19/02/2021 – Il giallo del collega Achille Maccapani durante la finale L’Ariston diventa scena del delitto ma lo show deve continuare

Del Festival di Sanremo si è detto e scritto di tutto e di più. Mancava solo un giallo in piena regola, con la vittima freddata durante la seratona finale in una toilette dell’Ariston, mentre Fiorello intrattiene da par suo il pubblico in attesa che Amadeus proclami il vincitore. Dopo una maratona tivù, inutile specificarlo, di durata nibelungica.

Provvede adesso Achille Maccapani con Delitto al Festival di Sanremo (Fratelli Frilli, pagg. 201, euro 14,90), ovvero La prima indagine del commissario Francesco Orengo. Maccapani si è fatto finora apprezzare per i casi del capitano Roberto Martielli. Con questo romanzo passa dai Carabiinieri alla Polizia e da Martielli al vicequestore Orengo, appena trasferito a Sanremo da Torino, dov’era stato coinvolto nella tragica notte di piazza San Carlo. Ma subito gli capita fra le mani il cadavere di un commerciante di scarpe campano, liquidato con due colpi di pistola. Segue indagine, al termine della quale Orengo troverà il colpevole e l’amore, nonostante il fuoco amico di un superiore invidioso che cerca di sabotargli il lavoro con insinuazioni a mezzo stampa (i giornalisti, al solito, non ne escono troppo bene). Benché le circostanze siano diversissime, viene subito in mente il grande affare “noir” di Sanremo, insomma i soliti sospetti, rilanciati proprio in questi giorni, che quello di Luigi Tenco non fosse un suicidio ma un delitto.

Però il libro ha il pregio di una paradossale attualità. Proprio nell’anno in cui il Festival sarà diverso da tutti gli altri ne descrive l’ultima edizione pre-Covid, la coppia mattatrice Fiorello-Amadeus, l’eccitazione dentro e fuori l’Ariston, i personaggi grotteschi che si agitano intorno al Festival, l’isteria mediatica che lo accompagna, insomma l’enorme sproporzione fra il fatto artistico, invero modesto, e la sua rilevanza per la pubblica opinione. E infatti, senza voler spoilerare troppo, si scoprirà che uccidere proprio lì, all’Ariston, in quel sabato sera che per l’Italia è l’equivalente della notte degli Oscar più il Superbown, è una scelta voluta dai mandanti: punirne uno per educarne cento, davanti alla Nazione attonita sul divano. Curioso però che l’autore non nomini mai mamma Rai, sempre indicata con curiose perifrasi tipo “l’emittente”.

E tuttavia questa accurata descrizione d’ambiente non è l’unica. Perché Orengo torna spesso e volentieri nell’entroterra in cui è nato, quel pezzettino di Liguria rustico, dimenticato e bellissimo incastrato fra le canzoni della costa e le ruvidezze dell’Appennino. E qui è evidente che l’autore lo conosce alla perfezione e lo ama. Sono paesini quasi sperduti dove il cellulare prende male ma si mangia benissimo, immersi in una calma atavica lontanissima dall’agitazione artificiale del Festivalone. Come se, alla fine, la vita “vera” fosse questa, non l’effimero di uno spettacolo autoreferenziale dove perfino un morto ammazzato non riesce ad intralciare lo show. E figuriamoci una pandemia mondiale.

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