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«1. In caso di parto plurimo, i periodi di riposo sono raddoppiati e le ore aggiuntive rispetto a quelle previste dall’articolo 39, comma 1, possono essere utilizzate anche dal padre».

Occorre innanzi tutto osservare che i periodi di riposo di cui all’articolo 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale, cui si riconnettono:

– sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione, non solo individualmente, ma anche socialmente fondamentale;

– sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva.

In tal senso, l’esercizio della funzione genitoriale tende, da un lato, alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori (nel caso di specie, nel primo anno di vita), ma, da altro lato, costituisce anche espressione del diritto “proprio” dei genitori – e di ciascuno di essi – ad accompagnare la crescita del figlio, quale espressione della loro personalità.

Innanzi tutto, la compresenza delle due tipologie di diritto è ben rilevabile nell’articolo 30, primo comma, della Costituzione, che prevede il “dovere e diritto dei genitori (di) mantenere, istruire ed educare i figli”, in tal modo rimarcando il rango costituzionale, in un tutto armonico ed inscindibile, sia del diritto del figlio (desumibile dal dovere dei genitori nei suoi confronti), sia del diritto di ciascuno dei genitori.

I doveri dei genitori sono dunque non solo strumentali all’assistenza del bambino, per assolvere la propria funzione genitoriale, ma hanno anche un fondamento autonomo, collegato alla espressione della personalità.

I diritti del bambino e quelli di ciascuno dei genitori sono riconducibili ai diritti inviolabili dell’uomo, che l’articolo 2 della Costituzione riconosce e tutela “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.

Non può, dunque, essere condiviso quanto sostenuto dall’Amministrazione appellante, secondo la quale “se la madre è ‘casalinga’, un genitore strutturalmente è presente in casa, con ciò soddisfacendo in radice quei bisogni a cui l’istituto in parola, quale misura ausiliativa non dei genitori ma del bambino, è preordinato”.

Inoltre, i periodi di riposo di cui all’articolo 39 del d. lgs. n. 151/2001 hanno natura non di “beneficio” concedibile dall’Amministrazione, bensì di diritto, e non possono essere riferiti ad un “istituto contrattuale a tutela della genitorialità” (come sostenuto dall’ordinanza di rimessione).

I periodi di riposo di cui all’articolo 39, infatti, sono previsti da una fonte primaria, in attuazione dei sopra richiamati parametri costituzionali, il che esclude la natura “eccezionale” della disposizione e la conseguente necessità di una sua interpretazione restrittiva (come invece richiesto dall’Amministrazione).

8.3. Ciò che, dunque, distingue la posizione della madre da quella del padre non è l’esclusività della titolarità del diritto in capo alla prima – di modo che la titolarità paterna dei diritti si porrebbe come subalterna o derivata da quella della madre – quanto la modalità di esercizio del medesimo.

Poiché il diritto-dovere di “mantenere, istruire, educare i figli” è posto dalla Costituzione in capo ad entrambi i genitori, la titolarità dei singoli diritti – teleologicamente orientati all’attuazione del valore costituzionalmente tutelato dall’articolo 30 – non può che essere riconosciuta pariteticamente ad entrambi, ferma, come è ovvio, la titolarità in capo alla madre di quei distinti diritti che propriamente si riconnettono alla esclusività della funzione biologica ed alla sua tutela (poiché la tutela della maternità trova una sua specifica ed autonoma previsione di tutela nell’articolo 31, comma secondo, Cost.).

Sul piano del concreto esercizio, invece, in presenza di una sola possibilità di fruizione dei periodi di riposo (il cui “peso” grava comunque sul datore di lavoro), il legislatore riconosce, ragionevolmente, una posizione poziore alla madre nel godimento del diritto, potendo il padre goderne o nel caso in cui, essendo unico titolare della potestà genitoriale, non si pone alcuna alternatività (articolo 40, lett. a) e d), o laddove la madre sia impossibilitata (articolo 40, lett. d), ovvero ancora nel caso in cui “non se ne avvalga” (lett. b).

In tale contesto, risulta ragionevole la regola per la quale la fruizione dei periodi di riposo spetti al padre “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”.

Una volta che la legge ha riconosciuto il diritto a periodi di riposo per il genitore lavoratore dipendente (in primis per la madre, in alternativa per il padre), ed in misura non cumulabile tra i due, la non considerazione – ai fini dell’esercizio del diritto – della presenza nel nucleo familiare della madre non lavoratrice dipendente comporterebbe una irragionevole esclusione dalla titolarità (ed esercizio) del diritto del padre lavoratore dipendente.

