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Sia che l’opposizione di terzo segua cronologicamente all’appello, sia che lo preceda, una volta che c’è l’appello, l’opposizione del terzo deve confluire nel giudizio di appello, e si converte in atto di intervento in appello (1). 

         E’ legittimo che Autorità marittime e portuali si avvalgano della consulenza del chimico nell’espletamento delle funzioni relative alla sicurezza dei porti e delle rade connesse alle operazioni di carico, scarico dalle navi con merci pericolose ed al relativo trasbordo, deposito e movimentazione; l’attività dei detti chimici implica la necessità di un rapporto fiduciario con la Pubblica amministrazione di riferimento  (2). 

 

(1) Legittima questa conclusione un dato letterale.

Nello stesso art. 109, comma 2, c.p.a. laddove afferma che “se l’opposizione di terzo è già stata proposta al giudice di primo grado”(evidenza del presente redattore), questo la dichiara improcedibile e assegna un termine all’opponente per l’intervento in appello. Quel “già stata proposta” consente di rimandare non solo e non tanto al caso del terzo che sbagliando fa opposizione di terzo al giudice a quo, mentre già pende un altrui appello, ma anche e soprattutto al caso di una opposizione di terzo correttamente proposta al giudice a quo, alla quale tuttavia segue un altrui appello. In entrambi i casi, il processo contro la sentenza deve essere unico, e tutte le impugnazioni devono confluire in una stessa e unica sede. Il legislatore opta per il primato dell’appello.

Nel caso oggetto della presente disamina se il terzo avesse fatto opposizione davanti al Tar, siccome è sopraggiunto l’appello incidentale dell’Autorità portuale (incidentale solo per un caso cronologico, ossia perché successivo all’appello principale, se non ci fosse stato il quale, l’Autorità avrebbe fatto appello principale), comunque l’opposizione sarebbe stata dichiarata improcedibile e il terzo doveva intervenire in appello, cioè nell’ambito di questo procedimento. 

(2) Ha chiarito il Cga che non esiste, a livello primario, una definizione normativa del “consulente chimico di porto”.

L’art. 68 del codice della navigazione (“vigilanza sull’esercizio di attività nei porti”) si limita a precisare che “coloro che esercitano un’attività nell’interno dei porti ed in genere nell’ambito del demanio marittimo sono soggetti, nell’esplicazione di tale attività, alla vigilanza del comandante del porto”; e che “il capo del compartimento, sentite le associazioni sindacali interessate può sottoporre all’iscrizione in appositi registri, eventualmente a numero chiuso, e ad altre speciali limitazioni coloro che esercitano le attività predette”.

Nella prassi si è parlato di consulenti chimici o di periti chimici di porto, ma senza che tali definizioni siano state mai ancorate a professioni specifiche o al possesso dell’iscrizione a specifici albi professionali.

Solo a partire del 1991 (D.M. 22 luglio 1991 – “norme di sicurezza per il trasporto marittimo alla rinfusa di carichi solidi”) è stato fatto formale riferimento alla figura del “consulente chimico di porto”, ma fornendone la semplice, generica definizione che segue: “1.25 Consulente chimico di porto: il consulente iscritto nel registro di cui all’articolo 68 del codice della navigazione”.

Anche nel d.lgs. n. 272 del 27 luglio 1999 (“adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori nell’espletamento di operazioni e servizi portuali, nonché di operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi in ambito portuale, a norma della L. 31 dicembre 1998, n. 485”) si fa riferimento – per la prima volta, a livello primario – al “consulente chimico di porto”, ma senza alcuna indicazione in ordine agli specifici requisiti professionali che il medesimo deve possedere (non diversamente, nel d.m. del 31 ottobre 2007 viene utilizzata, nella Sezione 1, n. 1.25, la stessa definizione contenuta nel D.M. 22 luglio 1991: “Consulente chimico di porto – il consulente iscritto nel registro di cui all’articolo 68 del codice della navigazione”).

