26/02/2021 – Analisi dei principi processuali espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel biennio 2019-2020.

Abstract [It]: Il presente contributo si propone di svolgere un’analisi dei principi di diritto processuale espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato negli ultimi due anni.

In particolare, saranno esposte le questioni sottoposte al vaglio della Plenaria, con la relativa soluzione al contrasto interpretativo, in materia di modifica della misura della penalità di mora in sede di ottemperanza di chiarimenti (infra par. 2), di legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori dai casi previsti dalla legge (infra par. 3), di modalità operative dell’accesso civico generalizzato nei contratti pubblici in corso di esecuzione (infra par. 4).

Ancora, verrà dato conto delle pronunce della Plenaria in materia di dies a quo per l’impugnazione degli atti di gara nel rito appalti (infra par. 5), di accesso documentale difensivo (infra par. 6) e di interruzione del termine decennale di cui all’art. 114 c.p.a (infra par. 7).

Infine, si analizzeranno due ordinanze dell’Adunanza Plenaria espresse sull’ipotesi del venir meno dell’interesse ad ottenere una pronuncia pregiudiziale della CGUE (infra par. 8) e sulla necessità di restituzione degli atti alla Sezione rimettente, in caso di sopravvenuta pronuncia della CGUE sulle medesime questioni sottoposte all’attenzione della Plenaria (infra par. 9).

Sommario: 1.  Introduzione 2. La modificabilità della misura della penalità di mora in sede di giudizio per chiarimenti (C. Stato, Ad. Plen., sent. 7/2019). 3. La legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori dai casi previsti dalla legge: i requisiti sostanziali elaborati dalla giurisprudenza (C. Stato, Ad. Plen., sent. 6/2020). 4. L’accesso civico generalizzato durante l’esecuzione dei contratti pubblici: presupposti, limiti e modalità (C. Stato, Ad. Plen., sent. 10/2020). 5. Impugnazione degli atti di gara nel rito appalti: dies a quo (C. Stato, Ad. Plen., sent. 12/2020). 6. L’accesso documentale difensivo: ammissibilità di atti acquisiti dall’Amministrazione Finanziaria (C. Stato, Ad. Plen., sent. 19/2020). 7. Atti interruttivi del termine decennale per la proposizione dell’azione di cui all’art. 114 c.p.a. (C. Stato, Ad. Plen. sent. 24/2020). 8. Perdita dell’interesse ad ottenere una pronuncia della CGUE (C. Stato, Ad. Plen., ord. 13/2019). 9. Restituzione degli atti alla Sezione rimettente a seguito dell’intervento della CGUE (C. Stato, Ad. Plen., ord. 14/2020).

  1. Introduzione

Gli interventi dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nell’ultimo biennio, in materia di diritto processuale, sono stati plurimi e rilevanti, alcuni dei quali necessari per sopire annosi contrasti interpretativi.

Per la funzione nomofilattica svolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, infatti, le sue pronunce sono vincolanti per le Sezioni semplici.

Non lo sono, tuttavia, per i Tar, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., seppur essi debbano comunque evitare difformità per incuriam rispetto ai principi espressi dalla Plenaria, come affermato dal Consiglio di Stato (C. stato, sez. VI, sent. 6858/2018[1]).

  1. La modificabilità della misura della penalità di mora in sede di giudizio per chiarimenti (Ad. Plen. sent. 7/2019).

Con la pronuncia n. 7/2019[2], l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che in sede di ottemperanza di chiarimenti, è sempre possibile modificare la statuizione relativa alla penalità di mora o astreinte contenuta in una precedente sentenza di ottemperanza, ove emergano comprovate sopravvenienze fattuali o giuridiche che dimostrino, in concreto, la manifesta iniquità della sua applicazione, in tutto o in parte.

Infatti, in generale, salvo il caso di sopravvenienze, non è possibile revisionare con effetti ex tunc i criteri di determinazione delle astreintes dettati in sede di precedente giudizio di ottemperanza. Ciò per non incidere in malam sui crediti già maturati dalla parte beneficiaria, a titolo di penalità di mora.

