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Quando si parla del Whistleblowing come esercizio di una libertà fondamentale dell’individuo sembra di parlare del sesso degli angeli. Eppure una corretta categorizzazione dell’istituto ha delle conseguenze piuttosto importanti sulla vita di alcune persone, i cosiddetti “whistleblower” ovvero gli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro.

A noi di Spazioetico spesso giungono appelli da parte di persone che hanno segnalato illeciti e che hanno ricevuto in cambio misure ritorsive, come demansionamenti e spostamenti “cautelativi”.

Alcuni di questi whistleblower vengono denunciati a loro volta per rivelazione di segreto d’ufficio perché il loro atto di segnalazione o di denuncia contiene, ovviamente, informazioni riservate.

Tutto questo nonostante l’Italia si sia dotata di una legge sul Whistleblowing (la legge 179/2017) e che l’Unione europea abbia adottato una nuova Direttiva (la Direttiva UE del 2019).

E, infine, nonostante ANAC, cioè l’Autorità anticorruzione, abbia posto in consultazione delle Linee Guida in materia di tutela degli autori di segnalazioni (di cui si è persa di vista la conversione in Delibera).

Dal novembre del 2019 il Whistleblowing è un istituto riconosciuto a livello europeo. La suddetta Direttiva del 23 ottobre 2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione stabilisce con una certa chiarezza che il Whistelblowing è un diritto umano e che rappresenta una libertà fondamentale dell’individuo e del lavoratore.

Ma il percorso di elaborazione della Direttiva ha avuto parecchi ostacoli e solo grazie alle campagne di comunicazione e di lobbying delle organizzazioni internazionali a favore della tutela del whistleblowing attive nei vari Paesi dell’Unione è stato possibile pervenire ad un risultato tutto sommato accettabile.

Uno dei risultati più importanti è stato il ritiro di una delle proposte della Commissione europea, il cosiddetto approccio “a tre livelli“.

Questo approccio, mutuato dalla legislazione francese, stabiliva che la tutela poteva essere riconosciuta solo a chi seguiva un certo “percorso di segnalazione“. Era necessario, al fine di ottenere una protezione, segnalare prima internamente attraverso il canale messo a disposizione dall’organizzazione, poi ad un’Autorità esterna e, solo al termine di questo percorso, si poteva segnalare ai media.

Dicevamo che l’approccio “a tre livelli” è stato superato. E non solo perché sembrava piuttosto complesso nell’attuazione. Il fatto è che l’idea di una “tutela condizionata” che limita pesantemente l’esercizio della libertà di espressione fa parte di un dibattito assai più ampio che, ad esempio, in Italia non è stato ancora del tutto affrontato.

Tutto parte da una considerazione che molti di voi, siamo sicuri, avranno fatto. Il whistleblowing viene riconosciuto dalla stessa Direttiva UE come una delle modalità in cui si esercita la libertà di espressione: “Coloro che segnalano minacce o pregiudizi al pubblico interesse di cui sono venuti a sapere nell’ambito delle loro attività professionali esercitano il diritto alla libertà di espressione. Il diritto alla libertà di espressione e d’informazione, sancito dall’articolo 11 della Carta e dall’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, comprende il diritto di ricevere o di comunicare informazioni nonché la libertà e il pluralismo dei media” (considerata n. 31).

Il problema riguarda il rapporto che intercorre tra la condotta di segnalazione e la rivelazione del segreto d’ufficio (art. 326 cp) e del segreto professionale (art. 622 cp).

I confini sono molto sfumati e facilmente un segnalante potrebbe essere accusato di rivelazione di segreto d’ufficio o del segreto professionale a patto che non intervenga una “scriminante“, parola terrificante del gergo penalistico che significa, in sostanza, la presenza di una “causa di esclusione della pena” e che le Linee Guida ANAC in consultazione individuano nel seguente elenco:

  • il segnalante deve agire al fine di tutelare l’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni (co. 1, art. 3);
  • il segnalante non deve essere un soggetto esterno all’ente o all’amministrazione che sia venuto a conoscenza della notizia «in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza» con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata (co. 2, art. 3, l. 179);
  • le notizie e i documenti, oggetto di segreto aziendale, professionale o d’ufficio, non devono essere rivelati con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito (co. 3, art 3, l. 179) e, in particolare, la rivelazione non deve avvenire al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto per le segnalazioni.

Ecco spuntare fuori una condizione che limita la libertà di espressione del segnalante. Ebbene, proprio recentemente, Wim Vandekerckhove, professore di Business Ethics all’Università di Greenwich, ha pubblicato un interessante paper dal titolo “Is It Freedom? The Coming About of the EU Directive on Whistleblower Protection” in cui conclude che “nel whistleblowing, la libertà di espressione è cruciale e implica che il segnalante ha il diritto di rivelare l’informazione. Il diritto si estende non solo all’informazione nell’interesse pubblico ma implica anche che al segnalante venga assicurata l’autonomia di scegliere a chi inviare l’informazione“.

Dunque un segnalante che non conformerà la propria condotta alle procedure aziendali e, ad esempio, invierà la propria segnalazione alla stampa non riceverà alcuna tutela contro le ritorsioni eventualmente ricevute. Non solo, potrà essere perseguito per violazione del segreto d’ufficio o professionale senza che operi la famigerata scriminante.