In tale contesto, caratterizzato dal fatto che viene individuata un’attività professionale da svolgersi in seno ai porti senza alcuna precisazione in merito ai titoli che, a tal fine, devono essere posseduti, il Ministero dei trasporti e della navigazione ha emanato la circolare relativa alla “disciplina dell’attività dei consulenti chimici di porto” (diretta alle Capitanerie di porto ed alla Autorità portuali) n. 1160 del 10 dicembre 1999, nella quale è stato precisato che “i consulenti chimici per operare in ambito portuale devono essere iscritti nel registro istituito ai sensi dell’art. 68 cod. nav. del capo del circondario marittimo o dall’autorità portuale dove istituita”

Quanto alle attività del consulente chimico di porto, esse sono, dalla detta circolare, descritte come segue:

“accertano le condizioni di pericolosità delle navi relativamente alla presenza di vapori gas pericolosi (infiammabili, tossico nocivi ecc.); accertano le condizioni di pericolosità per l’ingresso degli uomini nelle cisterne, nei serbatoi……; accertano le condizioni di pericolosità per lavori meccanici a freddo e/o con fonti termiche e/o per l’immissione delle navi in bacino; accertano che i residui solidi o liquidi della bonifica o degassificazione non presentino pericolosità agli effetti di incendi, esplosioni, corrosività o tossicità; rilasciano, determinandone la durata di validità, i relativi certificati attestanti i risultati degli accertamenti effettuati; esprimono pareri su richiesta dell’autorità competente per quanto concerne la sicurezza in ambito portuale, in merito alle merci pericolose e in tutti i casi previsti dalla normativa……in materia di sicurezza della nave e del porto; compiono gli accertamenti per il rilascio dei certificati attestanti lo stato di sicurezza richiesto per effettuare il lavaggio delle cisterne…..”.

In assenza di una certa definizione giuridica della figura professionale del consulente chimico di porto, diviene indispensabile analizzare l’attività dagli stessi effettivamente svolta nell’ambito del demanio portuale per rilevarne la valenza pubblica o meno.

A tal fine occorre esaminare il d.lgs. 27 luglio 1999, n. 272 concernente l’adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori ed i compiti che vengono affidati all’Autorità portuale.

L’art. 22 dello stesso decreto dispone che: “L’Autorità, sentita l’azienda unità sanitaria locale competente, stabilisce i tempi, i limiti e le modalità’ relativi al deposito temporaneo delle merci pericolose nelle aree portuali in attesa di imbarco o di deflusso”.

E’ demandato all’Autorità Portuale, ovviamente tramite i c.c.p., il compito di disciplinare le procedure di deposito delle merci pericolose nelle aree ricadenti nell’ambito Portuale sotto la giurisdizione dell’Autorità Portuale;

Ulteriori compiti vengono affidati con il d.lgs. 27 luglio 1999, n. 271 concernente l’adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori marittimi a bordo delle navi mercantili e da pesca nazionali, a norma della l. 31 dicembre 1998, n. 485.

L’attività svolta dai consulenti chimici di porto, anche a seguito dell’emanazione dei suddetti decreti, ha assunto una crescente rilevanza in considerazione della vigente normativa in materia di merci pericolose, finalizzata alla sicurezza della nave, delle operazioni portuali, e di chi nel porto lavora o vi transita.

E’, pertanto, legittimo che le Autorità marittime e portuali si avvalgano della consulenza del chimico nell’espletamento delle funzioni relative alla sicurezza dei porti e delle rade connesse alle operazioni di carico, scarico dalle navi con merci pericolose ed al relativo trasbordo, deposito e movimentazione. L’attività dei detti chimici implica la necessità di un rapporto fiduciario con la Pubblica amministrazione di riferimento. 

Cga 2 luglio 2021, n. 639 – Pres. de Nictolis, Est. Caleca

 

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