatibilità delle loro costituzioni col diritto comunitario, è evidentemente il rischio che questo controllo, se demandato agli stati nazionali, rischierebbe di dire che questa normativa comunitaria “da me non entra” perché lede i diritti fondamentali. Quindi, un’Europa a velocità molto differenziate, a seconda di quello che ritengono le varie Corti costituzionali. Quindi, sarebbero le Corti costituzionali le custodi dei loro sistemi e questo non garantirebbe l’uniforme applicazione del diritto unionale.
Ecco perché la CGUE è stata contraria a questo tipo di sindacato decentrato. La CGUE, nel famoso caso Melloni[18], che riguarda un caso italiano in materia di mandato d’arresto europeo, sebbene un caso semi italiano, perché il ricorrente è italiano, ma la vicenda spagnola. La Spagna ha una norma della costituzione che non consente l’estradizione in contumacia e, quindi, dice che non concede il mandato d’arresto europeo perché viola la sua Costituzione. Lì la CGUE afferma che lo Stato membro non può invocare i suoi diritti nazionali per opporsi alla disciplina comunitaria e per non eseguire il MAE. E quindi si nega che si possa invocare la clausola della maggior tutela. Poi la Corte costituzionale spagnola si adegua.
C’è questo diverso approccio che pone l’alternativa tra due opzioni. Un approccio frontale in cui si dice che sono due percorsi (quello nazionale e quello della CGUE), inconciliabili, in cui lo stato membro rivendica i suoi controlimiti e se ritiene che ci sia la violazione dichiara la incostituzionalità (della normativa comunitaria).
E un approccio maggiormente dialogico e collaborativo, come quello inaugurato dalla nostra Corte Costituzionale nel corso degli ultimi anni.
La Corte italiana ha avuto una significativa evoluzione, perché all’inizio si era completamente disinteressata del dialogo con la CGUE. All’inizio non sollevava neanche le questioni pregiudiziali ritenendo di non poterlo fare, ritenendo che la questione pregiudiziale dovesse essere sollevata dal giudice a quo, dal giudice di merito, sostenendo che fosse lui il giudice della controversia e che dovesse prima risolversi il problema comunitario e poi eventualmente andare innanzi alla Corte.
Quindi, si era autoesclusa dal dialogo con la CGUE; poi capendo che questa soluzione l’avrebbe autoesclusa dal dialogo in materia di diritti fondamentali, ha cambiato approccio affermando che poteva sollevare questioni pregiudiziali e che, quindi, il giudice a quo poteva andare anche innanzi alla Corte costituzionale, magari chiedendo ad essa di sollevare la questione pregiudiziale; poi addirittura teorizzando la doppia pregiudizialità e la priorità tendenziale e preferibile della questione di costituzionalità quando sono in gioco i diritti fondamentali.
La Corte afferma, poi, che quando sono in gioco i diritti fondamentali, quando si pensa che una certa legge possa violare diritti fondamentali che sono protetti sia dalla Costituzione che dalla Carta di Nizza, in teoria quella legge potrebbe essere disapplicata perché il diritto comunitaria giustifica la disapplicazione.
Ebbene, la Corte costituzionale afferma che, quando sono in gioco i diritti fondamentali, non c’è dubbio che se effettivamente una norma lede i diritti fondamentali, quella norma è bene che sia non disapplicata, ma eliminata con effetti erga omnes dall’ordinamento, per ragioni di certezza perché disapplicata significa che continua a vivere e potrebbe essere applicata in un’altra occasione, potrebbe riproporsi il problema. Invece, se si accerta che viola i diritti fondamentali dovrebbe preferibilmente essere dichiarata incostituzionale con effetti erga omnes.
Ecco perché la Corte afferma non solo che è ammissibile andare innanzi alla Corte anche quando la legge viola una norma comunitaria direttamente applicabile in materia di diritti fondamentali e, quindi, sarebbe disapplicabile. Un tempo avrebbe detto che è disapplicabile. Adesso la Corte costituzionale afferma di andare innanzi a lei e che quando si tratta di diritti fondamentali la strada della questione di costituzionalità dovrebbe essere prioritaria perché è meglio la sentenza con effetti erga omnes piuttosto che l’alternativa della mera disapplicazione. Impegnandosi, nel rivendicare questa priorità, ad instaurare eventualmente il dialogo con la CGUE.
