03/06/2021 – Conseguenze dello svolgimento di attività extraistituzionali non autorizzate nel pubblico impiego. Pronuncia del Consiglio di Stato.

Lo svolgimento di incarichi extraistituzionali in assenza di autorizzazione implica conseguenze per tutti i soggetti coinvolti nella vicenda. Il versamento dei compensi all’Amministrazione di appartenenza avviene da parte del dipendente ove li abbia già percepiti, ovvero di chi ha conferito l’incarico, non potendo il beneficio della previa escussione dello stesso risolversi in un’indebita locupletatio del primo, ove abbia già introitato le relative somme. La controversa natura della misura in questione, che comunque sottintende una componente sanzionatoria del dovere di esclusività del rapporto di pubblico impiego, prescinde sia dalla verifica della sussistenza di un danno effettivo per la p.a. di appartenenza, sia da valutazioni di colpevolezza, che attengono alle eventuali diverse fattispecie di danno erariale con cui può concorrere. La disposizione trova applicazione anche nei confronti del personale militare e delle forze di polizia di Stato, non essendo necessario un ulteriore rinvio alla disciplina generale contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001 (T.u.p.i.) una volta che ciò sia stato espressamente previsto all’interno dello stesso per tutto il personale non contrattualizzato (art. 53, comma 6).

La configurazione come illecito erariale del mancato versamento dei compensi derivanti da attività extraistituzionale da parte del dipendente pubblico, inserita nel d.lgs. n. 165 del 2001 con la l. n. 190 del 2012, costituisce un’ipotesi di “continuità regolativa” tra giurisprudenza e legislatore (Cass., SS.UU., 22 dicembre 2015, n. 25769). Essa si riferisce tuttavia all’obbligo di versamento del tantundem indebitamente percepito dal dipendente, ovvero versato dall’ente conferente, di natura sanzionatoria della violazione della normativa regolante l’autorizzazione degli incarichi extraistituzionali, distinto dall’illecito erariale che consegue alla sua violazione, in quanto la relativa condotta omissiva provoca un depauperamento delle casse pubbliche rispetto a somme che il legislatore assegna loro con totale automatismo (Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, 31 luglio 2019, n. 26). Il mutamento del quadro legislativo non impatta pertanto sulle rivendicate pregresse incertezze in punto di giurisdizione, giustificando il mutato orientamento personale rispetto all’originario incardinamento della causa presso il giudice amministrativo, anziché quello contabile.

Ha chiarito la Sezione che il regime giuridico ordinario per poter legittimamente svolgere un’attività extraistituzionale è il conseguimento di un’autorizzazione preventiva da parte della propria Amministrazione, la mancanza della quale determina una serie di conseguenze nei confronti di tutti i soggetti interessati alla vicenda. Se l’incarico retribuito è conferito da una pubblica amministrazione, ad esempio, ovviamente diversa da quella di appartenenza dell’interessato, il provvedimento di conferimento, ai sensi dell’art. 53, comma 8, d.lgs. n. 165 del 2001 costituisce infrazione disciplinare ed è nullo di diritto. Una lettura delle norme nel loro complesso ne evidenzia la finalità di dissuasione, in generale, del fenomeno dell’assunzione di incarichi extraistituzionali retribuiti, in quanto contrario al dovere di esclusività del rapporto del pubblico dipendente con l’amministrazione, discendente dall’art. 98, comma 1, Cost., nonché alla necessità di evitare situazioni di conflitto di interessi o di assoluta incompatibilità con l’attività principale svolta presso l’amministrazione di appartenenza. Il comma 7 dell’art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001 impone al dipendente pubblico di restituire automaticamente all’Amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione, prescindendo dalla tipologia di attività svolta e dunque in maniera pressoché meccanicistica rispetto al dato oggettivo di ridetta mancanza. Essa non è, dunque, norma che prevede una sanzione disciplinare, ma una misura reale di natura compensativa della condotta irregolare del dipendente, che ne destina preventivamente i compensi percepiti in assenza di una preventiva autorizzazione, funzionalizzandone anche l’utilizzo ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. La tutela risarcitoria dell’Amministrazione resta invece affidata alle previsioni del successivo comma 7-bis dell’art. 53, il quale prevede che la percezione irregolare di compensi per attività extraprofessionali costituisce danno erariale soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti. La norma si applica anche al personale militare, giusta l’esplicita previsione in tal senso contenuta nel comma 6 dell’art. 53, che estende la relativa disciplina «ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all’articolo 3». Mentre, dunque, in linea generale il personale in regime di diritto pubblico elencato all’art.3, nell’ambito del quale rientra anche quello militare e delle forze di polizia di Stato, resta assoggettato alle norme rivenienti dai rispettivi ordinamenti, ciò non vale per la disciplina delle conseguenze delle violazioni in materia di incompatibilità degli incarichi, espressamente estesa anche allo stesso. Né a tale ricostruzione osta la sopravvenuta formulazione dell’art. 896, d.lgs. n. 66 del 2010, che con riferimento alle attività extraistituzionali da svolgere previa autorizzazione da parte dei militari richiama espressamente i (soli) commi da 8 a 16-bis dell’art. 53 del T.u.p.i., omettendo di menzionare anche il comma 7. L’apparente difetto di coordinamento tra le due norme non può certo risolversi, infatti, in un’abrogazione del richiamo, interno alla norma, ai commi da 7 a 13, che si giustifica in ragione del diverso ambito di riferimento, ovvero tutto il pubblico impiego non contrattualizzato, non soltanto il personale delle forze armate. Una diversa interpretazione determinerebbe una inspiegabile e irragionevole disparità di trattamento a favore di quest’ultimo nei confronti di tutti gli altri dipendenti pubblici, anche non contrattualizzati, solo per i quali, non operando ridetta abrogazione, resterebbe fermo l’obbligo restitutorio.