Dunque, in ordine  al rapporto tra le sopravvenienze e la sentenza che ormai irrevocabilmente abbia disposto l’astreinte, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata nel senso di ammetterne una modifica, in sede di ottemperanza di chiarimenti.

Il Collegio, dopo aver richiamato e ribadito i principi espressi con la sentenza n. 15/2014[3], in materia di natura, funzioni, criteri di commisurazione delle astreintes, ha chiarito che l’ottemperanza deve essere sempre teleologicamente ispirata al principio di effettività della tutela, di cui all’art. 1 c.p.a., funzionale alla conformazione della situazione di fatto alla situazione di diritto dichiarata in sentenza.

Il potere amministrativo oggetto del giudicato deve sempre essere conforme al rispetto dell’interesse pubblico attuale.

I rapporti fra potere amministrativo e interesse pubblico sono dinamici e tali rimangono finché non viene data completa esecuzione al giudicato.

Dunque, secondo la Plenaria, ogni volta che sopravvenienze di fatto o di diritto incidano direttamente o indirettamente sulle misure compulsorie dell’azione amministrativa, così come statuite da una sentenza di ottemperanza, esse devono poter essere rimodulate, ricalibrate dal giudice dell’ottemperanza, sì da garantire e salvaguardare il principio di effettività della tutela.

Si tratta, cioè, di un’esigenza di modifica progressiva della penalità di mora, tesa al perseguimento dell’interesse pubblico concreto e attuale. Si valorizza un controllo giudiziario a tutela di un interesse pubblico che supera e trascende quello delle parti del giudizio di ottemperanza e della stabilità dei loro rapporti.

E il giudizio di ottemperanza, per la sua qualità poliedrica, di cognizione ed esecuzione, deve dotare il giudice di ogni potere di intervento teso ad adattare l’efficacia del giudicato alle sopravvenienze che vi incidano e all’effettività della tutela cui tende.

Inoltre, la possibilità che il giudice dell’ottemperanza venga nuovamente adito, a seguito della pronuncia di ottemperanza, viene riconosciuta dall’art.114 c.6 c.p.a., per conoscere le vicende relative agli atti dell’eventualmente nominato commissario ad acta, su istanza delle parti, e per fornire chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, secondo il disposto dell’art. 112 c.5 c.p.a.: questi rimedi mostrano la predisposizione da parte del legislatore di due possibibilità per riaprire il dialogo col giudice dell’ottemperanza, anche su eventuali sopravvenienze.

Dunque, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto che è sempre possibile in sede di ottemperanza di chiarimenti modificare la statuizione in punto di penalità di mora, in presenza di sopravvenienze di fatto o di diritto che ne dimostrino l’iniquità, in concreto, in tutto o in parte, della misura.

Salvo per le ipotesi di sopravvenienze, però, non è in generale ammessa la revisione con effetti ex tunc dei criteri di determinazione delle penalità di mora determinati in sede di ottemperanza, per non incidere sui crediti a titolo di penalità di mora già maturati dalla parte beneficiaria.

Infatti, l’efficacia deterrente della misura sanzionatoria si trae dal suo carattere di stabilità e irretroattività.

Aggiunge, infine, la Plenaria, che, tuttavia, ove il giudice dell’ottemperanza non abbia fissato il tetto massimo della penalità e la vicenda successiva a tale determinazione abbia fatto emergere, a causa della mancanza del tetto, la manifesta iniquità della misura, quest’ultimo può essere individuato in sede di chiarimenti, facendo riferimento, in particolare, al paramentro indicato dal 614 bis c.p.c. del danno da ritardo nella esecuzione del giudicato. Ciò per evitare che un’evoluzione senza limiti del meccanismo di calcolo determini uno snaturamento della funzione precipua della penalità di mora, uno spostamento ingiustificato di ricchezza, come tale non tollerato dai principi generali ricavabili da tutto l’ordinamento giuridico.

  1. La legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori dai casi previsti dalla legge: i requisiti sostanziali elaborati dalla giurisprudenza (Ad. Plen. sent. 6/2020).

L’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n. 6/2020[4], ha affermato che l’ente esponenziale in possesso dei requisiti sostanziali è sempre legittimato ad agire dinanzi al giudice amministrativo.