Quindi ad oggi esiste una gestione condivisa e collaborativa del controlimite. L’approccio è questo oggi. Dove la Corte non può pretendere la priorità della questione di incostituzionalità serve necessariamente il dialogo. La questione di incostituzionalità non può essere obbligatoriamente prioritaria perché nessuno stato può dire che prima decide lui sui diritti fondamentali, anche quando sono in gioco i diritti fondamentali, e poi la CGUE, perché verrebbe meno un principio importante del diritto di primazia, ossia il potere di disapplicazione immediata. Quindi è un’alternativa facoltativa che la Corte può raccomandare, ma certamente, come la Corte stessa ha precisato, rimane fermo il potere del giudice a quo di fare quello che vuole. Di disapplicare, di andare alla CGUE, di andare alla Corte costituzionale e, al tempo stesso, provvisoriamente disapplicare.
La Corte costituzionale afferma quindi che è vero che si possa disapplicare, ma questo non impedisce al giudice a quo di sollevare la questione di incostituzionalità. Anzi, venendo in gioco diritti fondamentali, una situazione di doppia pregiudizialità, cioè una norma che contestualmente viola diritti tutelati sia dalla Carta di Nizza, sia dalla Costituzione, è preferibile andare innanzi alla Corte costituzionale perché la stessa può dichiararla incostituzionale con effetti erga omnes e, questo, consente di tutelare con maggiore completezza i diritti fondamentali.
10. L’adeguamento italiano agli obblighi unionali.
La Corte costituzionale, avendo giustificato, nell’art.11 Cost, la limitazione della sovranità e il primato del diritto dell’Unione, ha elaborato una teoria dei controlimiti; di quei principi nazionali che vanno necessariamente salvaguardati e che, a loro volta, limitano la prevalenza del diritto dell’Unione. Tali controlimiti comunque, come si è visto, non coincidono con tutte le norme interne costituzionali. I controlimiti, che non possono essere in alcun caso pregiudicati dal diritto dell’Unione, consistono in quei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionali e nei diritti inalienabili della persona umana che non possono essere violati in alcun modo da alcun organo dell’Unione. Ove una disposizione o un atto dell’Unione violassero un siffatto principio o un diritto umano fondamentale, il giudice comune dovrebbe sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità della legge italiana di esecuzione dei Trattati europei che contrasti con i suddetti principi fondamentali.
L’adeguamento del diritto italiano agli obblighi nascenti dal diritto dell’Unione richiede un intervento ad opera del legislatore. L’intervento è necessario per gli atti europei non direttamente applicabili. La prassi originariamente usata dal nostro Stato era quella di dare esecuzione agli atti europei, attraverso leggi che delegavano al governo l’emanazione di decreti legislativi volti a dare attuazione ad un pacchetto di direttive indicate nella legge delega. Lo strumento della delega veniva concesso sotto l’urgenza di eseguire le direttive il cui termine di attuazione era già scaduto. Il sistema era criticato perché non appariva conforme all’art.76 Cost., il quale dichiara che la delega al governo doveva contenere i criteri direttivi, doveva essere limitata nel tempo e per oggetti definiti. In realtà, però l’oggetto della delega era estremamente diversificato e il Parlamento risultava così espropriato dei suoi poteri. C’era bisogno di un sistema che abbandonasse gli interventi episodici e confusi della legge delega e assicurasse una corretta e tempestiva attuazione delle direttive, garantendo al tempo stesso il pieno rispetto della Costituzione. Una disciplina organica venne introdotta con la c.d. “legge La Pergola”; tale legge aveva un duplice obbiettivo: da un lato regolare le forme di partecipazione del Parlamento e delle regioni alla formazione degli atti, dall’altra garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Lo strumento centrale per garantire tale adempimento è la “legge comunitaria”: tale legge contiene disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. La legge “La Pergola” è stata poi più volte modificata ed infine abrogata. Venne sostituita dalla c.d. “legge Buttiglione” la quale, rispettando lo schema generale, i principi ispiratori e gli strumenti di attuazione, ne costituisce un opportuno ammodernamento. Lo strumento individuato per l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi europei resta comunque la legge comunitaria; ciò però non esclude la possibilità di adottare, al di fuori di tale legge, le norme di attuazione di specifici obblighi soprattutto in caso di complessità della materia oggetto dell’atto[19].
