14/07/2022 – Brevissime riflessioni sui servizi pubblici locali nel ddl concorrenza, tra attuazione del PNRR e “ritorno” alla “Riforma Madia”.

Sommario: 1. Le novità del ddl concorrenza ai tempi dell’attuazione del PNRR. – 2.  Un raffronto con la riforma Madia. – 3. Conclusioni.

 

  1. Le novità del ddl concorrenza ai tempi dell’attuazione del PNRR

Il Consiglio dei ministri ha, di recente, approvato il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021. Nel solco degli obiettivi prefissati dal Governo nel PNRR il disegno di legge si prefigge l’obiettivo di promuovere lo sviluppo della concorrenza, rimuovere gli ostacoli di ordine normativo e amministrativo all’apertura dei mercati, ma soprattutto intende assicurare una maggiore qualità ed efficienza dei servizi pubblici locali con norme conformi al diritto europeo. Un programma così complesso è frutto dell’intervento dell’Unione europea che ha inteso fornire un apposito sostegno agli Stati membri per fronteggiare la crisi conseguente alla pandemia. Il PNRR rappresenta, infatti, un’occasione di rilancio degli investimenti nel nostro Paese. Ciò impone la predisposizione di meccanismi di coordinamento con le amministrazioni regionali e locali. I Comuni, infatti, rappresentano i principali investitori pubblici e i settori di riforma sembrano coinvolgere in primo luogo il settore degli enti locali[1]. Tutto ciò, inevitabilmente, andrà a incidere sui servizi pubblici locali, sulla loro disciplina e sul tema della concorrenza che da oltre trent’anni rappresenta la pietra d’angolo nei sistemi di gestione e concessione.

Il Governo, con il disegno di legge deliberato nel 2021, intende intervenire nell’ambito dei servizi pubblici locali promuovendone la concorrenza, realizzando un sistema di massima trasparenza e pubblicità nell’ambito delle concessioni di beni. L’esecutivo ha previsto, inoltre, un sistema di rilevazioni dei dati al fine di garantire lo scambio di informazioni e la parità di trattamento tra gli operatori.

Il cuore della disciplina relativa ai servizi locali si rinviene agli artt. 6 ss. del ddl. L’art. 6 contiene il riferimento ai principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega volta all’adozione di un decreto legislativo (anche T.U.) in materia di servizi pubblici locali. I principi vengono indicati unitamente ai criteri, senza distinzione tra i primi e i secondi. Si opera inoltre un rinvio alla normativa vigente (es. lett. a) o una delega al Governo per l’individuazione di ulteriori criteri (es. lett. c). Ai sensi del comma 3, secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza costituzionale, il Governo in alcuni casi dovrebbe essere delegato all’adozione del decreto previa intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata (art. 8, d.lgs. n. 281 del 1997), in altri col semplice parere. Non è invece previsto un coinvolgimento del Parlamento. Benché sia contemplata una clausola di invarianza finanziaria, alcuni dei criteri sembrano suscettibili di produrre oneri (es. lett. d, l, u).

Il Governo è chiamato a individuare (e quindi ad attenersi) ai principi e criteri previsti a livello europeo e nazionale relativi alle attività di interesse generale il cui svolgimento si rende indispensabile per assicurare la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali. Molto interessante, oltre al riferimento all’accessibilità fisica ed economica, alla continuità, universalità e non discriminazione, l’orientamento della proposta di legge-delega alla garanzia dell’omogeneità dello sviluppo e alla coesione sociale e territoriale. Si prevede inoltre la razionalizzazione: 1) della distribuzione delle competenze tra enti locali e autorità amministrative indipendenti e, a livello locale, la distinzione tra funzioni regolatorie e funzioni di gestione dei servizi; 2) della disciplina concernente le modalità di affidamento e di gestione dei servizi pubblici, nonché la durata dei relativi rapporti contrattuali.

