09/09/2021 – La sostituzione dell’impresa mandataria del RTI non costituisce un obbligo a carico della stazione appaltante

Ai sensi dell’art. 48, comma 17, del d.lgs. n. 50 del 2016: “la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto”. La sostituzione della mandataria non costituisce, quindi, un obbligo per la stazione appaltante, ma può essere concessa previa verifica del possesso dei requisiti di qualificazione in capo al nuovo mandatario designato e sempre in conseguenza di una richiesta in tal senso da parte dell’ATI proponente.

Pubblicato il 07/06/2021

N. 04302/2021REG.PROV.COLL.

N. 10117/2020 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10117 del 2020, proposto da

Cooperativa Muratori & Cementisti – CMC di Ravenna Società Cooperativa, in proprio e quale mandataria dell’ATI con Giudici S.p.a., nonché quest’ultima, in proprio e quale mandante della predetta ATI, ognuna in persona del proprio rispettivo legale rappresentante pro tempore, entrambe rappresentate e difese dagli avvocati Massimo Frontoni e Gianluca Luzi, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Massimo Frontoni in Roma, via Guido d’Arezzo, n. 2;

contro

Provincia di Brescia – Area Tecnica e dell’Ambiente – Settore delle Grandi Infrastrutture, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gisella Donati e Magda Poli, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;

nei confronti

Collini Lavori S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Alfredo Biagini e Antonio Tita, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, Sezione Seconda, n. 674 del 2020, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Brescia e di Collini Lavori S.p.a.;

Viste le memorie delle parti;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli artt. 74 e 120, comma 10, cod. proc. amm.;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 maggio 2021, tenuta da remoto con le modalità previste dagli artt. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, come modificato dall’art. 6, comma 1, lett. e), del decreto-legge 1 aprile 2021, n. 44, il Cons. Elena Quadri e data la presenza, ai sensi delle richiamate disposizioni, dell’avvocato Massimo Frontoni, che ha depositato delle note di passaggio in decisione;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

L’ATI Cooperativa Muratori & Cementisti – CMC di Ravenna Società Cooperativa ha impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, il provvedimento del 21 aprile 2020 con cui è stata disposta in suo danno la decadenza dall’aggiudicazione dell’appalto integrato di “Progettazione esecutiva ed esecuzione lavori, sulla base del progetto preliminare, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta – Costruzione deviante tratta da Vestone Nord a Idro Sud SPBS 237 del Caffaro”, di cui alla precedente determinazione dirigenziale n. 1440 del 21 dicembre 2016.

La decadenza è stata motivata dal fatto che in data 4 dicembre 2018 CMC aveva depositato domanda di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, comma 6, L.F., finalizzata ad una procedura di concordato in continuità aziendale, alla quale era stata formalmente ammessa in data 12 giugno 2019, con decreto di pari data del Tribunale di Ravenna, che aveva dichiarato aperta la procedura di concordato preventivo, poi omologato con decreto del 29 maggio 2020.

L’adito Tribunale con la sentenza segnata in epigrafe ha respinto il ricorso, ritenendo infondate le censure sollevate.

Di tale sentenza le appellanti hanno chiesto la riforma, lamentando l’erroneità per i seguenti motivi:

I) error in iudicando: violazione art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nonchè artt. 161 e 186 bis e art. 181 L.F.; violazione art. 46 d.lgs. n. 163 del 2006 sulla tassatività delle cause di esclusione; violazione art. 168, comma 1, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 107, nonché art. 21 sexies legge 241 del 1990 e art. 134 d.lgs. n. 163 del 2006 e 109 del d.lgs. n. 50 del 2016; violazione lex specialis; omessa motivazione; manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione;

II) error in iudicando: violazione art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nonché art. 186 bis della L.F.; violazione art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990; violazione del principio del legittimo affidamento; manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione;

III) error in iudicando: violazione dell’art. 48, comma 17 e 19 ter, del d.lgs. n. 50 del 2016; omessa motivazione; manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione;

IV) error in iudicando: domanda di risarcimento dei danni; omessa pronuncia; manifesta illogicità e contraddittorietà.

Si sono costituiti per resistere all’appello la Provincia di Brescia e Collini Lavori S.p.a.

Successivamente le parti hanno prodotto memorie a sostegno delle rispettive conclusioni.

All’udienza del 20 maggio 2021 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

E’ controversa la legittimità della decadenza dell’ATI Cooperativa Muratori & Cementisti – CMC di Ravenna Società Cooperativa dall’aggiudicazione dell’appalto integrato di “Progettazione esecutiva ed esecuzione lavori, sulla base del progetto preliminare, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta – Costruzione deviante tratta da Vestone Nord a Idro Sud SPBS 237 del Caffaro”, disposta Provincia di Brescia, giusta determinazione dirigenziale del 21 aprile 2020, decadenza ritenuta corretta dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, sezione seconda, con la sentenza n. 674 del 2020.

Per l’amministrazione la presentazione in data 4 dicembre 2018 da parte della CMC di una istanza di concordato preventivo in bianco avrebbe determinato una interruzione della continuità nel possesso dei requisiti di ordine generale (che insieme a quelli speciali devono essere posseduti ininterrottamente dai concorrenti per tutta la durata della procedura di gara e per l’aggiudicatario per tutta la durata di esecuzione del contratto), integrando pertanto una condizione impeditiva alla stipula del contratto. Né la trasformazione avvenuta nel giugno 2019 del concordato preventivo in concordato “in continuità aziendale”, avrebbe consentito a CMC di avvalersi della previsioni dell’art. 186-bis, comma 6, della legge fallimentare, atteso che, rivestendo la stessa la posizione di mandataria del raggruppamento, sarebbe comunque rimasta la condizione di perdita dei requisiti di cui all’art.38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006.

Con il primo motivo di gravame è stata dedotta l’erroneità della sentenza, in quanto gli effetti del decreto di omologazione retroagirebbero alla data di presentazione dell’istanza di concordato e ciò varrebbe non solo per le obbligazioni assunte nei confronti dei creditori, ma anche per la situazione giuridica dell’operatore economico, trattandosi di una fattispecie unitaria tesa a garantire la continuità aziendale dell’impresa. Una volta omologato il concordato non solo il soggetto dovrebbe ritenersi tornato in bonis ad ogni effetto di legge, senza alcuna limitazione di sorta, per quanto dovrebbero ritenersi definitivamente cessati anche i rischi di inaffidabilità economica e finanziaria dell’impresa – anche nel suo eventuale ruolo di mandataria – che avrebbero messo in discussione il rapporto con l’amministrazione appaltante nella fase di esecuzione dei lavori e che, secondo la Corte Costituzionale (cfr. sentenza del 7 maggio 2020 n. 85), renderebbero costituzionalmente legittimo il divieto stabilito dall’art. 186 bis, sesto comma, della L.F., che, pertanto, una volta intervenuta la omologa come nella specie, non troverebbe applicazione.

Inoltre, secondo le appellanti, l’apertura della procedura concorsuale consisterebbe in un avvenimento sopravvenuto all’aggiudicazione della gara (del 16 dicembre 2016) e indipendente dalla volontà dell’aggiudicatario, peraltro conclusasi anche con la positiva omologazione da parte del Tribunale, e dunque non potrebbe rilevare al fine di far venir meno i requisiti in capo all’aggiudicataria medesima.

La censura è infondata, atteso che l’omologazione del concordato non determina il ritorno in bonis dell’azienda e non consente di eludere la portata normativa del combinato disposto delle norme succitate (art. 186-bis, comma 6, della legge fallimentare e art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. 163 del 2006).

Giova ricordare che la Corte di Cassazione ha statuito che “la chiusura del concordato che ai sensi dell’articolo 181 L. F., fa seguito alla definitività del decreto o della sentenza di omologazione, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto, durante il corso della procedura, dall’articolo 167, non comporta (salvo che alla data dell’omologazione il concordato sia stato già interamente eseguito) l’acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio, che resta vincolato all’attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il Commissario Giudiziale, come espressamente stabilito dall’articolo 185, è tenuto a sorvegliare l’adempimento, “secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto) di omologazione” (Cassaz. civ., sez. I, ordinanza 10 gennaio 2018, n. 380).

La fase di esecuzione, nella quale si estrinseca l’adempimento del concordato, come si desume dalla stessa rubrica dell’articolo 185, non può ritenersi separata rispetto alla fase procedimentale che l’ha preceduta: l’assoggettamento del debitore, dopo l’omologazione, all’osservanza del provvedimento giurisdizionale emesso ai sensi dell’articolo 180, implica infatti la necessità che egli indirizzi il proprio agire al conseguimento degli obiettivi prefigurati nella proposta presentata ed approvata dai creditori.

Riguardo alle procedure di evidenza pubblica è stato chiarito che se l’operatore economico in concordato preventivo con continuità aziendale, che intenda partecipare ad una procedura di gara, non ha richiesto la necessaria autorizzazione al Tribunale durante la procedura (sin dalla presentazione del ricorso), ovvero se detta autorizzazione non possa ricavarsi dall’omologazione del concordato, egli, intervenuta la pronuncia di omologazione, dovrà richiedere l’autorizzazione al giudice delegato, come prescritto dall’art. 110, comma 3, del codice dei contratti pubblici, ovvero presentare domanda di partecipazione alle condizioni di cui all’art. 186, bis, comma 5 della L.F. (Cons. Stato, sez. V, 3 gennaio 2019, n. 69).

Da tanto consegue che, intervenuta l’omologazione del concordato, l’operatore economico non riacquista la piena capacità di agire, che avrebbe in assenza della procedura, e che tale capacità è raggiunta solo con il decreto che accerta l’adempimento del piano concordatario.

Sotto altro profilo deve rilevarsi che, nel caso di specie, fino all’approvazione del progetto definitivo, la gara doveva considerarsi ancora in corso, non essendo stata completata la produzione dell’offerta, di cui il progetto definitivo costituiva elemento essenziale, e non essendo perciò ancora divenuta efficace l’aggiudicazione, subordinata alla suddetta condizione sospensiva.

Invero, l’art. 53, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006 prevedeva la presentazione del progetto definitivo in sede di offerta, così che esso costituiva non un elemento della prestazione dedotta in contratto (e dunque non una obbligazione contrattuale), ma un elemento dell’offerta, che non poteva sottrarsi al giudizio della stazione appaltante.

Anche nella fattispecie in questione l’art.1 del capitolato prevedeva come oggetto del contratto la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di gara.

L’art. 7.5.2. del disciplinare di gara, recante “Conseguenze giuridiche dell’aggiudicazione definitiva” disponeva, inoltre, al punto b) che: “fermo restando quanto previsto all’articolo 7.5.1, ai sensi dell’articolo 168, comma 1 e comma 11, del d.P.R. n. 207 del 2010 l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva è altresì subordinata all’ottenimento dei pareri tecnici e amministrativi inerenti l’intervento e di ogni altro atto di assenso, comunque denominato, con riferimento al progetto definitivo dell’aggiudicatario, alla sua verifica positiva di cui all’articolo 112 del decreto legislativo n. 163 del 2006” e al successivo punto c) che “nell’ambito dei procedimenti di cui alla lettera b) sono compresi, a titolo esemplificativo e non esaustivo: la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), previa redazione dello Studio di Impatto Ambientale (SIA), a cura e spese dell’aggiudicatario”.

La Regione Lombardia ha sostituito il procedimento di VIA con il PAUR, ovvero il procedimento unico per il rilascio di tutte le autorizzazioni ambientali necessarie, alla cui acquisizione era pertanto subordinata l’aggiudicazione definitiva e che costituiva presupposto per la stipulazione del contratto.

Anche l’art. 13 del capitolato di gara, sottoscritto da CMC, disciplinava nello specifico la “Progettazione Definitiva” e al comma 8, espressamente disponeva che “il contratto può essere stipulato solo dopo l’acquisizione di tutti gli atti di assenso prescritti, comunque denominati e l’approvazione del progetto definitivo ai sensi del comma 5”.

Non è contestato che CMC avesse effettuato la sola progettazione definitiva delle opere approvata in sede di PAUR e che il progetto non era stato ancora approvato dalla Provincia, tant’è che solo il 16 marzo 2020, con il decreto n. 3398, la Regione Lombardia rilasciava il Provvedimento Autorizzatorio Unico Regionale (PAUR) relativo al progetto definitivo redatto dalle ricorrenti. La presentazione della domanda di concordato e anche l’ammissione al concordato in continuità sono pertanto intervenuti prima dell’approvazione del progetto definitivo, con la conseguenza che l’aggiudicazione del 21 dicembre 2016 non era divenuta efficace prima che fosse stata accertata la perdita dei requisiti della CMC Ravenna, intervenuta ancora in fase di gara.

Deve aggiungersi che su ordinanza del Consiglio di Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3938, che dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 186 – bis, comma 6, R.d. 16 marzo 1942, n. 267, aggiunto dall’art. 33, comma 1, lett. h), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella l. 7 agosto 2012, n. 134, nella parte in cui prevede che “Fermo quanto previsto dal comma precedente, l’impresa in concordato può concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non rivesta la qualità di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al raggruppamento non siano assoggettate ad una procedura concorsuale”, la Corte Costituzionale, con sentenza del 7 maggio 2020, n. 85, ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 186-bis, comma 6, l. fall., censurato per violazione degli artt. 3,41 e 97 Cost., nella parte in cui esclude dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici l’impresa in concordato preventivo con continuità aziendale che rivesta la qualità di mandataria di un r.t.i. Secondo il giudice delle leggi il differente trattamento riservato all’impresa mandataria di un RTI in concordato di continuità trova giustificazione, nella prospettiva del legislatore, nella diversa modalità della sua partecipazione alla gara e, in caso di aggiudicazione, al rapporto contrattuale, rispetto alla partecipazione dell’impresa che concorra rispettivamente in forma singola, o in qualità di mandante di un r.t.i., o anche come mandataria di imprese che si costituiranno in consorzio. Tale prospettiva non comporta un irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, in quanto non vi è dubbio che la diversa modalità di partecipazione non è indifferente dal punto di vista dell’interesse della stazione appaltante, per la quale segnatamente la posizione dell’impresa mandataria di un RTI assume rilievo e valore differenziato. Dell’amministrazione appaltante l’impresa mandataria costituisce infatti il diretto interlocutore per conto di tutte le imprese riunite, quale loro rappresentante esclusiva e quale garante, anche per conto delle mandanti, della corretta esecuzione dell’appalto. Né è configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica in quanto l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponde all’utilità sociale che va individuata nel perseguimento dell’interesse pubblico al corretto e puntuale adempimento delle prestazioni contrattuali. La conformità di tale scelta alla regola generale di non ammissione delle imprese soggette a procedure concorsuali ne esclude l’arbitrarietà e la palese incongruità rispetto allo scopo perseguito. La norma censurata è altresì coerente con l’interesse della stazione appaltante a scegliere il contraente più affidabile e capace di adempiere, in piena conformità, anziché in contrasto, con il principio di buon andamento.

Non merita favorevole considerazione la tesi degli appellanti secondo cui la norma de qua riguarderebbe soltanto i raggruppamenti già costituiti e non anche quelli costituendi, come nella specie, atteso che, essendo ammissibili entrambe le tipologie di raggruppamento, il fatto che sia già intervenuta o meno la costituzione del vincolo associativo è di per sé irrilevante ai fini dell’applicazione della predetta disposizione.

Sotto ulteriore concorrente profilo deve anche rilevarsi che la sentenza appellata ha correttamente dato atto che l’esecuzione dell’opera pubblica (oggetto del provvedimento di decadenza) non trovava riscontro nel senso che non risulta minimamente indicata né nel piano di concordato, né nella connessa relazione.

Le osservazioni svolte trovano peraltro conferma nella recentissima pronuncia dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato (27 maggio 2021, n. 11), secondo cui qualora, come nel caso di specie, l’impresa presenti la domanda di concordato dopo avere già presentato la domanda di partecipazione alla gara, deve chiedere al tribunale di essere autorizzata a continuare a partecipare alla procedura.

Sebbene la legge non indichi un termine per la presentazione di una tale istanza di autorizzazione, è del tutto ragionevole ritenere che, secondo un elementare canone di buona fede in senso oggettivo, l’istanza debba essere presentata senza indugio, anche per acquisire quanto prima l’autorizzazione ed essere nella condizione utile di poterla trasmettere alla stazione appaltante con la procedura ad evidenza pubblica ancora in corso.

Il legislatore, con l’art. 186 bis, comma 4, L.F., ha considerato nello specifico la partecipazione alla gara come un atto (ovvero, anche se non soprattutto, una condotta complessiva) da sottoporre comunque e sempre al controllo giudiziale del tribunale fallimentare.

La centralità e l’importanza che riveste l’autorizzazione del giudice fallimentare, ai fini della partecipazione alla gara, conduce a ritenere che il rilascio e il deposito di tale autorizzazione debba intervenire prima che il procedimento dell’evidenza pubblica abbia termine e cioè prima che sia formalizzata da parte della stazione appaltante la scelta del miglior offerente attraverso l’atto di aggiudicazione. Si tratta di una posizione già è stata fatta propria dalla giurisprudenza più recente (Cons. Stato, sez. V, n. 1328 del 2020) e che ha il pregio di individuare un limite temporale definito, idoneo ad assicurare l’ordinato svolgimento della procedura di gara, senza far carico all’amministrazione aggiudicatrice e agli altri concorrenti dei possibili ritardi legati ai tempi di rilascio (o di richiesta) dell’autorizzazione.

Nel caso di specie, come si è già osservato, l’esecuzione dell’opera pubblica non trovava riscontro o indicazione né nel piano di concordato, né nella connessa relazione; negli atti della procedura concorsuale il rapporto non era stato, invero, mai qualificato come contratto acquisito, né ne era stata autorizzata la prosecuzione, come avrebbe dovuto essere a fronte di un contratto in essere e pertanto l’autorizzazione non può considerarsi affatto acquisita.

Sono in definitiva corrette e condivisibili le conclusioni cui sul punto è giunto il Tribunale secondo cui: “Solo il piano finanziario contiene un riferimento all’appalto in questione, ma nell’ambito delle commesse non ancora definitivamente aggiudicate o contrattualizzate, tant’è che l’unico importo riportato nella relazione integrativa dei commissari giudiziali è quello di euro 538.562,00 corrispondente alle attività eseguite alla data del 03.12.2018. L’importo di oltre quaranta milioni di euro relativo all’esecuzione dei lavori non trova alcuna previsione tra i possibili ricavi derivanti dall’ammissione al concordato in continuità nella documentazione in atti, con la conseguenza che deve ritenersi non provata la circostanza della previsione delle somme derivanti dall’esecuzione dell’appalto come futuro ricavo atteso dalla prosecuzione dell’attività di impresa.

Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che, come già più volte evidenziato, il disciplinare di gara prevedeva espressamente che “l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva è altresì subordinata all’ottenimento dei pareri tecnici e amministrativi inerenti l’intervento e di ogni altro atto di assenso, comunque denominato, con riferimento al progetto definitivo dell’aggiudicatario, alla sua verifica positiva di cui all’articolo 112 del decreto legislativo n. 163 del 2006” nonché “alla successiva approvazione dello stesso progetto definitivo da parte del competente organo della Stazione appaltante” (paragrafo 7.5.2 del disciplinare): nessuna obbligazione contrattuale è, dunque, sorta tra la Provincia di Brescia e le odierne ricorrenti…”.

Con il secondo motivo di gravame le appellanti hanno dedotto l’erroneità della sentenza perché non avrebbe considerato che il tempo trascorso tra l’aggiudicazione definitiva e la decadenza, nonché i lavori svolti per la progettazione definitiva, elementi che avrebbero ingenerato nei loro confronti un legittimo affidamento e comunque fondato un diritto di rivalsa almeno per le spese di progettazione.

Anche tale motivo è infondato.

Come correttamente ritenuto dal giudice di prime cure, non può ravvisarsi alcun legittimo affidamento nella posizione dell’appellante, in quanto era noto fin dalla presentazione della domanda di partecipazione che le attività poste in essere per addivenire all’approvazione del progetto definitivo avrebbero potuto trovare compensazione solo laddove tale approvazione fosse effettivamente intervenuta, rimanendo a carico del partecipante alla gara ogni attività posta in essere nel caso di impossibilità di completare l’offerta con la presentazione di un progetto definitivo suscettibile di approvazione.