Ciò detto, l’attuazione del diritto dell’Unione europea comporta anche un delicato problema di riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Infatti, molto spesso, le materie oggetto degli atti europei, ricadono nella competenza legislativa delle regioni. Occorre, quindi, stabilire in quale misura alle regioni spetti l’attuazione degli obblighi del diritto europeo e quando eventualmente le loro competenze vanno coordinate con quelle dello Stato. Andavano, quindi, conciliati da un lato il principio del rispetto delle competenze regionali, dall’altro quello della responsabilità dello Stato nell’attuazione degli obblighi dell’Unione. La materia è oggi contenuta nella disciplina della “legge Buttiglione” la quale afferma che le regioni, nelle materie di propria competenza, possono dare immediata attuazione alle direttive dell’Unione. Nelle materie di competenza concorrente la legge comunitaria indica i principi fondamentali non derogabili dalla legge regionale. In caso di inerzia regionale nell’attuazione degli obblighi europei, lo Stato ha il potere di sostituirsi con una propria normativa di attuazione a partire dalla scadenza del termine, fissato per l’attuazione della normativa europea. La normativa statale di sostituzione perde poi valore nel momento in cui entra in vigore quella regionale, in ragione del carattere cedevole delle disposizioni in essa contenute. Da tale legge, è stato poi stabilito, un “diritto di rivalsa” dello Stato per gli oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi derivanti dall’Unione europea a causa della mancata emanazione della normativa regionale di attuazione. Questo diritto di rivalsa si comprende per il fatto che di fronte all’Unione europea, l’unico soggetto responsabile è lo Stato, anche se l’inadempimento sia dovuto ad altri enti pubblici. Alcune regioni hanno addirittura previsto l’adozione di una “legge comunitaria regionale”, come per esempio il Friuli Venezia Giulia, contenente disposizioni sulla partecipazione di tale regione al processo normativo dell’Unione e sulle procedure di esecuzione degli obblighi derivanti da quest’ultima.
Gli ultimi orientamenti della Corte costituzionale[20] segnano la distanza rispetto al rinvio pregiudiziale del caso Taricco[21]. Non si rinviene più la “minaccia” dei controlimiti e un atteggiamento da “prova di forza”, mascherata dai diversi richiami all’improbabilità delle dissonanze, ma si percorre la strada del dialogo. La questione di costituzionalità e quella pregiudiziale vengono lette in una prospettiva di implementazione del contributo delle Corti costituzionali nazionali e della Corte di giustizia alla formazione delle tradizioni costituzionali comuni, ciascuna nel rispetto delle rispettive competenze. Il rinvio pregiudiziale, qualora acquisisse a pieno titolo il ruolo di strumento di dialogo tra Corti, andrebbe valutato anche nella prospettiva di una sua utile attivazione, al fine di scongiurare la minaccia dei controlimiti.
Il rinvio pregiudiziale dimostra, quindi, tutta la sua utilità e, probabilmente, potrebbe fornire ulteriori spunti di argomentazione e di analisi alle Corti ove fosse inteso in una prospettiva non meramente “unidirezionale” e “ascendente”, ma anche “discendente” o “bidirezionale”; si potrebbe ipotizzare, in tale caso, la possibilità per la Corte di giustizia di rivolgersi al giudice costituzionale nazionale al fine di ottenere un’interpretazione qualificata dei principi supremi nello specifico ordinamento
Il dialogo, quando se ne faccia un uso accorto, non potrà annullare del tutto il rischio che il controlimite possa essere attivato. Il controlimite vero, difensivo, quello che “fa paura”, resta lì sullo sfondo, tuttavia rientra nella leale cooperazione tra Corti la scelta di utilizzare tutti i mezzi a disposizione per far sì che questa minaccia possa veder ridotte al minimo le probabilità di trovare esplicazione nella realtà[22]
BARILE P., Rapporti tra norme primarie comunitarie e norme costituzionali e primarie italiane, in Comunità int., 1966, p. 14.
BIN R., È scoppiata la “terza guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi.it, 18 novembre 2020
BIN R., PITRUZZELLA G., Diritto costituzionale, ed. Giappichelli, Torino, ult. ed.
