07/01/2021 – Smart working: la circolare del Gattopardo.

 L’opportunità di uno smartworking meno legato a condizioni eccessivamente stringenti (quelle previste dal DM 8.10.2021 e dalle Linee Guida, che potrebbero valere in una PA già in linea con la transizione digitale, cosa che non è) e a “percentuali” di dipendenti è data da un semplice esempio. Che faremo dopo alcune brevi considerazioni sull’attualità.

I giornali del 5.1.2022 raccontano di un Presidente del consiglio che ha chiesto al Ministro della Funzione Pubblica un ripensamento alle decisioni sullo smart working nella PA.

Tuttavia, sempre queste informazioni lasciano pensare che la montagna partorirà un topolino: una circolare di Palazzo Vidoni che sostanzialmente confermi le indicazioni già contenute nel comunicato della Funzione Pubblica del 3 gennaio 2022: cioè le norme vigenti lasciano sufficiente “flessibilità” organizzativa alle amministrazioni, posto che la prevalenza dell’attività in presenza può programmarsi non solo per periodi settimanali, ma anche mensili o ancora più lunghi.

L’idea è, dunque, che un lavoratore possa essere collocato in smart working anche per qualche mese, a condizione che comunque nel corso dell’anno poi il servizio in presenza risulti prevalente: il che permetterebbe di gestire con “flessibilità” appunto questa fase di recrudescenza della pandemia.

Tuttavia, resterebbe in ogni caso il limite del 49% massimo dei dipendenti collocabili in smart working, conseguente alla previsione della prevalenza della presenza in sede.

Di fatto, allora, se la circolare avesse realmente questi contenuti, essa sarebbe inutile: si tratterebbe della riconferma, con altre parole, delle previsioni del DM 8.10.2021, cui si aggiungerebbe un chiarimento sulla modulazione del tempo in lavoro agile (109 giorni all’anno al massimo sui 220 possibili, nella sostanza).

In un precedente post abbiamo spiegato che restando fermo l’impianto normativo dettato dal DM 8.10.2021, che impone la rotazione dei dipendenti in smart working, la “flessibilità” di cui si parla è solo un esercizio retorico, un sofisma, perchè il richiamo ad una percentuale del 51% di dipendenti che deve restare comunque in presenza annulla qualsiasi flessibilità. Non è difficile comprendere che la flessibilità è tale solo se non soggetta a vincoli e tetti percentuali prestabiliti, ma se le decisioni organizzative adeguino (in modo motivato) numeri e modalità a situazioni concrete e variabili.

La vera flessibilità è quella che attualmente esiste nel privato, che può ancora decidere di collocare anche il 100% dei dipendenti in lavoro agile e senza dover ricorrere all’appesantimento dell’accordo individuale. E’ vero che esso accordo è previsto dall’articolo 18 della legge 81/2017; ma, è altrettanto vero che questa norma la si deve ritenere utile ed operante in “tempo di pace”. Se si condiziona il lavoro agile a limiti percentuali massimi (e non minimi, come nelle norme operanti fino al 14 ottobre 2021) e alla sottoscrizione di un accordo individuale, non si permette alle amministrazioni praticamente alcuna flessibilità.

Infatti, laddove fosse opportuno collocare in smart working più del 49% dei dipendenti, da un lato una circolare che parli di flessibilità, ma mantenendo lo status quo, non serve a nulla; dall’altro, in ogni caso se i dipendenti non si prestano all’accordo, comunque la decisione del datore pubblico resta un’arma spuntata.

E veniamo all’esempio. Si ponga che un ente con 20 dipendenti sia organizzato in due divisioni, collocate in due sedi diverse, una con 14 dipendenti, l’altra con 6. Poniamo che a causa della pandemia, oggi nell’edificio con 12 dipendenti, in 4 risultino positivi e che ciò sia dovuto a contatti stretti.

Una gestione veramente flessibile indurrebbe il datore pubblico a chiedere l’immediata sanificazione dei locali e non avendo chiara la situazione di salute degli altri 10, nelle more di comprendere l’andamento del contagio, collocarli  in smart working “emergenziale”.

Ma:

  1. 10 lavoratori su 20 sono più del 49%, se si considera l’intero ente;
  2. 10 lavoratori su 14 sono ben oltre il 49%, se si considera la sola sede interessata.

Dunque, con le regole poste e il tetto del 49%, la mossa della collocazione in lavoro agile prudenziale (posto, ovviamente, che in quella sede tutte le attività possano essere rese in smart working senza pregiudizio dell’efficienza e della sicurezza dei dati) non risulta possibile.

Per altro, quel datore pubblico comunque dovrebbe sottoscrivere al volo 10 distinti accordi individuali. E se non si inventa qualcosa per farlo (per esempio, uno schema standard sottoscritto digitalmente, da sottoscrivere per adesione da parte di ciascun singolo dipendente anche da remoto,  mediante invio di mail che accetti le condizioni nel loro complesso), risulterebbe complicatissimo avere gli accordi. Oltre tutto, se qualcuno dei dipendenti non intendesse sottoscrivere l’accordo, il datore non avrebbe modo di garantire una misura che ridurrebbe il rischio non solo di tenere in ufficio persone potenzialmente contagiate, ma anche di mandarle in giro per andare e venire dalla sede, mentre magari incubano e sono già contagiosi.

In questi giorni, molti hanno osservato che le norme assestate dopo il 15 ottobre 2021, proprio perchè assicurerebbero la “flessibilità” vantata (ma, in effetti, praticamente ingessata: un ossimoro) sono più che sufficienti e che, comunque, si tratta di una materia da lasciare alla trattazione dei contratti.

Vero. Ma, allora, si dovrebbe spiegare dove risieda la coerenza nel pensare che una revisione delle regole dello smart working dell’autunno 2021, poste in essere con ogni evidenza nell’illusione che la pandemia fosse sotto controllo e che il consumo del Camogli strinato potesse essere un volano per l’economia, possa passare per l’atto meno contrattuale, meno autonomo e meno “manageriale” che esista al mondo: la circolare.

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto