14/09/2021 – PNRR: quale il ruolo degli enti locali?

Solo facendo squadra, i comuni di piccole dimensioni possono essere protagonisti

DOSSIER ADNKRONOS A CURA DI CENTRO STUDI ENTI LOCALI

È opinione diffusa che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenti una occasione unica per il rilancio di questo paese. Il volume delle risorse in ballo è, in effetti, già di per sé, straordinario: come noto, parliamo di 192,5 miliardi di euro di derivazione europea, cui si sommano i 30,6 miliardi del Fondo complementare con il quale il Governo ha integrato il PNRR avvalendosi di risorse nazionali.

Importante è anche il fatto che queste risorse siano vincolate a un orizzonte temporale di sei anni e travalichino quindi la scadenza naturale della Legislatura. Questo, in qualche modo, obbliga l’Esecutivo a lanciare lo sguardo oltre il tradizionale “confine” del mandato che troppo spesso imbriglia, almeno in parte, l’azione governativa, spingendo a privilegiare quelle riforme che producono effetti immediati (non necessariamente le più efficaci sulla lunga distanza) per essere in condizione di raccogliere i consensi che queste produrranno.

Ma che ruolo giocheranno gli enti locali nella partita? Assolutamente centrale, posto che saranno i destinatari di circa il 39% delle risorse in ballo. Buona parte degli obiettivi che il Piano si pone sono fortemente ancorati ai territori: dalla digitalizzazione, alle rinnovabili, passando per la riforma della Pubblica Amministrazione e le semplificazioni in materia di appalti, così come gli investimenti sul sociale: non c’è aspetto del PNRR che non investirà, in maniera più o meno diretta, le amministrazioni comunali.

Questi avranno dunque un ruolo di primo piano nella messa a terra dell’ambiziosissimo pacchetto di riforme, interventi e investimenti che saranno – auspicabilmente – portati a termine entro il 2026.

L’attuazione degli interventi

Due le strade maestre attraverso le quali gli enti locali potranno accedere alle risorse del “Next generation Eu”:

  • da un lato, per le Città metropolitane e gli enti di dimensioni elevate, ci sarà la possibilità di candidarsi per i “progetti bandiera” (c.d. “Flagship”);
  • dall’altra l’emanazione di bandi ministeriali sul modello del bando per la rigenerazione urbana, attraverso i quali i finanziamenti raggiungeranno anche i Comuni di dimensione più modesta.

Ricordiamo che dei 191,5 miliardi stanziati in favore del nostro Paese: 68.9 miliardi sono veri e propri sussidi (3.9% del Pil 2019) mentre i restanti 122.6 miliardi sono dei prestiti (6.8% del Pil 2019).

L’unico grande potenziale nemico in questo scenario, zeppo di irripetibili opportunità per il Paese, sembra essere il fattore tempo. I fondi dovranno essere impegnati entro la fine del 2023, e gran parte degli esborsi dovrebbe esser fatta entro il 2024, per potenziarne l’effetto anticiclico.

Questo cronoprogramma è lontano anni luce da quelli che sono gli standard del nostro Paese in termini di capacità di spesa dei fondi comunitari. Le amministrazioni pubbliche italiane hanno purtroppo dimostrato negli anni di avere una storica, quasi “cronica”, incapacità di effettuare sistematicamente valutazioni ex ante dei Progetti e valutazioni ex post dei loro risultati. Un limite enorme che ci ha sempre impedito di sfruttare adeguatamente le possibilità offerte dall’utilizzo dei fondi comunitari e che ci ha portato, ad esempio, a spendere soltanto 34 dei 73,73 miliardi a sua disposizione derivanti dai “Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020”.

Con riferimento ai 51 Programmi Operativi cofinanziati dal FESR e dal FSE del ciclo 2014-2020, la Commissione europea ha certificato che la nostra spesa al 31 dicembre 2020, è stata di circa 21,3 miliardi di euro (21.272.582.235), ovvero circa il 42% del totale delle risorse programmate pari a 50,5 miliardi di euro.