CARTABIA M., “Unità nella diversità”: il rapporto tra la Costituzione europea e le Costituzioni nazionali, in Il diritto dell’Unione europea, n. 3/2005, p. 585
DOGLIANI M., Massa Pinto I., Elementi di diritto costituzionale, ed. Giappichelli, Torino, 2015.
DOLSO G.P., I controlimiti “comunitari” tra passato e presente, in Nomos, n. 2/2017, pp. 2-27
ESPOSITO M., I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Osservatorio AIC, n. 1/2017, pp. 4
FARAGUNA P, Ai confini della Costituzione. Principi supremi e identità costituzionale, Milano, 2015, p. 46.
LO CALZO A., “Dagli approdi giurisprudenziali della Corte costituzionale in tema di controlimiti alle recenti tendenze nel dialogo con le Corti nel contesto europeo”, in Federalismi.it, 13.01.2022
MANGIAMELI S., L’esperienza costituzionale europea, Roma, 2008, p. 32;
PALADIN L., Diritto costituzionale, CEDAM, Padova, ult. ed.
PERLINGIERI P., Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 1992, pp. 68-72;
VIOLINI L., Tra il vecchio e il nuovo. La sentenza Lissabon del Bundesverfassungsgericht alla luce dei suoi più significativi precedenti: Solange, Maastricht, Bananen, in AA.VV., La sentenza del Bundesverfassungsgericht sulla costituzionalità del Trattato di Lisbona e i suoi effetti sulla costruzione dell’Unione europea, in Astrid Online, 2009, p. 57;
[1] C.d. “disapplicazione” della normativa nazionale contrastante
[2] Legge della regione Abruzzo n. 14 del 2004
[3] Il termine “controlimite”, infatti, è stato coniato in dottrina, mentre la Corte costituzionale solo in casi isolati se ne è servita in maniera espressa. In giurisprudenza si è generalmente preferito far riferimento al concetto di “principi supremi”. Sulla genesi del termine “controlimiti” si rimanda a P. BARILE, Rapporti tra norme primarie comunitarie e norme costituzionali e primarie italiane, in Comunità int., 1966, p. 14.
[4] Si pensi alle note sentenze “Solange” e “Solange II” del Tribunale costituzionale federale tedesco, rispettivamente del 29 maggio 1974 e del 22 ottobre 1986. Queste due decisioni, che trovano fondamento in un sistema ormai superato di tutela dei diritti fondamentali a livello dell’Unione europea, muovono dalla rilevata insufficiente garanzia dei suddetti diritti a livello comunitario, per cui, “sino a quando” tale riconoscimento non sarà effettivo, dovrebbe sempre essere ammesso il rinvio al Bundesverfassungsgericht al fine di verificare se la norma europea, così come interpretata dalla Corte di giustizia, sia applicabile e non in contrasto con uno dei principi fondamentali della Costituzione. La seconda decisione, mitigando la portata della prima, sospende in un certo senso il controllo “sino a quando” i diritti fondamentali saranno protetti nel quadro del diritto comunitario. Sul punto si vedano P. PERLINGIERI, Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 1992, pp. 68-72; S. MANGIAMELI, L’esperienza costituzionale europea, Roma, 2008, p. 32; L. VIOLINI, Tra il vecchio e il nuovo. La sentenza Lissabon del Bundesverfassungsgericht alla luce dei suoi più significativi precedenti: Solange, Maastricht, Bananen, in AA.VV., La sentenza del Bundesverfassungsgericht sulla costituzionalità del Trattato di Lisbona e i suoi effetti sulla costruzione dell’Unione europea, in Astrid Online, 2009, p. 57; P. FARAGUNA, Ai confini della Costituzione. Principi supremi e identità costituzionale, Milano, 2015, p. 46.
[5] Per un maggiore approfondimento sulle vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale italiana in materia di controlimiti rispetto al diritto dell’Unione europea si veda G.P. DOLSO, I controlimiti “comunitari” tra passato e presente, in Nomos, n. 2/2017, pp. 2-27
[6] Secondo quello che M. CARTABIA, “Unità nella diversità”: il rapporto tra la Costituzione europea e le Costituzioni nazionali, in Il diritto dell’Unione europea, n. 3/2005, p. 585, definisce un “primato con riserva”.