Conclude Vandekerckhove, amaramente, che il 15 aprile 2019, nel bel mezzo delle celebrazioni per l’adozione della Direttiva UE, Julian Assange viene arrestato a Londra.

In definitiva, la questione è la seguente: se il whistleblowing rappresenta uno dei massimi esempi di “libertà di espressione“, allora perché le Linee Guida ANAC in consultazione, richiamando la legge 179/2017, costruiscono questa ed altre “fattispecie condizionanti” senza il verificarsi delle quali non può essere invocata alcuna protezione dal segnalante?

Per chi non fosse molto addentro a tali questioni, ricapitoliamo le condizioni poste da ANAC affinché possa accordarsi la tutela:

  • il segnalante deve rivestire la qualifica di “dipendente pubblico” o equiparato,
  • è necessario che la segnalazione sia effettuata “nell’interesse all’integrità della pubblica amministrazione”
  • e che abbia ad oggetto “condotte illecite” di cui il dipendente sia venuto a conoscenza “in ragione del proprio rapporto di lavoro”
  • e che sia stata inoltrata ad almeno uno dei quattro destinatari indicati nell’art. 54-bis, co. 1.

Tutte e quattro le condizioni sono di per sé controverse. Cosa vuol dire, infatti, nell’interesse della pubblica amministrazione? Forse non era meglio riportare la terminologia usata dalla Direttiva UE, cioè “interesse pubblico“? L’interesse dell’amministrazione potrebbe essere facilmente malinteso o manipolato. Si pensi alle ritorsioni fatte nei confronti del segnalante da un’amministrazione che invoca la tutela dell’immagine. L’interesse pubblico è un riferimento più alto, che coinvolge il cosiddetto “Principale Delegante“, cioè la collettività, i mercati, i titolari di diritti.

Inoltre, i dipendenti pubblici o privati che sono chiamati a segnalare saranno certamente rimasti dubbiosi di fronte ad affermazioni secondo le quali il whistleblowing sarebbe una delle modalità in cui si esercita la libertà di espressione. Se voi affermaste questo in un contesto formativo o convegnistico, alcuni partecipanti solleverebbero più di un dubbio. “Ma di quale libertà stiamo parlando“, essi direbbero. “La segnalazione rappresenta per noi dipendenti un vero e proprio dovere di comportamento, sancito dall’articolo 8 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici“. Tutta la vostra enfasi, di colpo, sparirebbe e verreste assaliti da più di un dubbio a seguito della lettura dell’articolo in questione: “Il dipendente rispetta le misure necessarie alla prevenzione degli illeciti nell’amministrazione. In particolare, il dipendente rispetta le prescrizioni contenute nel piano per la prevenzione della corruzione, presta la sua collaborazione al responsabile della prevenzione della corruzione e, fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, segnala al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza“.

Altro che libertà di espressione! Si tratta di una condotta collaborativa “doverosa” finalizzata a ridurre l’asimmetria informativa “primaria”, pienamente iscritta nell’architettura di prevenzione della corruzione i cui attori sono tutti i dipendenti dell’organizzazione.

E qui vengono al pettine parecchi nodi. Sì perché la nostra concezione della condotta di segnalazione è ancora piuttosto incerta. Si tratta di un comportamento individuale e come tale espressione di una libertà che implica anche l’autonomia nella scelta dei canali, oppure si tratta di un comportamento organizzativo e come tale espressione di un dovere di cooperazione che si conforma strettamente alle procedure aziendali?

La Direttiva UE sembra propendere per la prima interpretazione, così come lo stesso Vandekerckhove riconosce al whistleblower il ruolo di parrhesiasta, cioè di un soggetto che esercita una attività verbale fondata sul “dire-il-vero senza paura” (Can We Organize Courage? Implications from Foucault’s Parrhesia). In questo senso il whistleblower incarna nel suo atto di segnalazione, forse, la manifestazione più profonda e controversa della libertà di espressione.

Come abbiamo già affermato in un precedente post, il rischio di standardizzazione del Whistleblowing è sempre dietro l’angolo. Le organizzazioni, naturalmente, cercano di standardizzare i propri processi, per governare gli eventi. Ma governando il Whistleblowing si rischia di addomesticarlo, di ricondurlo a logiche aziendali, laddove il segnalante è invece colui che rompe le logiche dell’organizzazione e segnala la necessità di rivedere le politiche, modificare i rapporti di forza tra gli interessi, perseguire gli illeciti.

Queste considerazioni portano a concludere che il Whistleblowing dovrebbe essere tutelato in ragione della sola “qualità oggettiva” della segnalazione.

In molti Paesi dell’Ocse, ad esempio, è ammessa la segnalazione anonima, cioè la segnalazione che non può essere ricondotta ad alcun individuo ma che, valutata per il suo contenuto, può far emergere un pregiudizio attuale e concreto all’interesse pubblico. Su questo elemento e solo su questo dovremmo fondare le nostre politiche di tutela del segnalante, aiutando, semmai, il nostro povero whistleblower a scegliere il canale di segnalazione più sicuro per lui e più utile per un’efficace presa in carico

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