Il Governo è inoltre chiamato, per un verso, alla definizione di criteri per l’istituzione di regimi speciali o esclusivi, per altro verso, ad eliminare quei regimi speciali o esclusivi non conformi alla normativa interna ed europea e, in ogni caso, non indispensabili ad assicurare la qualità e l’efficienza del servizio. E, ancora, alla definizione dei criteri per l’ottimale organizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, anche attraverso il ricorso a incentivi e premialità – le cc.dd. “sanzioni positive”[2] – per favorire l’aggregazione delle attività e delle gestioni di servizi a livello locale. Il ricorso alla premialità si rivela importante in quanto bisogna tener conto che, almeno nelle realtà territoriali minori, è indispensabile una gestione aggregata a livello sovra-comunale. La premialità serve per l’appunto a favorire l’aggregazione delle attività e delle gestioni dei servizi a livello locale (comma 2, lettera d).  Non a caso, le disposizioni ora in esame (unitamente a quelle di cui alla lettera o), sono le sole per le quali è prevista, nell’ambito della procedura di approvazione del decreto delegato, la previa intesa in sede di Conferenza unificata.

Il Governo è poi chiamato, per quanto attiene agli affidamenti di importo superiore alle soglie di cui all’art. 35 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50[3], a prevedere una motivazione anticipata e qualificata, da parte dell’ente locale, per i casi di “autoproduzione”, cioè mancato ricorso al mercato. Inoltre, la nuova normativa dovrebbe prevedere, tra l’altro, l’obbligo dell’ente locale, in tali casi, di trasmettere tempestivamente la decisione motivata all’AGCM e ai sistemi di monitoraggio dei costi. Tuttavia, non viene attribuita alcuna specifica competenza all’Autorità garante destinata a ricevere tale documentazione. Di qui l’esigenza di valutare l’opportunità di modifiche della proposta a tal riguardo. Peraltro, non si prevede un coinvolgimento anche dell’Autorità nazionale anticorruzione, che potrebbe invece risultare opportuno tenendo conto delle finalità del sistema di monitoraggio.

La scelta di una gestione in house dovrà essere fondata su argomentazioni che tengano conto dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in autoproduzione. A tal proposito, occorre ricordare che il già menzionato T.U. in materia di società a partecipazione pubblica, all’art. 20, prevede una razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche[4]. Si pone un problema di coordinamento delle disposizioni dell’art. 20 cit. con quelle che potrebbero essere adesso introdotte. Il ddl per la concorrenza e il mercato sembrerebbe imporre all’ente locale l’obbligo di dar conto, in sede di definizione dell’analisi annuale dell’assetto complessivo delle società in cui essi detengono partecipazioni, dirette o indirette, delle ragioni che giustificano il mantenimento dell’autoproduzione anche in relazione ai risultati conseguiti nella gestione. Non pare, invece, che il ddl sia idoneo ad incidere, in funzione integrativa, sulle condizioni (elencate al comma 2 dell’art. 20 cit.) al verificarsi delle quali l’ente è tenuto a razionalizzare, fondere o sopprimere tali società. Qualora, al contrario, si ritenesse necessario incidere anche su tale aspetto, prevedendo cioè che l’ente locale sia tenuto alla razionalizzazione delle società dallo stesso partecipate per le quali non risulti conveniente il ricorso ad affidamenti in house, occorrerebbe modificare la proposta di legge.

Bisogna poi ricordare come l’articolo 192 del c.d. “Codice dei contratti” imponga già un onere rafforzato per legittimare il ricorso all’in house providing. All’articolo 192, comma 2, si dispone infatti che ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.  La Corte costituzionale (v. sent. n. 100 del 2020), nel dichiarare l’infondatezza di una questione di legittimità promossa nei confronti di tale disposizione, ha precisato che la misura di maggior rigore di cui all’art. 192 non è in contrasto con la disciplina europea. Quest’ultima, essendo diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, va intesa solo come un “minimo inderogabile” da parte degli Stati membri. Nella stessa direzione, il Consiglio di Stato (v. sent. n. 2102 del 12 marzo 2021) ha sottolineato come la motivazione rafforzata richiesta per l’autoproduzione «risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza».

