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Militari, forze armate e di polizia – Procedimenti disciplinari – Inizio – Conseguente a commissione di reato – Dies a quo termine del termine ex art. 1392, comma 3, d.lgs. 66 del 2010 – Sentenza della Corte di Cassazione dichiarativa della inammissibilità del ricorso – Individuazione. 

 

       Il termine previsto dall’art. 1392, comma 3, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 per l’inizio dell’azione disciplinare a carico di un militare, conseguente ad un fatto di rilevanza penale, ha natura perentoria e, nel caso di sentenza della Corte di cassazione dichiarativa della inammissibilità, decorre nel momento in cui l’Amministrazione ha avuto cognizione del dispositivo della sentenza, senza che possa, in alcun modo, assumere rilevanza la successiva acquisizione cognitiva della motivazione della pronunzia di inammissibilità di che trattasi (1). 

(1) Ha ricordato la Sezione che consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato – in piena conformità, del resto, al chiaro disposto del comma 3 dell’art. 1392, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 – ha specificato (6 novembre 2020, n. 6828 e 13 ottobre 2020, n. 6153), che il termine di 270 giorni di che trattasi decorre dalla conoscenza integrale della sentenza irrevocabile di condanna.

In fatti l’art. 1392, comma 3, d.lgs. n. 66 del 2010, laddove indica – quale dies a quo del termine per il radicamento e la definizione del procedimento disciplinare di stato – “la data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che lo concludono”, fa evidentemente riferimento a una conoscenza giuridicamente certa, che può derivare solo dall’acquisizione di copia conforme della sentenza, completa dell’attestazione di irrevocabilità; mentre la norma stessa non individua un termine entro il quale l’Amministrazione debba provvedere all’acquisizione documentale, oltretutto dipendente dai tempi necessari alle cancellerie degli uffici giudiziari per evadere le richieste (Cons. Stato, sez. IV, 1° ottobre 2019, n. 6562 e 17 luglio 2018, n. 4349).

Dal tenore della disposizione, deve quindi ritenersi che il termine d’inizio dell’azione disciplinare coincida con il momento in cui l’Amministrazione ha avuto a disposizione il testo integrale della sentenza penale, completa della parte motiva (cfr., ulteriormente, Cons. Stato, sez. IV, 1° ottobre 2019, n. 6562; 26 febbraio 2019, n. 1344; 4 ottobre 2018, n. 5700; 17 luglio 2018, n. 4349).

La condivisione di tale orientamento, impone tuttavia di indagarne la ratio ispirativa.

La formulazione della disposizione, vigente ratione temporis, che “congelava” il procedimento disciplinare fino alla definizione di quello penale (art. 1393, comma 1, d.lgs. n. 66 del 2010, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 124 del 2015 e dal d.lgs. n. 91 del 2016) non è esattamente coincidente con quella relativa alla disciplina dei termini di avvio e conclusione del procedimento disciplinare di stato a seguito di giudizio penale (art. 1392, comma 1, del medesimo Codice militare).

La conoscenza integrale della sentenza, da parte dell’Amministrazione, segna l’inizio della decorrenza del termine, di natura perentoria, per la promozione o il promovimento dell’azione disciplinare; ed è stabilito: da un lato, per consentire all’Amministrazione di avere un’esatta cognizione dei fatti accertati in sede penale;  dall’altro, per garantire all’incolpato che la contestazione avvenga senza ritardo rispetto a tale conoscenza.

Se è, quindi, vero che, ai fini della contestazione degli addebiti, il termine non inizia a decorrere prima che siano esauriti tutti gli incombenti della fase o del grado del procedimento penale (che si realizza con il deposito della sentenza completa di motivazione), l’eventuale “contestazione” all’atto della conoscenza del solo dispositivo della sentenza irrevocabile non incorre in alcuna preclusione, poiché il principio di pregiudizialità presuppone soltanto l’esistenza di un procedimento penale non ancora definito (Cons. Stato, sez. IV, 20 febbraio 2020, n. 1273).