Con tale intervento, in particolare, l’Adunanza plenaria è stata chiamata a risolvere la questione interpretativa se sussista una legittimazione generale degli enti esponenziali di tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, quando manchi una legittimazione straordinaria espressamente prevista dal legislatore.

Sulla materia vi è stato un acceso dibattito interpretativo.

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia della VI Sezione, n. 3303/2016[5], che  più volte è stata citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, avrebbe escluso l’esperibilità dell’azione di annullamento da parte delle associazioni prive di legittimazione espressa del legislatore, fondando il proprio convincimento sul dato normativo.

Secondo questa impostazione, infatti,  l’art. 32-bis, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che “Le associazioni dei consumatori inserite nell’elenco di cui all’articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”.

Dunque, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha valorizzato la lettera della norma, con  specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140”, da cui deriverebbe che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate.

Allora, alla luce del dato letterale, nell’attuale ordinamento e nella materia de qua mancherebbe una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento.

L’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 6 del 2020, ha invece affermato che la legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori dai casi previsti dalla legge può discendere dall’iscrizione dell’associazione negli appositi elenchi previsti dalla disciplina di riferimento, ma è, comunque, ammessa in presenza dei requisiti sostanziali, elaborati dalla giurisprudenza, in capo all’ente collettivo.

Si sostiene, infatti, che l’argomento riferito alla tutela consumeristica non è in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente e consolidata.

Le disposizioni citate dalla VI Sezione riguardano il diritto civile e il relativo processo.

La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo.

Per l’Adunanza Plenaria, anzi, essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante.

Questi temi sono connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori).

Il processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolmente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori.

Così, avanza l’Adunanza Plenaria, interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, questo processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto, a base associativa e con funzioni rappresentative, che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori.

Non sarebbe così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo.

La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico – ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria sostiene che la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli artt. 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla l. 12 aprile 2019, n. 31), i quali riguardano un altro ambito processuale, e non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo.

Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo, oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.

La legittimazione, in altri termini, per l’Adunanza Plenaria in commento, si ricava o dal riconoscimento del legislatore, derivante dall’iscrizione negli speciali elenchi, o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza.

Dal momento che un’associazione è legittimata, poi, è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.

L’Adunanza Plenaria ha dunque espresso il seguente principio di diritto:

 

“Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”.

  1. L’accesso civico generalizzato durante l’esecuzione dei contratti pubblici: presupposti, limiti e modalità (Ad. Plen. sent. 10/2020).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 10/2020[6], ha affermato l’esistenza di un interesse alla esibizione di atti e documenti inerenti alla fase esecutiva del rapporto, da parte dell’impresa non aggiudicataria della gara, ma a condizione che l’istanza non sia esplorativa e l’interesse sotteso all’esibizione sia preesistente.

Si afferma, dunque, che la documentazione inerente alla fase successiva alla stipulazione del contratto può costituire oggetto di accesso civico generalizzato, fermi restando i limiti di legge a tutela di specifici interessi protetti dall’ordinamento.

Si ribadisce l’obbligo della pubblica amministrazione di esaminare integralmente l’istanza anche quando essa abbia un contenuto generico, ovvero senza che sia specificato se si faccia riferimento all’accesso cd. classico o all’accesso civico generalizzato, ovvero ove richiami, in via cumulativa, entrambe le modalità di accesso, ad eccezione dei casi nei quali il richiedente abbia circoscritto il suo interesse all’accesso documentale uti singulus ai sensi dell’art. 22 ss. l. n. 241 del 1990, nei quali l’esame deve essere certamente limitato ai presupposti indicati da tale disposizione.

In sostanza, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza in commento, è intervenuta sulla possibilità di applicare, in tutto o in parte, la disciplina dell’accesso civico generalizzato ai documenti relativi alle attività delle amministrazioni disciplinate dal codice dei contratti pubblici. 

Sul punto, era in corso un contrasto interpretativo fra contrapposti orientamenti delle Sezioni III (sent. 3780/2019[7]) e V (sentt. 5502 e 5503/2019[8]) del Consiglio di Stato.