E’ stato del resto sottolineato che “Dall’ordinaria revoca dei provvedimenti amministrativi, oggi disciplinata dal citato art. 21- quinques, vanno distinte le fattispecie di “revoca – sanzione” o “revoca – decadenza”, mediante le quali l’amministrazione può disporre, nei casi previsti dal legislatore, il ritiro di un provvedimento favorevole come specifica conseguenza della condotta del destinatario, quando essa violi specifiche previsioni normative; in questi casi, infatti la revoca non dipende da valutazioni di opportunità, ma è la conseguenza (vincolata) di una violazione della legge. E’ evidente come in queste ipotesi, non si pone neanche il problema della corresponsione di un indennizzo, essendo il ritiro del provvedimento legato ad una condotta addebitabile alla parte privata, e non certo a valutazioni di opportunità da parte dell’amministrazione” (Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 2010, n. 4534).

Con il terzo motivo di gravame le appellanti lamentano l’erroneità della sentenza, che non avrebbe tenuto conto del verificarsi di una situazione sopravvenuta – dipesa da un evento non volontario, quale l’apertura di una procedura concorsuale, che, peraltro, si è conclusa positivamente con la omologa in data 29 maggio 2020 – che avrebbe reso pienamente ammissibile la sostituzione della mandataria per sopravvenute esigenze organizzative ai sensi dell’art. art. 48, comma 17 e ss., del d.lgs. n. 50 del 2016, applicabile nella specie in ragione della conclusione della gara sin dal mese di dicembre 2016.

Anche tale censura è infondata, in considerazione del fatto che il contratto non era stato concluso, né si era perfezionata l’aggiudicazione, atteso che la procedura concorsuale era ancora nella fase riconducibile a quella della verifica dell’offerta, non potendo, dunque, trovare applicazione la succitata disposizione normativa. Peraltro, ai sensi dell’art. 48, comma 17, del d.lgs. n. 50 del 2016: “la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purchè abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto”. La sostituzione della mandataria non costituisce, quindi, un obbligo per la stazione appaltante, ma può essere concessa previa verifica del possesso dei requisiti di qualificazione in capo al nuovo mandatario designato e sempre in conseguenza di una richiesta in tal senso da parte dell’ATI proponente.

E’ stato invero affermato che “Né ha pregio l’assunto difensivo di C.M.C. secondo cui ai sensi dell’art. 48, comma 17, del d.lgs. n. 50 del 2016 dovrebbe essere la stazione appaltante a richiedere la sostituzione del soggetto mandatario, avendo tale norma un differente campo di applicazione oggettivo, e comunque limitandosi a consentire la prosecuzione del rapporto con altro operatore, con ciò sottintendendo un’iniziativa della parte interessata, che nel caso di specie è mancata” (Cons. Stato, sez. V, 27 luglio 2020, n. 4785).

Nella fattispecie in questione tale circostanza non si è verificata, atteso che il raggruppamento appellante non ha mai avanzato tale richiesta, neppure successivamente all’avvio del procedimento di decadenza, ritualmente comunicato a tutti i componenti con la concessione di un termine per la presentazione di osservazioni.

Dall’infondatezza degli esaminati motivi di gravame consegue altresì l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno per l’assunta illegittimità dell’operato della stazione appaltante.

In conclusione l’appello va respinto.

Sussistono giusti motivi, per la peculiarità della controversia e per le sostanziali novità delle questioni, per compensare integralmente fra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2021, tenuta con le modalità previste dagli artt. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, come modificato dall’art. 6, comma 1, lett. e), del decreto-legge 1 aprile 2021, n. 44, con l’intervento dei magistrati:

Carlo Saltelli, Presidente

Angela Rotondano, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere

Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere

Elena Quadri, Consigliere, Estensore

 

L’ESTENSORE   IL PRESIDENTE
Elena Quadri   Carlo Saltelli

IL SEGRETARIO

 

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