La proposta di legge in esame parrebbe porsi poi in linea anche con l’art. 5 del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica che impone oneri di motivazione nel caso in cui l’ente intenda costituire una società partecipata. Nello specifico, l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica – anche nei casi di costituzione di una società mista pubblico-privata o di acquisto di partecipazioni, anche indirette, da parte di amministrazioni pubbliche in società già costituite – deve essere analiticamente motivato con riferimento alla necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali (di cui all’articolo 4 del T.U.), evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato. La motivazione deve anche dare conto della compatibilità della scelta con i princìpi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa.

In caso, invece, di ricorso al mercato si prevede la delega al Governo per l’adozione di una disciplina che assicuri un’adeguata tutela occupazionale (anche mediante l’impiego di clausole sociali[5]). Non va trascurato, infatti, che l’ingresso di nuovi operatori nel mercato e gli affidamenti competitivi possono essere ostacolati dal timore di ripercussioni sociali per la perdita di posti di lavoro (rispetto alle professionalità impegnate nella società precedente affidataria). A fronte poi di investimenti effettuati nell’interesse pubblico da parte di concessionari uscenti, potrebbe non essere possibile assicurare loro forme di adeguato indennizzo.

E, ancora, si prevede la razionalizzazione del rapporto tra la disciplina dei servizi pubblici locali e quella inerente ai rapporti negoziali di partenariato regolati dal d.lgs. n. 117 del 2017[6], in conformità ai criteri individuati dalla giurisprudenza costituzionale[7]; oltreché con la disciplina in materia di contratti pubblici e di società in partecipazione pubblica per gli affidamenti in autoproduzione.

Si prevede poi ancora la delega all’esecutivo in relazione alla revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti.

Spazio hanno tra i principi e criteri direttivi anche quelli della partecipazione e della trasparenza. Infatti, si stabilisce che debba essere razionalizzata la disciplina inerente alla partecipazione degli utenti nella fase di definizione della qualità, degli obiettivi e dei costi del servizio pubblico locale e rafforzamento degli strumenti di tutela degli utenti, anche attraverso meccanismi non giurisdizionali. E si contempla un rafforzamento – anche attraverso banche dati già esistenti – della trasparenza e della comprensibilità degli atti e dei dati concernenti la gestione dei servizi locali[8].

 

  1. Un raffronto con la “riforma Madia”

È opportuno sottolineare che molti dei principi e criteri direttivi previsti nel ddl concorrenza ricalcano quanto già si stabiliva nella legge delega n. 124 del 2015.

Quanto agli aspetti procedurali, il comma 3 definisce la procedura per l’adozione del decreto legislativo in esame. A differenza della delega di cui alla legge n. 124 del 2015 in materia di servizi pubblici locali[9], nella delega in esame: 1) non è previsto il parere delle Commissioni parlamentari; 2) non è previsto il parere del Consiglio di Stato; 3) su alcuni ambiti si richiede l’intesa, e non un mero parere, alla Conferenza unificata. Nello specifico, la procedura delineata dal comma 3, prevede la previa intesa in sede di «Conferenza di cui all’articolo 8 del decreto legislativo n. 281 del 1997» con riguardo alle disposizioni che danno attuazione ai criteri di delega di cui al comma 2, lettere d) e o) e il parere «della Conferenza medesima» sulle restanti disposizioni. Si segnala che il citato articolo 8 dispone in ordine a due distinte conferenze: la Conferenza Stato-città e autonomie locali (commi 2 e 3) e la Conferenza unificata (commi 1 e 4). Alla luce della giurisprudenza costituzionale (part. v. la già richiamata sent. n. 251 del 2016), però, il soggetto coinvolto nella procedura di adozione del testo parrebbe dover essere la Conferenza unificata.

