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 Il Messaggero del 3 settembre 2021 nell’articolo “Pronto il contratto per gli statali: aumenti in arrivo” ci informa: 

 

Insomma, progressioni verticali, cioè promozioni verso categorie più elevate, per tutti. Ma, proprio tutti: anche a prescindere dal titolo di studio posseduto.

Un ritorno ad una passata e deleteria disciplina delle progressioni verticali, che era stata fermata, nel 2009, dal Ministro Brunetta, che sostituì a concorsi interni, molto spesso solo di facciata, aperti anche a chi non disponesse del titolo di studio per accedere dall’esterno, con concorsi pubblici con riserva limitata di posti, per i quali fosse strettamente necessario, invece, il titolo di studio.

Sono passati 12 anni e la virata di 180 gradi appare tanto inarrestabile, quanto sorprendente. Non si riesce a capire, infatti, quale sia il nesso logico tra:

  1. una riforma dei concorsi, per altro molto rabberciata e confusionaria, volta a consentire alle PA di reperire in fretta “le migliori professionalità” che nella PA mancano, a causa dell’elevata età media dei dipendenti e, soprattutto, delle carenze generalizzate di competenze, in particolari in temi manageriali, economici e digitali;
  2. la possibilità di riservare, però, il 50% delle possibili assunzioni appunto a progressioni verticali, cioè procedure riservate solo a chi già dipenda dalla PA, per altro selezionabile persino se carente del titolo di studio necessario per l’accesso mediante concorso pubblico

Se si consente ad una vastissima platea di dipendenti pubblici di salire di carriera anche senza titolo di studio, non si comprende perchè, allora, si urli continuamente alla mancanza di competenze e qualità, tanto da spingere verso concorsi frettolosamente gestiti. Che, per altro, puntano moltissimo proprio sui titoli di studio, come elemento qualitativo.

Progressioni verticali ampie e diffuse, come quelle che si paventano, porteranno al paradosso della convivenza, in medesime qualifiche, di personale reclutato sulla base di titoli ed esperienze di eccellenza, con personale vecchio, privo di titoli e sostanzialmente per sola anzianità.

Come si pensa di poter davvero innovare e rendere efficiente la PA con queste paradossali contraddizioni in termini?

Ma, poi, dove, concretamente, il “decreto reclutamento” consente le progressioni verticali anche senza titolo di studio? Leggiamo la norma:

 

Che il decreto reclutamento manifesti indirettamente l’intenzione di estendere a dismisura le progressioni verticali appare evidente. Ma, oggettivamente, pare che esse debbano favorire addirittura titoli maggiori rispetto a quelli necessari per l’accesso. La norma non parla affatto, in modo espresso quanto meno, di progressioni per chi non disponga dei titoli. Nell’ultima parte si consente ai contratti collettivi nazionali di rivedere l’ordinamento professionale con nuovi inquadramenti: solo in questo caso si potrebbe prescindere dal titolo di studio necessario per i concorsi.

Forse, l’articolo del Messaggero equivoca. Forse no. Di certo, evidenzia quello che era apparso ai primi osservatori e cioè che come minimo sarà il riordino delle carriere a determinare un’ondata di promozioni verso qualifiche più elevate anche a chi sia privo di titolo di studio e, per giunta, senza nemmeno doversi scomodare a svolgere la procedura comparativa che sostituisce i concorsi con riserva di posti nelle progressioni verticali. Ma che arda sotto la cenere una voglia di più progressioni verticali per tutti, sembra evidentissimo. Come evidente è che la PA non riesce a liberarsi delle proprie inefficienze e dei propri paradossi.

 

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