L’Adunanza Plenaria ha composto il contrasto affermando che la pubblica amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente, senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai profili della l. n. 241 del 1990.

L’Adunanza Plenaria specifica che in quest’ultimo caso, il giudice amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., non può mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica amministrazione all’esito del procedimento.

Ancora, la Plenaria afferma che è ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241 del 1990, e una conseguente legittimazione, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico da parte di un concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero condurre alla risoluzione per inadempimento dell’aggiudicatario e quindi allo scorrimento della graduatoria o alla riedizione della gara, purché tale istanza non si traduca in una generica volontà da parte del terzo istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale.

Infine, come ultimo principio di diritto, viene affermato che la disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53 del d. lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, all’esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l’eccezione del comma 3 dell’art. 5-bis del d. lgs. n. 33 del 2013 in combinato disposto con l’art. 53 d.lgs 50/2016 e con le previsioni della l. n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia dall’accesso civico generalizzato, ma resta ferma la verifica della compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis cit., comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza.

 

  1. Impugnazione degli atti di gara nel rito appalti: dies a quo (Ad. Plen. sent. 12/2020).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 12/2020[9], è intervenuta in punto di dies a quo per l’impugnazione degli atti di gara, nel rito appalti.

Il Collegio ha sciolto diversi nodi interpretativi, così come formulati dalla Sezione V, riguardo la disciplina del decorso dei termini per impugnare l’aggiudicazione della gara, in ambito di rito appalti.

Il contrasto risolto dalla Plenaria ruotava principalmente attorno al dies a quo della decorrenza dei termini.

Infatti, il termine per impugnare i provvedimenti amministrativi decorre dalla notificazione, comunicazione o “piena conoscenza” dell’atto. Questa la disciplina di cui all’art. 41 c.2 c.p.a.

Proprio sulla lettera della norma si è acceso il dibattito fra la tesi che ritiene che sia necessaria l’integrale conoscenza del provvedimento e della relativa motivazione ed invece la tesi maggioritaria, che valuta come sufficiente la sola conoscenza della lesività del provvedimento, salva, poi, la possibilità di integrare il contenuto del ricorso, successivamente, con riferimento alle motivazioni dell’atto impugnato, attraverso la proposizione dei motivi aggiunti.

La disciplina generale per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi deve conciliarsi con la disciplina speciale in materia di rito appalti: l’art. 120 c. 5 c.p.a. fissa il termine di decadenza dalla comunicazione della stazione appaltante, agli interessati, circa le decisioni prese sull’aggiudicazione dell’appalto, di cui all’art. 79 d.lgs. 163/2006, oppure dalla conoscenza, aliiunde, dell’atto.

Con riguardo alla disciplina dell’art. 79 cit., un orientamento sosteneva la necessità che la stazione appaltante inviasse una comunicazione esaustiva, comprensiva di indicazione della specifica offerta aggiudicata e delle ragioni dell’aggiudicazione, affinché iniziasse a decorrere il termine di trenta giorni per l’impugnazione.

Diversamente, se la stazione appaltante avesse soltanto comunicato l’avvenuta aggiudicazione e il nome dell’aggiudicatario, il termine sarebbe stato incrementato di un numero di giorni necessario per avere piena conoscenza dell’atto.

Si riteneva, poi, che tale impostazione interpretativa dovesse mantenersi anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, d.lgs. 50/2016, il cui art. 76 ricalca il dato testuale dell’art. 79 cit. e, dunque, che il richiamo operato dall’art. 120 c.5 c.p.a. all’art. 79 vecchio cod. appalti dovrebbe oggi ritenersi effettuato con riferimento al nuovo art. 76.

Un orientamento più restrittivo prevedeva, invece, che il termine per impugnare il provvedimento dovesse decorrere dalla ricezione dell’avvenuta comunicazione dell’aggiudicazione o dalla conoscenza che l’interessato ne abbia avuto aliunde e debba sempre ritenersi di trenta giorni.