Le originarie oscillazioni in ordine alla competenza a giudicare dell’omesso riversamento delle somme indebitamente introitate per attività extraistituzionali sono state definitivamente superate dalla richiamata novella del 2012 che nell’inserire nell’art. 53 del T.u.p.i. il comma 7-bis, ha esplicitamente qualificato come illecito erariale la relativa condotta. Al contrario, la responsabilità di che trattasi, se limitata all’inadempimento dell’obbligo di denuncia preventiva dell’incarico, senza che sia dedotta l’esistenza di conseguenze dannose per l’amministrazione di appartenenza, non possa sottrarsi alle ordinarie regole di riparto di giurisdizione e quindi, trattandosi qui di rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato, alla giurisdizione del giudice amministrativo. Solo la violazione dell’obbligo restitutorio, in quanto strumentale al corretto esercizio delle mansioni del dipendente, «può essere pertanto addotta come fonte di responsabilità amministrativa», come tale capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti (v. ancora Cass., SS.UU., 12579/2015). Il sistema delinea dunque un intreccio inscindibile tra le conseguenze dello svolgimento di attività extraistituzionale da parte dei pubblici dipendenti in difetto di autorizzazione datoriale. Esso crea, cioè, una fattispecie a formazione progressiva nella quale la prima condotta rileva obiettivamente, salvo se ne vogliano contestare i presupposti disconoscendo il diritto dell’Amministrazione alle reversali economiche imposte. Il primo segmento attiene alle scelte poste in essere dall’Amministrazione per evitare il danno erariale da mancato introito dei compensi illecitamente percepiti dal dipendente; il secondo le ragioni dell’omesso versamento, che implicano necessariamente la valutazione della liceità della condotta, sotto il profilo oggettivo (supposta non necessità dell’autorizzazione) o soggettivo (mancanza dell’elemento psicologico richiesto). L’elemento di criticità del sistema risiede caso mai nelle modalità di coinvolgimento della magistratura contabile, cui il privato dovrebbe rivolgersi autodenunciandosi ovvero diffidando l’amministrazione dal procedere coattivamente, in assenza di specifiche norme di settore, e così ponendosi nella condizione omissiva che il legislatore ha espressamente connotato come illecito erariale. La violazione del primo obbligo di per sé non provoca tuttavia alcun danno, potendo al più quest’ultimo conseguire a caratterizzazioni o esiti antigiuridici ulteriori delle condotte del pubblico dipendente, per le quali sono enucleabili altre e svariate ipotesi di danno erariale, «quali quello legato, ad esempio, all’indebita percezione, totale o parziale, di indennità incentivanti previste nel caso di svolgimento “a tempo pieno” per il datore di lavoro (indennità di svolgimento “a tempo pieno” per il datore di lavoro (indennità di esclusività, per esempio, prevista per i medici dipendenti dal S.S.N. o maggiore misura della retribuzione di posizione, differenziale retributivo per i professori universitari a tempo pieno rispetto a quelli a tempo definito), il danno da disservizio ovvero il danno all’immagine, ipotizzabile nel caso di incarichi in conflitto di interesse con l’amministrazione di appartenenza e non autorizzabili» (Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, 31 luglio 2019, n. 26).

Consiglio di Stato, Sez. II, sent. del 27 maggio 2021, n. 4091

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