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Approfondimento che si pone come un percorso di ricerca delle forme di tutela civile e penale apprestabili nei confronti del fenomeno del mobbing in assenza di una disciplina positiva specifica.

L’autore ne dà  una definizione.   Da un punto di vista psico- sociologico il mobbing si può concettualmente “delimitare” come: “Una vicenda lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengano fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità. Il mobbizzato si trova nella impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente

“Una forma di terrore psicologico, caratterizzato da un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica – non occasionale ed episodica – da una o più persone, soprattutto nei confronti di un solo individuo, il quale (…) viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente almeno una volta a settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (statisticamente per almeno sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali”.

“Modalità di azione: a) isolare il lavoratore (privarlo dei mezzi di comunicazione: telefono, computer, posta; bloccare il flusso delle informazioni necessarie al lavoro, estromettendolo dalle decisioni, impedire che gli altri lavoratori gli rivolgano la parola; negare la sua presenza; comportarsi come se il mobbizzato non ci fosse, trasferirlo in luoghi isolati o comportanti lunghi tempi di percorrenza); b) discreditare il lavoratore; attacchi contro la reputazione (ridicolizzarlo, umiliarlo, attaccare le sue convinzioni religiose, morali, calunniare i membri della sua famiglia); c) ridurre la considerazione si sé del lavoratore (privarlo degli status symbol, non attribuirgli incarichi, attribuirgli incarichi inferiori o superiori alle sue competenze, simulare errori professionali anche di fronte a soggetti esterni all’impresa, ma anche critiche soggettive, applicare sanzioni amministrative senza motivo apparente e senza motivazioni; azioni di sabotaggio, ecc…); d) compromettere il suo stato di salute (diniego dei periodi di ferie o di congedo, attribuzioni di mansioni a rischio o turni massacranti, ecc…); e) cambio di mansioni; f) violenza o minaccia di violenza: in alcuni casi di cerca di determinare comportamenti incontrollati da parte del mobbizzato, in quanto tale comportamento irresponsabile della vittima può divenire un insindacabile motivo di licenziamento. Molte delle suddette azioni, possono, come facilmente intuibile, essere assolutamente “normali”, ovvero dettate da momenti contingenti, sporadici ed occasionali. In questo caso la singola azione mobbizzante non assume alcuna rilevanza giuridica o sociologica. Si parla di mobbing soltanto quando una o più di queste azioni diviene sistematica ed a lungo termine.

La casistica delle azioni di mobbing.

 Dal punto di vista della casistica delle azioni di mobbing si possono distinguere

 gli: · attacchi alla possibilità di comunicare: limitazioni alla possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, rimproveri e critiche frequenti, sguardi e gesti con significato negativo;

· attacchi ai contatti sociali: isolamento della vittima da parte della dirigenza o dei colleghi, divieto di parlare o avere rapporti con questi ultimi, assegnazione di una postazione di lavoro in una stanza lontana dagli altri;

· attacchi alla reputazione: pettegolezzi, ridicolizzazioni, calunnie, umiliazioni;

· attacchi alla situazione professionale: privazione di tutti i compiti o assegnazione soltanto di compiti insignificanti, discriminazione nella carriera, nelle ferie, nell’aggiornamento, nella postazione di lavoro, nel carico e nella qualità del lavoro, negazione di diritti contrattuali, utilizzo in modo esasperato ed esasperante del potere di controllo e del potere disciplinare;

· attacchi alla salute fisica: assegnazione di incarichi pericolosi, minacce o violenza fisica, molestie sessuali: In relazione alle possibili tipologie di mobbing la dottrina ha, invece, costruito i seguenti tipi:

· verticale: l’attività persecutoria viene esercitata da parte del superiore gerarchico nei confronti di un suo sottoposto; di solito i colleghi (side mobbers) non ostacolano il superiore e non difendono il collega per non trovarsi nella stessa situazione;

· orizzontale: tra colleghi di pari grado;

· misto: orizzontale e verticale.

 · ascendente: la persecuzione è esercitata dai subalterni nei confronti di un lavoratore gerarchicamente sovraordinato;

· strategico: attuato con lo specifico intento di allontanare definitivamente dal mondo del lavoro dipendenti considerati non più utili o indesiderati.

Gli effetti del mobbing sulla vittima sono costituiti da danni alla salute fisica e psichica, con alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo, fisiologico e comportamentale, nel quadro di quelli che gli psichiatri chiamano disturbi dell’adattamento o disturbi post-traumatici da stress. 3.

L’inquadramento normativo.