Ancora, in base a questa più rigorosa impostazione, si sosteneva che il rimando all’art. 79 d.lgs. 163/2006 operato dall’art. 120 c.5 c.p.a. non potrebbe ritenersi oggi operante in favore dell’art. 76 d.lgs. 50/2016 a causa del diverso contenuto delle due norme, la seconda delle queli non si coordinerebbe con l’istituto dell’accesso.

Si valorizzò, pure, il dato letterale dell’art. 120 c.5 c.p.a., che considera due momenti equipollenti per il decorso del termine di decadenza: la comunicazione individuale, ex art. 76 d.lgs. 50/2016, o la conoscenza del provvedimento acquisita aliunde, che di norma avviene con la pubblicazione degli atti di gara, in ossequio al disposto di cui all’art. 29 cod. app., ovvero alle modalità di comunicazione e pubblicità individuate dalla lex specialis di gara.

Con la pronuncia in commento, l’Adunanza Plenaria ha avallato l’orientamento del diritto vivente, seguito dalla giurisprudenza amministrativa, circa l’individuazione del dies a quo della decorrenza del termine di impugnazione del provvedimento amministrativo, rispettivamente, nel momento di conoscenza della mera esistenza e della lesività del provvedimento per tutti i settori del diritto amministrativo e nel momento di conoscenza della motivazione del provvedimento e dei relativi atti endoprocedimentali per il settore degli appalti.

La decisione dell’Adunanza Plenaria afferma dunque che il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione genralizzata degli atti di gara, fra cui devono comprendersi  anche i verbali di gara, con le valutazioni e operazioni compiute dalle commissioni di gara, in base alle offerte presentate, in conformità al dettato dell’art. 29 d.lgs. 50/2016.

Secondo l’Adunanza Plenaria, sono ritenute idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione anche le forme di comunicazione e pubblicità individuate nel bando di gara e accettate dai partecipanti.

La pubblicazione degli atti di gara, secondo il Collegio, deve sempre avvenire unitamente ai relativi allegati.

  1. L’accesso documentale difensivo: ammissibilità di atti acquisiti dall’amministrazione finanziaria (Ad. Plen. sent. 19/2020).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione n. 19/2020[10], ha ritenuto che i documenti reddituali dei coniugi possono essere oggetto di accesso difensivo.

Secondo il Collegio, le dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti presentati o acquisiti dagli uffici dell’amministrazione finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari ed inseriti nelle banche dati dell’anagrafe tributaria, ivi compreso l’archivio dei rapporti finanziari, costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso documentale difensivo, ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.

Il Collegio specifica che l’accesso documentale difensivo può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione istruttoria di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile ai sensi degli artt. 210, 211 e 213 c.p.c. e, inoltre, può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri istruttori di cui agli artt. 155-sexies disp. att. c.p.c. e 492-bis c.p.c., nonché, più in generale, dalla previsione e dall’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio del giudice civile nei procedimenti in materia di famiglia.

 Infine, l’Adunanza Plenaria chiarisce che l’accesso difensivo ai documenti suddetti puà essere esercitato mediante estrazione di copia.

  1. Atti interruttivi del termine decennale per la proposizione dell’azione di cui all’art. 114 c.p.a. (Ad. Plen. sent. 24/2020).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 24 del 2020[11], ha affermato che il termine decennale dal passaggio in giudicato della sentenza, previsto dall’art. 114 c.1 c.p.a., per proporre azione nel giudizio di ottemperanza, può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale. volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato.

L’Adunanza Plenaria, in particolare, ha ritenuto che le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione dovessero esaminarsi tenendo conto della evoluzione della normativa nazionale in tema di giudizio di ottemperanza e di prescrizione, nonché del principio di pari dignità della tutela dei diritti e degli interessi legittimi, al fine di meglio comprendere la ratio sottesa a tale giudizio, per dare effettiva esecuzione ai giudicati.

Osseva il Collegio che gli artt. 2943 e 2953 c.c. hanno sancito le regole della prescrizione decennale e della sua interrompibilità dell’actio iudicati riguardante il giudicato (del giudice civile o del giudice amministrativo) avente per oggetto diritti soggettivi.