Ciò che il legislatore ha inteso disporre, con la previsione della lett. c) dell’articolo 40, è la più completa attuazione del diritto del genitore lavoratore dipendente al periodo di riposo di cui all’articolo 39 del d.lgs. n. 151/2001.

Depone in tal senso l’espressione (“nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”), che, nella sua chiarezza lessicale, non consente interpretazioni riduttive dell’ambito dei destinatari.

In altre parole, perché si possa godere, nel caso di specie (articolo 40, lett. c), dei periodi di riposo durante il primo anno di vita del bambino da parte del padre, occorre solo il duplice presupposto che questi sia un lavoratore dipendente e che la madre non lo sia, null’altro essendo previsto dalla legge.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, l’interpretazione opposta – volta ad escludere dall’applicazione i casi in cui la madre sia ‘casalinga’ – risulterebbe in contrasto col testo della legge.

Tale esclusione, più che seguire ad una interpretazione restrittiva (comunque non consentita per le ragioni innanzi esposte), risulterebbe in contrasto col dato testuale della disposizione, non potendo l’interprete richiedere la sussistenza di un ulteriore presupposto di fatto, rispetto a quelli chiaramente indicati dal legislatore.

L’interpretazione letterale risulta coerente anche con l’esigenza di tenere conto dei principi costituzionali sulla parità tra il padre e la madre e sulla tutela del figlio.

Una volta riconosciuto alla lavoratrice madre il diritto di fruire dei periodi di riposo (articolo 39), ed affermata la parità dei genitori nella titolarità di tale diritto (poiché ne è alternativa la sola fruizione), il difetto nella madre dello status di lavoratrice dipendente, che invece si volesse ritenere necessario, finirebbe per escludere anche il lavoratore dipendente padre dalla titolarità del diritto, venendosi così a costituire una intera categoria di genitori esclusa da questa forma di tutela, in contrasto con gli articoli 3 e 30 Cost.

Il riconoscimento al padre lavoratore dipendente del diritto a periodi di riposo, anche nel caso di madre ‘casalinga’, non solo non comporta alcun “vulnus a carico delle famiglie composte da due lavoratori dipendenti”, poiché un solo diritto a periodi di riposo è comunque esercitabile da parte dei genitori, ma, al contrario, consente di realizzare in modo pieno e diffuso, nei limiti di legge, l’accesso alla misura di tutela da parte di tutti i genitori dei quali almeno uno sia lavoratore dipendente.

D’altra parte, non vi sono ragioni per distinguere, sul piano qualitativo o quantitativo e con riferimento alla posizione genitoriale, il lavoro svolto nell’ambito “domestico” o “familiare” (così meglio definendo l’attività rapportata in modo desueto alla attività della ‘casalinga’) da quello svolto dalla donna in via subordinata, o in via autonoma, né, tantomeno, è possibile disconoscere il “valore economico” dell’attività lavorativa domestica, con terminologia desueta ricondotta ai compiti della ‘casalinga’ (Cass., sez. lav, 20 ottobre 2005 n. 20324).

E’ decisivo considerare che per l’articolo 35 della Costituzione “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.

Non vi è, dunque, alcuna ragione per distinguere i lavoratori in dipendenza delle modalità di esplicazione della prestazione lavorativa, anche quando questa condizione costituisca il presupposto – come nel caso oggetto del presente giudizio – per il riconoscimento di diritti e tutele inerenti alla loro genitoriale, che trova ulteriori e specifici riferimenti nella Carta costituzionale.

Anche per tale ragione, le disposizioni contenute negli articoli 39 e 40 del d. lgs. n. 151 del 2001 non hanno natura eccezionale (e come tali non suscettibili di interpretazione analogica od estensiva), ma hanno attuato principi di rango costituzionale sui diritti del genitore lavoratore e vanno interpretati in coerenza con l’articolo 35 Cost., sulla tutela del lavoro “in tutte le sue forme”.

A fronte di ciò, non hanno rilievo le difficoltà organizzative paventate dall’Amministrazione appellante, dovendo essa applicare le disposizioni di legge.

In conclusione, l’Adunanza Plenaria, con riferimento ai primi due quesiti ad essa sottoposti, enuncia il seguente principio di diritto:

L’articolo 40, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente articolo 39, sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti, e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità”.

Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. del 28 dicembre 2022, n. 17

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