L’intesa è richiesta sulle parti del decreto legislativo che danno attuazione ai principi e criteri di cui alle lettere d) e o) del comma 2, mentre con riguardo alle altre disposizioni (relative ai principi e criteri di cui alle a, b, c, e, f, g, h, i, l, m, n, p, q, r, s, t, u, v, z) è richiesto il mero parere. Bisogna sottolineare come alcune delle norme del ddl concorrenza investano ambiti sovrapponibili a quelli previsti dalla legge n. 124, in particolare da norme oggetto di censura costituzionale proprio per la previsione di un parere e non dell’intesa in sede di Conferenza unificata: l’individuazione e allocazione dei poteri di regolazione e controllo tra i diversi livelli di governo e le autorità indipendenti (lettera n), la distinzione tra le funzioni di regolazione e controllo e le funzioni di gestione dei servizi (lettera l), la soppressione dei regimi di esclusiva (lettera b), la revisione della disciplina dei regimi di proprietà e gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro (lettera m), l’individuazione dei criteri per la definizione dei regimi tariffari (lettera g), il coinvolgimento e la tutela degli utenti (lettere p, h e o), nonché la definizione di strumenti per la trasparenza e la pubblicizzazione dei contratti di servizio (lettera u).

Alla luce di ciò, sarebbe forse opportuno estendere gli ambiti su cui la Conferenza unificata è tenuta a sancire l’intesa, tenendo meglio conto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2016 e, nello specifico, della declaratoria di incostituzionalità rivolta alle lettere b), g), h), l), n), o), p) e u) dell’articolo 19, comma 1, della legge n. 124 del 2016, in combinato disposto con l’articolo 16, commi 1 e 411.

Quanto ai contenuti del ddl concorrenza, l’art. 6 riproduce quanto già era previsto dall’art. 19 della legge n. 124 del 2015. Le uniche novità si registrano alle lettere m), o) e p). Si prevede, infatti, l’estensione della disciplina relativa ai servizi pubblici locali, in materia di scelta della modalità di gestione del servizio e di affidamento dei contratti, anche al settore del trasporto pubblico locale. E, ancora, si contempla la razionalizzazione del rapporto tra la disciplina dei servizi pubblici locali e quella relativa all’affidamento dei rapporti negoziali di partenariato di cui al d. lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (tenendo conto degli indirizzi della giurisprudenza costituzionale) e il coordinamento della disciplina dei servizi pubblici locali con quella contenuta nel c.d. “codice dei contratti pubblici” e in materia di società a partecipazione pubblica per gli affidamenti in autoproduzione.

 

  1. Conclusioni

Da quanto si è osservato emerge, senza dubbio, l’opportunità di procedere a un riordino della disciplina in materia di servizi pubblici locali, che tenga conto della gestione delle reti, dei servizi e della proprietà e quindi delle competenze da rimettere agli enti locali. L’evoluzione storica della normativa di settore, oltre a corroborare quanto appena osservato in merito all’esigenza di una razionalizzazione a livello legislativo, mostra come si sia realizzata progressivamente, sotto l’influsso del diritto europeo, una disciplina sempre più attenta alla tutela della concorrenza.

Il disegno di legge annuale per la concorrenza e il mercato 2021 costituisce dunque l’ennesima tappa di un processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali che, in linea generale, può essere riguardato con favore. Tuttavia, come si è cercato di mostrare, non mancano delle criticità, sia sotto il profilo procedimentale (segnatamente in relazione all’esercizio della delega conferita al Governo) sia sotto il profilo contenutistico. Tali criticità emergono particolarmente da un raffronto con la legge Madia, della quale il ddl presentato alle Camere riproduce per molti aspetti il contenuto.

 

 

 

[1] A. Scavolini, Le risorse per la rinascita dell’Europa: programmi, caratteristiche, vincoli e limiti, in AA.VV., La gestione del Recovery Plan. Le Amministrazioni pubbliche tra esigenze di riforma e problemi operativi, a cura di B.G. Mattarella, L. Fiorentino, M. Cardone, Quaderni della Rivista Amministrazione in cammino, agosto 2021, 25.

[2] Per la nozione di “sanzione positiva”, v. per tutti N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Laterza, Laterza, Roma-Bari, 2007, 21 ss.

[3] In tale articolo, rubricato “Soglie di rilevanza comunitaria e metodi di calcolo del valore stimato degli appalti” si individuano specifiche soglie di rilevanza comunitaria – peraltro periodicamente rideterminate con provvedimento della Commissione europea – distinte a seconda che si tratti di: 1) appalti pubblici di lavori e concessioni; 2) appalti pubblici di forniture, di servizi, nonché concorsi pubblici di progettazione aggiudicati dalle amministrazioni aggiudicatrici che sono autorità governative centrali (indicate nell’allegato III del decreto); 3) appalti pubblici di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali; 4) appalti di servizi sociali e di altri servizi specifici appositamente elencati.