Invece,  sull’actio iudicati riguardante il giudicato avente per oggetto interessi legittimi, l’art. 114, comma 1, c.p.a. ha introdotto la diversa regola per la quale in ogni caso è interrompibile il termine di prescrizione decennale, quando si agisce con l’actio iudicati: non rileva quindi la posizione soggettiva di cui si chieda tutela al giudice dell’ottemperanza.

Da tale comma, a dire della Plenaria, si desume chiaramente la determinazione del legislatore di qualificare come termine di prescrizione e non di decadenza quello entro il quale è proponibile il ricorso d’ottemperanza: non si può ritenere che il legislatore abbia utilizzato termini aventi un significato diverso da quello attribuibile in base alle nozioni generali.

Aggiunge la Plenaria che con riferimento ai diritti, tale determinazione risultava costituzionalmente obbligata, poiché – per il principio di uguaglianza e per i principi fondanti la giustizia amministrativa (artt. 3, 103 e 113 Cost.) – non si sarebbe potuto introdurre per essi un termine decennale di ‘decadenza’, tale da rendere del tutto incoerente la disciplina processuale sull’actio iudicati con quella sostanziale prevista dall’art. 2953 del codice civile (che consente di interrompere la prescrizione anche quando si tratti di un diritto che abbia dato luogo ad un giudicato favorevole).

La specifica ed autonoma portata applicativa dell’art. 114, comma 1, c.p.a. ha riguardato l’actio iudicati per i giudicati aventi per oggetto posizioni di interesse legittimo.

Il legislatore ha infatti espressamente ammesso, in ogni caso, che il termine decennale, proprio perché è di prescrizione e non di decadenza, possa essere interrotto anche con idonei atti stragiudiziali, senza la necessità che entro il termine decennale sia notificato il ricorso d’ottemperanza.

La scelta del legislatore è stata dunque quella di disporre regole unitarie per l’actio iudicati, quanto al tempo della proposizione del ricorso d’ottemperanza, con riferimento sia ai diritti soggettivi che agli interessi legittimi.

Ammonisce la Plenaria: “ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus”.

Ad avviso della stessa, tale scelta risulta pienamente coerente con il principio di effettività della tutela e con la giurisprudenza costituzionale, poiché l’art. 1 c.p.a. dispone che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo, senza distinguere i diritti dagli interessi, aventi pari dignità ai sensi degli articoli 24 e 103 Cost., sicché ben si regge su tale principio la regola per la quale in ogni caso chi abbia ottenuto un giudicato favorevole possa sollecitare l’Amministrazione soccombente anche in sede stragiudiziale, affinché ci sia l’esecuzione, con la conseguente interruzione del termine di proposizione dell’actio iudicati.

L’Adunanza Plenaria prosegue ricordando che la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 204 del 2004[12] e n. 191 del 2006[13], ha evidenziato lo stretto intreccio che talvolta vi è tra gli interessi e i diritti devoluti dalla legge alla giurisdizione amministrativa esclusiva, sì da giustificare un regime giuridico unitario (e dunque semplificato) dell’actio iudicati, che ai fini della proponibilità del rimedio – in presenza di atti stragiudiziali volti all’esecuzione del giudicato – renda irrilevante l’esame della natura della posizione fatta valere nel giudizio di cognizione.

La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto con gli articoli 97 e 111 della Costituzione, diversamente da quanto è stato paventato dall’ordinanza di rimessione: l’Amministrazione risultata soccombente nel giudizio di cognizione ha il dovere di dare esecuzione d’ufficio al giudicato e la mancata esecuzione del giudicato si pone in sé in contrasto con il principio del buon andamento dell’azione amministrativa.

Il rimedio del ricorso d’ottemperanza va visto come extrema ratio per ottenere in sede di giurisdizione di merito l’esecuzione del giudicato, qualora in sede amministrativa non vi sia stata una definizione della questione conforme al giudicato stesso, a seguito dei contatti eventualmente intercorsi tra le parti.

Tali contatti vanno considerati di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990, da interpretare nel senso che ben può essere concluso un accordo di natura transattiva, volto a definire una volta per tutte la controversia, come affermato dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con sentenza n. 4990/2020[14].