Deve, conseguentemente, ritenersi che l’avvio del procedimento disciplinare non soltanto possa, ma debba avvenire nel momento in cui l’Amministrazione abbia acquisito la certezza della definitività della condanna: la finalità della disposizione anzidetta, con ogni evidenza risiedendo nell’esigenza che l’esercizio del potere disciplinare, fin dalla sua fase genetica, sia assistito dalla piena cognizione (della consistenza e qualità) dei fatti in sede penale ascritti al dipendente, nonché del complesso di circostanze acquisite al giudizio, conclusosi con sentenza di condanna (ossia, dal momento in cui l’Amministrazione ha avuto esatta cognizione dei fatti accertati in quella sede, al fine di poter essere in grado di valutare, in maniera adeguata, tutti gli elementi utili per condurre la successiva azione amministrativa: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2015, n. 2853).

Ha peraltro chiarito la Sezione che laddove il giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione si concluda non già con una sentenza di reiezione del gravame, bensì con una sentenza dichiarativa dell’inammissibilità (per qualunque ragione) del ricorso, con accessiva statuizione del già avvenuto passaggio in giudicato, in toto, della pronunzia resa dalla Corte di Appello l’esigenza conoscitiva di che trattasi va ricondotta necessariamente, per una suprema e inderogabile esigenza di intrinseca coerenza dell’ordinamento giuridico, alla pronunzia di secondo grado: rispetto alla quale la sentenza in rito della Cassazione, per sua stessa definizione, non può introdurre alcun profilo modificativo, con riferimento agli elementi suscettibili di valutazione in sede disciplinare (ovvero: la sussistenza del fatto, l’illiceità penale e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso; ma neppure alcuna ulteriore qualificazione o contestualizzazione del fatto medesimo).

Se, dunque, l’Amministrazione è tenuta ad avviare il procedimento disciplinare dal momento in cui la commissione del fatto e la sua qualificazione come reato siano divenuti incontrovertibili per effetto del formarsi del giudicato, ne deriva che, a fronte della comunicazione del dispositivo della sentenza della Cassazione, il termine per l’avvio del procedimento andava, nella fattispecie all’esame, a coincidere con tale data; senza che potesse, in alcun modo, assumere rilevanza la successiva acquisizione cognitiva della motivazione della pronunzia di inammissibilità di che trattasi.

La ritenuta non ammissibilità del ricorso in Cassazione esclude, infatti, che la conseguente pronunzia in rito – lungi dal limitarsi ad esaminare, esclusivamente, il contenuto del proposto ricorso – altrimenti attinga al contenuto della sentenza di appello (la quale, infatti e conseguentemente, viene ad essere integralmente coperta dal giudicato per effetto della suindicata definizione, dichiaratamente in rito, del ricorso per Cassazione).

Con il corollario che, in tali casi, ove per avventura la successiva motivazione della sentenza di inammissibilità – quand’anche per argomentare sulla qualificazione (invero concettualmente spuria, ma ormai del tutto consolidata nel c.d. diritto vivente, della Cassazione penale) del ricorso in termini di “manifesta infondatezza”, onde fondarvi la prefata declaratoria in rito invece che un (dogmaticamente forse più corretto) rigetto nel merito – dovesse indulgere a qualsivoglia considerazione circa i fatti oggetto della (già definitiva) condanna penale, ciò non potrebbe che considerarsi in termini di obiter dicta, ossia di valutazione di natura non giudiziaria, proprio perché successiva alla già verificatasi formazione del giudicato (riferito alla sentenza d’appello) e come tale non passibile di considerazione alcuna (giuridicamente rilevante) nel successivo procedimento disciplinare

Cons. St., sez. II, 16 agosto 2021, n. 5893 – Pres. De Francisco, Est. Politi

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