[4] Nello specifico, le amministrazioni pubbliche sono chiamate ad effettuare, con cadenza annuale, un’analisi dell’assetto complessivo delle società in cui detengono partecipazioni, dirette o indirette, predisponendo, ove ricorrano i presupposti di legge (v. art. 20, comma 2), un piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione. Ai sensi del comma 2 si specifica che i piani di razionalizzazione (da corredare con relazione tecnica che indichi modalità e tempi di attuazione dei medesimi piani) sono adottati qualora si ricada in una delle seguenti condizioni: a) partecipazioni societarie che non rientrino negli ambiti di attività che ai sensi (dell’articolo 4) del testo unico in materia di società a partecipazione giustifichino la costituzione di società pubbliche, nonché l’acquisto o il mantenimento di partecipazioni societarie; b) società che risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti; c) partecipazioni in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali; d) partecipazioni in società che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro; e) partecipazioni in società diverse da quelle costituite per la gestione di un servizio d’interesse generale che abbiano prodotto un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti; f) necessità di contenimento dei costi di funzionamento; g) necessità di aggregazione di società aventi ad oggetto le attività consentite (ai sensi del citato articolo 4 del testo unico).

[5] Quello della clausola sociale è un istituto – previsto nei bandi o negli inviti da parte della stazione appaltante – che mira alla salvaguardia dei livelli occupazionali e delle condizioni di lavoro dei lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario. L’art. 50 del citato Codice degli appalti stabilisce che per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti inseriscono, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione, da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore (di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81). I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto. I contorni dell’istituto sono stati delineati in via giurisprudenziale. In proposito, è stato affermato (ex multis, Consiglio di Stato, n. 6148 del 12 settembre 2019) come la clausola non comporti «alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata, nonché alle medesime condizioni, il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria, ma solo che l’imprenditore subentrante salvaguardi i livelli retributivi dei lavoratori riassorbiti in modo adeguato e congruo», sicché «l’obbligo di garantire ai lavoratori già impiegati le medesime condizioni contrattuali ed economiche non è assoluto né automatico»; in altra occasione (Consiglio di Stato, 16 gennaio 2020, n. 389) è stato precisato che sull’aggiudicatario non grava «l’obbligo di applicare ai lavoratori esattamente le stesse mansioni e qualifiche che avevano alle dipendenze del precedente datore di lavoro».

[6] Cfr. part. art. 56, decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. “Codice del Terzo settore”).

[7] La Corte costituzionale, nella sentenza n. 131 del 2020, ha affermato che tra i soggetti pubblici e gli enti del terzo settore si instaura (in forza dell’art. 55 del Codice del terzo settore) un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico.

[8] In materia, giova peraltro segnalare che l’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016 contiene disposizioni sulla trasparenza in relazione (anche) agli affidamenti. Il comma 1, nello specifico, dispone che tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture, nonché alle procedure per l’affidamento e l’esecuzione di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione, di concorsi di idee e di concessioni, compresi quelli tra enti nell’ambito del settore pubblico, alla composizione della commissione giudicatrice e ai curricula dei suoi componenti – ove non considerati riservati ovvero secretati – devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione “Amministrazione trasparente”. Nella stessa sezione sono pubblicati anche i resoconti della gestione finanziaria dei contratti al termine della loro esecuzione.

[9] All’articolo 16, comma 4, della legge n. 124 del 2015 si disponeva che i decreti legislativi (incluso quello sui servizi pubblici locali) sono adottati su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con i Ministri interessati, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e del parere del Consiglio di Stato, che sono resi nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere. Lo schema di ciascun decreto legislativo è successivamente trasmesso alle Camere per l’espressione dei pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari e della Commissione parlamentare per la semplificazione, che si pronunciano nel termine di sessanta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto legislativo può essere comunque adottato.

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