Cifre irrisorie rispetto a quelle che avremo a disposizione da qui al 2026.

È quindi necessario che tutti gli attori che saranno coinvolti nell’attuazione degli interventi, primi tra tutti gli enti locali – che costituiscono un imprescindibile anello di congiunzione tra Stato e territorio – facciano uno sforzo straordinario per assicurare ritmi senza precedenti in termini di progettazione, attuazione e rendicontazione dell’ambiziosissimo parco progetti per il quale il Piano ha gettato le basi.

Ad oggi però sono pochissimi gli enti che hanno risorse umane sufficienti per reggere il colpo. Basti pensare che oltre 5mila dei quasi 8mila comuni italiani, contano meno di 5.000 abitanti. Se si considera che, complici i vincoli imposti per anni dalla spending review, gli enti locali hanno perso circa 115.000 unità di personale perse negli ultimi 10 anni (pari a più del 20% del totale), stiamo parlando di amministrazioni in cui molto spesso il numero di dipendenti è ridotto al lumicino e il dirigente dei servizi finanziari è costretto a fare praticamente da factotum, spaziando dagli appalti al bilancio, passando per personale, sociale ecc..

Come più volte ribadito dal Ministro alla P.A. Renato Brunetta, questo problema sarà almeno in parte alleggerito dai nuovi ingressi attesi nelle fila degli organici degli enti pubblici italiani, ma è difficile immaginare che le nuove leve possano gestire tutto ciò, in autonomia, dal giorno zero. Il mancato ingresso graduale del personale, negli ultimi decenni, non ha prodotto il solo effetto negativo di far progressivamente svuotare gli uffici. Ha anche fatto sì che sia mancata quell’affiancamento prolungato tra dipendenti “senior” e “junior” che fa sì che ci sia una progressiva e graduale formazione sul campo delle nuove risorse umane. Queste ultime rischiano infatti ora di trovarsi in massa a gestire compiti di estrema complessità, come quelli legati ai programmi europei, senza avere un adeguato bagaglio esperienziale.

Altro grande tema è quello dell’età media dei dipendenti pubblici italiani: 50,7 anni. Nelle fila delle P.A. italiane la quota degli under 30 è praticamente inesistente (2,9%), mentre quasi il 17% dei dipendenti pubblici ha superato la soglia dei 60 anni.

Non meno importanti la mancata valorizzazione delle competenze (avanzamenti di carriera legati all’anzianità più che al merito e premi distribuiti a pioggia senza mettere in atto realmente, se non in pochi casi, reali valutazioni della performance) e la progressiva erosione degli investimenti nella formazione dei dipendenti.

Il combinato disposto di tutti gli elementi di cui sopra, ci restituisce l’immagine di una P.A. che ha bisogno di nuove leve, sì, ma anche di essere profondamente riformata affinché non fallisca questo “appuntamento con la storia”.

Per sopperire a tutte queste criticità, è fondamentale, a nostro avviso, che gli enti locali uniscano le forze e che si muovano sempre di più nella direzione della progettazione condivisa. Convenzioni e collaborazione tra uffici ed enti, possono essere la risposta per far sì che anche i territori più periferici, fatti di piccoli centri, non restino fuori dalla partita del PNRR.

Solo unendo le proprie forze e facendo rete attraverso le varie forme di associazionismo, più o meno strutturate (dalle unioni alle fusioni, dalle convenzioni relative a specifici servizi passando per semplici accordi “di scopo”, magari sotto la guida di specifiche cabine di regia create ad hoc per gestire dei maxi progetti), i piccoli comuni possono mettersi in condizione di cogliere l’opportunità del Recovery e assicurare standard più alti e costi inferiori, sopperendo così a quei limiti atavici che si portano dietro da decenni.

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