Il Collegio conclude affermando che sia fisiologico che nel corso del tempo il vincitore del giudizio di cognizione solleciti l’Amministrazione ad eseguire il giudicato, prospettando se del caso soluzioni che possano essere concordate, prima di proporre il giudizio d’ottemperanza (anche in un’ottica deflattiva del contenzioso).

In questo contesto, gli atti di impulso univocamente rivolti ad ottenere l’esecuzione del giudicato sono stati evidentemente ritenuti idonei dal legislatore ad interrompere il termine di prescrizione dell’actio iudicati, non potendo essere premiata l’Amministrazione – con una regola della non interrompibilità della prescrizione – quando, malgrado tali atti, non vi sia stata né la unilaterale esecuzione del giudicato, né una soluzione consensuale.

La regola generale della interrompibilità del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati neppure risulta in contrasto col principio della ragionevole durata del processo, consacrato dall’art, 111 Cost.

Tale principio riguarda di per sé il periodo di tempo entro il quale deve esservi da parte del giudice la risposta di giustizia e non può essere inteso nel senso che vi siano preclusioni per il legislatore nel fissare una regola generale, per la quale – una volta ottenuto un giudicato favorevole – chi ha titolo ad ottenere l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto preferisca anche periodicamente sollecitare l’Amministrazione soccombente a dare esecuzione al giudicato, senza ricorrere al giudice dell’ottemperanza e confidando che l’Amministrazione stessa, nel rispetto dei propri doveri istituzionali, dia esecuzione del giudicato.

  1. Perdita dell’interesse ad ottenere una pronuncia della CGUE (Ad. Plen ord. 13/2019).

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 13/2019[15], ha statuito che qualora non vi sia più interesse ad ottenere una pronuncia pregiudiziale dalla Corte di giustizia dell’Unione europea sulla questione rimessa, trattandosi di questione divenuta non più rilevante ai fini della decisione, il giudice nazionale può ritirare la suddetta domanda di pronuncia pregiudiziale, a norma dell’art. 100, c. 1, del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia.

A tal fine secondo il Collegio, appare necessario comunicare al Cancelliere della Corte, ai sensi dell’art. 28 delle Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, la sopravvenuta non rilevanza della pronuncia pregiudiziale sottoposta ai fini della decisione della causa in esame.

Pertanto, la Plenaria afferma che qualora successivamente al rinvio pregiudiziale di interpretazione da parte dell’autorità giudiziaria adita, sopraggiunga una decisione della Corte di giustizia UE che si pronunci sulla medesima questione, facendo venire meno l’interesse alla decisione della causa pregiudiziale, il giudice ha potere di ritirare la relativa domanda dandone immediata comunicazione alla Corte di giustizia UE.

  1. Restituzione degli atti alla Sezione rimettente a seguito dell’intervento della CGUE (Ad. Plen. ord. 14/2020).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 14/2020[16], chiamata a decidere alcune questioni interpretative inerenti all’obbligo della separata indicazione dei costi per la manodopera e oneri per la sicurezza a carico degli operatori economici che partecipano a procedure di affidamento di contratti pubblici, ha ritenuto di restituire gli atti alla sezione rimettente, senza pronunciare il principio di diritto, ex art. 99 cp.a. c.1 u.p., in considerazione della sopravvenuta  pronuncia della Corte di giustizia UE sulle medesime questioni e in base alla ravvisata opportunità di riservare alla sezione la decisione su estranee questioni di merito, devolute con l’appello.

La Plenaria ha dunque affermato la necessità di restituire gli atti alla Sezione rimettente ogni volta che nelle more del giudizio sopravvenga una pronuncia della CGUE, sulle medesime questioni che hanno dato luogo o potrebbero dare luogo a contrasti giurisprudenziali, secondo l’art. 99 c.1 c.p.a., sollevate alla Plenaria dalla Sezione semplice.

[1] in https://www.giustizia-amministrativa.it

[2] in https://www.giustizia-amministrativa.it

[3] in https://www.giustizia-amministrativa.it

[4] in https://www.giustizia-amministrativa.it

[5] in https://www.giustizia-amministrativa.it

[6] in https://www.giustizia-amministrativa.it

 

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