[7] A. LO CALZO, “Dagli approdi giurisprudenziali della Corte costituzionale in tema di controlimiti alle recenti tendenze nel dialogo con le Corti nel contesto europeo”, in Federalismi.it, 13.01.2022
[8] Le criticità emerse all’esito della “vicenda Taricco”, soprattutto nelle sue prime fasi, hanno costituito anche l’occasione per tornare a riflettere su alcuni aspetti di carattere “sistemico” concernenti l’adesione dell’Italia all’Unione e le limitazioni di sovranità necessarie a tal fine secondo l’art. 11 Cost. In particolare, è stato sostenuto che, nella misura in cui il Trattato sia idoneo ad apportare rilevanti modifiche sul piano dell’ordinamento costituzionale, la Corte dovrebbe affrontare la questione non più dal solo punto di vista della “consuetudine” interpretativa collegata all’art. 11 Cost., bensì del procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 Cost. che non ammetterebbe deroghe. Si veda M. ESPOSITO, I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Osservatorio AIC, n. 1/2017, pp. 4
[9] Art. 32, comma 1, della CEDU
[10] Sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow
[11] Art. 10 Cost., 1° comma: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”
Art. 11 Cost.: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”
[12] Tanto meno alla pubblica amministrazione
[13] O la violi direttamente o la violi indirettamente nel senso che comunque può violare, come a volte accade, una norma interna, che a sua volta rappresenta il recepimento di una norma comunitaria
[14] Si fa riferimento alla mancanza degli elementi essenziali, al difetto assoluto di attribuzione, alla violazione o elusione del giudicato o agli altri casi di nullità testualmente previsti dalla legge
[15] Sentenza della Corte di Cassazione (Sesta Sezione), 27 febbraio 2003
[16] Corte giust., 18 luglio 2007, C-392/14
[17] Tranne in materia penale quando la sentenza di incostituzionalità opera in bonam partem, quindi si tratta di un giudicato di condanna, ma in materia civile è pacifico che il giudicato resiste
[18] Del 26 febbraio 2013, C-399/11
[19] Il procedimento di elaborazione della legge comunitaria: prende avvio con la verifica, da parte del presidente del Consiglio o del ministro delle politiche europee, dello stato di conformità dell’ordinamento italiano e degli indirizzi di politica governativa agli obblighi europei. La stessa verifica viene compiuta dalle regioni e provincie autonome, nelle materie di loro competenza. Di seguito il Presidente del Consiglio di concerto con i ministri interessati, entro il 31 gennaio di ogni anno presenta al Parlamento un disegno di legge recante “disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle comunità europee”. Il contenuto della legge comunitaria reca disposizioni: che abrogano o modificano norme statali in contrasto col diritto dell’Unione europea. Le disposizioni che danno esecuzione agi atti dell’Unione; disposizioni che autorizzano il governo ad attuare in via regolamentare le direttive, anche nelle materie già disciplinate in delegificazione ma non coperte da riserva di legge assoluta; disposizioni che conferiscono al governo la delega per l’attuazione di tali atti e disposizioni occorrenti per dare attuazione ai trattati internazionali conclusi nel quadro delle relazioni esterne dell’Unione europea.
[20] Ad esempio ordinanza del 30 luglio 2020, n. 182
[21] Come è stato osservato in dottrina, non mancano casi recenti in grado innescare una nuova “tensione” tra Corti. Ad esempio, per quanto concerne alcuni recenti rinvii pregiudiziali presentati dalla Corte di Cassazione per questioni sollevate nell’ambito di un ricorso “per difetto di giurisdizione” ex art. 111, comma 8, Cost. avverso le decisioni del Consiglio di Stato che facciano applicazione di criteri difformi rispetto a quelli elaborati dalla Corte di giustizia (Cass., S.U., 18 settembre 2020, n. 19598). In caso di intervento della Corte di giustizia in una questione puramente interna non è da escludere che possano riemergere le “incomprensioni” che sono state alla base della vicenda Taricco, aprendo così una nuova stagione dei controlimiti. Cfr., in maniera prevalentemente critica, R.
BIN, È scoppiata la “terza guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi.it, 18 novembre 2020,
[22] F. Lo CALZO, Dagli approdi giurisprudenziali della Corte costituzionale in tema di controlimiti alle recenti tendenze nel dialogo con le Corti nel contesto europeo, in Federalismi.it, 13.01.2021
Nessun tag inserito.