 In relazione alle fonti comunitarie, in data 16 luglio 2001, la Commissione occupazione ed affari sociali del Parlamento europeo ha presentato una relazione sul mobbing sul posto di lavoro. Il Parlamento europeo, con la Risoluzione 2001/2239(INI), del 20 settembre 2001, preso atto della tendenziale diffusività del fenomeno del mobbing in ambito comunitario e, dopo aver richiamato l’attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a termine e delle forme di lavoro precario, in particolare tra le donne, crea condizioni che favoriscono pratiche, in varia forma, di molestie, nonché sugli effetti devastanti che il mobbing può avere sulla salute fisica e psichica delle vittime e delle loro famiglie, imponendo spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e provocando di frequente ripetuti congedi per malattia e talora anche le dimissioni, ha esortato gli Stati membri:

· a rivedere e/o a completare la propria legislazione sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro;

· a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie “mobbing”;

 · ad elaborare, con l’ausilio delle parti sociali, idonee strategie di lotta contro il mobbing e le violenze sul posto di lavoro, nonché un efficace sistema di formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che pubblico. In assenza di una definizione legislativa del mobbing e di una disciplina specifica, unitaria ed organica, assumono un particolare rilievo:

· il diritto antidiscriminatorio, di derivazione comunitaria, così come recepito nei decreti legislativi nn. 215/2003 e 216/2003, per cui “le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”. Il concetto di discriminazione qui tipizzato è relativo a motivi di razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età,sesso, tendenze sessuali, lingua, credo politico, credo religioso, appartenenza sindacale, partecipazione ad attività sindacali, sieropositività (c.d. motivi di discriminazione classici, non sempre sussistenti nei casi di vessazione da mobbing).

 · la normativa in tema di sicurezza sul lavoro, dettata da ultimo dal decreto legislativo n. 81/2008. Il d.lgs. n. 81 del 2008 (come modificato dal d.lgs. n. 106 del 2009) prende espressamente in considerazione le differenze di genere quale necessario oggetto dell’azione di prevenzione dei rischi professionali; più in generale, l’art. 28, tra i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori che il datore di lavoro (ed i suoi delegati) devono espressamente e specificamente valutare, richiama anche “quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e a quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza (…) nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età ed alla provenienza da altri Paesi”; inoltre, definisce il concetto di “salute del lavoratore”, non solo come assenza di malattia o d’infermità, ma anche come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale;

· la norma generale di cui all’art. 2087 cod. civ. intitolato “tutela delle condizioni di lavoro” per cui il datore di lavoro ha l’obbligo contrattualmente assunto di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro. Si tratta di una “norma di chiusura” del sistema: pone a carico del datore di lavoro uno speciale ed autonomo obbligo di protezione della persona del lavoratore, comprensivo non solo del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dalle leggi e dai regolamenti per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ma anche dell’introduzione e manutenzione delle misure idonee, nelle concrete condizioni aziendali, a prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo per il lavoratore, derivanti da fattori naturali o artificiali di nocività o penosità presenti nell’ambiente di lavoro, e che possano incidere non solo sul profilo dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, ma altresì su quello della loro personalità morale.

4. Gli assetti giurisprudenziali.

 La definizione del mobbing fornita dalla giurisprudenza maggioritaria si può così riassumere: “…una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”4 . Ne deriva che gli elementi costitutivi del mobbing sono:

· la reiterazione e sistematicità delle condotte ostili;

 · l’intenzionalità della strategia persecutoria finalizzata a perseguitare, nuocere o espellere la vittima dal contesto lavorativo. Non costituiscono, quindi, mobbing: a) i conflitti temporanei con uguali modalità ma inidonei per durata o per episodicità delle manifestazioni tangibili a determinare conseguenze dannose; b) le situazioni di fisiologica conflittualità e difficoltà relazionali dovute all’esasperata sensibilità individuale. Caratteristiche delle condotte di mobbing sono:

· forma di atti, provvedimenti o meri comportamenti;

· frequenza, intesa come ripetitività degli atti, ossia alta concentrazione di atti vessatori nell’arco di un periodo dato;

· vessatorietà e persecutorietà oggettiva, anche indipendentemente dall’illiceità o dall’inadempimento di specifici obblighi: atti di per sé leciti, che si connotano di illiceità nella valutazione complessiva, alla luce dell’unitario intento persecutorio5 . La “pretestuosità” dell’atto datoriale consiste nella verificabilità oggettiva, in termini di irrazionalità, da intendersi principalmente come anti-economicità dell’atto o del comportamento datoriale: il datore di lavoro pone in essere un comportamento contrario al proprio interesse, pur di danneggiare il lavoratore6 . Secondo il criterio della ragionevole spiegazione alternativa il comportamento datoriale può considerarsi mobbizzante ove lo stesso, anche se in astratto lecito, si riveli univocamente sorretto da scopi emulativi e non già quando sussista e sia dimostrata una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale, legittimato da situazioni e circostanze di volta in volta idonee a giustificare l’esercizio del potere di controllo o l’adozione di misure organizzative finalizzate a garantire il buon andamento dell’ufficio7 . Il mobbing, inoltre, rappresenta una fattispecie strutturalmente sorretta da dolo intenzionale: il fine di perseguitare e mortificare il lavoratore è direttamente preso di mira dall’agente come scopo della sua condotta (proiezione dal lato soggettivo della vessatorietà e pretestuosità degli atti. Non sono necessari lo specifico fine di espellere la vittima o di ledere la sua integrità psico-fisica8 . Ai fini della configurabilità del mobbing, devono ravvisarsi, da parte del datore di lavoro, comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente (respinta la richiesta risarcitoria avanzata da una dipendente in quanto infondata; a detta della Corte, la ricorrente aveva confuso l’accertamento del fatto materiale con quello della sua illegittimità di cui la componente psicologica era elemento essenziale e la cui prova era onere dell’attrice)9 . Ciò detto, il giudizio sulla sussistenza del mobbing consiste:

· nella valutazione complessiva degli episodi lamentati dal lavoratore;

· nella idoneità offensiva della condotta datoriale (desunta dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione);

· nella connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta. Ne deriva l’inidoneità dell’accertamento materiale di singoli episodi di conflitto in assenza del carattere unitariamente ed univocamente persecutorio e discriminante del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro. La suprema Corte di Cassazione pare, poi, abbandonare i concetti di pluralità di atti ed unitarietà di intento persecutorio. Infatti, nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e, quindi, della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati — esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale — pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili10 . Ancora. Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono, quindi, ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi11 . Ne deriva che, al di là della improprietà del riferimento al “dolo specifico”, contenuto nella sentenza impugnata, quel che è certo è che per la configurabilità della responsabilità per mobbing lavorativo – in senso proprio – è necessario che siano provati tutti i suddetti elementi12 . La Corte di Cassazione13 ribadisce che “la fattispecie del mobbing è integrata in presenza di sette parametri tassativi, che sono: l’ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio” e che “il demansionamento non costituisce elemento autonomo su cui si fonda la sussistenza del mobbing, ma si inscrive nel più ampio contesto fattuale caratterizzante il complessivo comportamento vessatorio in danno della vittima”. Quindi, la giurisprudenza che si è interessata del fenomeno, rifacendosi a volte espressamente ai citati criteri, individua fattispecie di mobbing in gravi e reiterati atti in danno del lavoratore. In particolare: il Tribunale di Torino, 16.11.1999 individua il mobbing in danno di una lavoratrice fatta oggetto di ripetuti maltrattamenti e molestie, anche di carattere sessuale, da un superiore e costretta a lavorare un macchinario collocato in luogo angusto ed isolato, così da impedirle ogni possibile contatto con i colleghi. Il Tribunale di Torino, 30.12.1999 individua il mobbing nel comportamento del datore di lavoro che, dopo aver fatto pressioni sulla dipendente affinché rassegnasse le dimissioni, l’aveva sostituita con altra impiegata e trasferita dagli uffici amministrativi al magazzino, con evidente variazione in peius delle mansioni. Il Tribunale di Forlì 15.03.2001 individua il mobbing in una serie di congiunte attività svolte in danno del lavoratore consistenti: nel demansionamento; nel trasferimento in altra sede di lavoro; nella interruzione degli avanzamenti di carriera; nella sottoposizione a reiterate umiliazioni consistenti nella privazione di benefici prima goduti. Il Tribunale di tempio Pausania, 10.07.2003 individua il mobbing nel demansionamento, nella persecuzione disciplinare, nell’isolamento logistico dai colleghi. La Corte di Cass. Civ. 08.11.2002, n. 15749 ritiene “configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, potendo integrare tale comportamento una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposta al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. Tale profilo (è) riconducibile al fenomeno mobbing”

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 359 del 2003, ha avuto modo di interessarsi, seppure con riguardo al particolare problema della competenza legislativa, del fenomeno del mobbing e lo ha così delineato: “è noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell’etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l’esistenza di uno o più soggetti attivi cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali comportamenti sia destinatario e vittima. Per quanto concerne i soggetti attivi, vengono in evidenza le condotte – commissive o, in ipotesi, omissive – che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi, in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione (.) La giurisprudenza ha, prevalentemente, ricondotto le concrete fattispecie di mobbing nella previsione dell’art. 2087 c.c. che, sotto la rubrica “tutela delle condizioni di lavoro”, contiene il precetto secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure….necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, e che è stato inteso come fonte di responsabilità, anche contrattuale, del datore di lavoro. Le considerazioni svolte permettono di affermare, riguardo ai parametri costituzionali evocati, che la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell’ordinamento civile [art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione] e, comunque non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità e i diritti fondamentali del lavoratore (art. 2 e 3 primo comma della Costituzione)”. Infine, più recentemente, la Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, con sentenza 22 gennaio 2020, n. 1388, ha stabilito che, in materia di lavoro, un normale tasso di conflittualità in azienda non prova l’esistenza di un demansionamento o del mobbing. Lo stato di prostrazione del dipendente, infatti, è risarcibile solo se direttamente collegato a un comportamento vessatorio dell’impresa e solo ove il lavoratore fornisca la rigorosa prova del nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e il suo stato di prostrazione, nel senso che risulti dimostrato come questo non si ricolleghi al normale tasso di conflittualità e costrittività fisiologica che connota l’ambiente di lavoro.

03.03.2021-Mobbing-e-PA-datore-di-lavoro-di-PIETRO-CUCUMILE.pdf

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