26/10/2018 – Centri per l’impiego e i soliti slogan ad effetto sulla loro inefficienza

Centri per l’impiego e i soliti slogan ad effetto sulla loro inefficienza

Giungerà prima o poi un bel momento nel quale gli analisti e commentatori dei media generalisti saranno in grado di intervenire senza slogan e conoscendo bene ciò di cui discettano. In particolare in materia di centri per l’impiego e servizi per il lavoro.

Su Italia Oggi del 25 ottobre 2018 è pubblicato l’archetipo del commento molto salace sul tema dell’efficienza dei centri per l’impiego, intriso, tuttavia, di dati erronei, slogan gratuiti ed omissioni, tali da rendere al lettore un’idea totalmente falsata. Eppure, scopo dell’informazione è, appunto, informare, dare notizie ed elementi reali e concreti al lettore, perché conosca elementi che altrimenti non sarebbe in grado di conoscere.

L’articolo è a firma di Sergio Luciano col titolo “Con gli uffici di collocamento non si va lontano di sicuro”. Dato il tema, subito lo svolgimento: “un flop totale di questo sarchiapone burocratico che avrebbe dovuto sostituire i vecchi uffici, e che risponde appunto al nome di «Centro per l’impiego». In Italia sono ben 556, cinque per provincia, uno ogni centomila abitanti. Occupano la bellezza di 8 mila dipendenti all’anno e costano nell’insieme lo sproposito di 600 milioni di euro, ossia 75 mila ogni dipendete: il che vuol dire che sono uno stipendificio, tutto il loro costo se ne va in stipendi e uffici”.

Cominciamo con pazienza a verificare i dati. I Centri per l’impiego censiti dall’Anpal sono 552 e non 556. Errore veniale, certo.

Costano, secondo l’autore, lo “sproposito” di 600 milioni di euro. Nella realtà questo dato è la spesa aggregata per l’insieme delle politiche attive per il lavoro, composto di costi della gestione e costi per le politiche, cioè le azioni di aiuto alla ricerca di lavoro, come ad esempio l’Assegno di ricollocazione.

Quello che per l’autore dell’articolo è uno “sproposito”, in Germania ammonta ad oltre 9 miliardi, 15 volte di più della spesa italiana. A meno di non considerare i tedeschi degli sperperatori di denaro pubblico o dei fessi, se in una Nazione con la quale l’Italia intende competere la spesa complessiva per le politiche del lavoro è superiore di 15 volte, è un po’ arduo definire i 600 milioni spesi in Italia uno “sproposito”. A meno che non si intenda uno “sproposito” di spesa eccessivamente bassa. Che è esattamente una delle cause dell’inefficienza dei centri per l’impiego, ai quali si destinano risorse infime, per poi, però, bacchettarli.

Proseguiamo. I dipendenti sono “la bellezza” di circa 8.000. Se l’autore dell’articolo si fosse disturbato a guardare quanti sono sempre in Germania, avrebbe scoperto che lì, dove le politiche del lavoro sono una cosa seria ed un investimento, i dipendenti sono oltre 100 mila: 12 volte tanto. Dunque, “la bellezza” di che?

Glissiamo sulla media di spesa di 75.000 euro per dipendente, perché probabilmente l’autore dell’articolo ha inteso proporre il costo complessivo delle politiche del lavoro per singolo dipendente. E’ opportuno chiarire che la spesa per il personale è di circa 320 milioni di euro (come specifica l’Anpal), con un costo medio lordo, comprensivo di oneri riflessi, di circa 40.000 euro annui per dipendente, in linea con le medie del costo dei dipendenti pubblici.

Pertanto, lo “stipendificio” altro non è se non uno slogan, certamente tanto ad effetto quanto anche poco rispettoso dell’attività lavorativa di alcune migliaia di persone.

Perchè abbiamo confrontato i dati esposti dall’autore dell’articolo con quelli della Germania? Perchè l’articolo li ha sapientemente omessi, nel momento in cui parlava di costi e di numero di dipendenti addetti. Però, la Germania spunta improvvisamente fuori, quando l’articolo riporta i dati sull’efficienza: “attraverso questa rete elefantiaca di costi pubblici, appena il 3% dei disoccupati riesce a trovare un impiego. Niente rispetto ai numeri di Francia e Germania dove questa percentuale di risultato supera il 20%”.

Abbiamo visto che la Germania spende per politiche del lavoro e dipendenti utilizzati decine di volte di più dell’Italia. Non dovrebbe sorprendere se il livello di efficacia sia quasi simmetricamente inferiore, anche se, naturalmente, non debbono essere risparmiate critiche, sperando che siano però finalizzate al superamento del problema e non fine a se stesse.

L’articolo prosegue osservando che “I centri avrebbero dovuto servire, nel mondo utópico disegnato dalla riforma Renzi, a incrociare domanda e offerta, ma sono mancati i decreti attuativi. E i centri sono e restano del tutto appesi, sottoutilizzati”. Più che mancare i decreti attuativi, è mancata, si direbbe, la riforma della Costituzione che avrebbe dovuto completare il disegno del Jobs Act, incautamente realizzato dando per scontato che la riforma della Carta sarebbe entrata in vigore. In ogni caso, non capiamo: ma i Cpi servono? Se non servono, la critica è, quindi, per il loro “sottoutilizzo”? Ma, sottoutilizzo rispetto a cosa, se 600.000 di spesa viene considerata insostenibile, mentre in Germania la spesa per politiche attive è 15 volte superiore? Che connessione c’è tra le affermazioni dell’articolo?

Conclusione: “Insomma: «Un disastro in un settore complicatissimo», sottolinea Del Conte, «tanto che l’omologa struttura pubblica tedesca ha impiegato cinque anni per andare a regime». Chiaro? Su una cosa che i todeschi fanno in cinque anni, quanto tempo pretendiamo di stanziare noi italiani? Almeno il doppio. Roba che perfino Di Maio sarà diventato vecchio”. Ritorna la Germania nella chiosa. Che è condivisibile, nella parte in cui realisticamente sottolinea come non possano bastare pochi mesi per recuperare il gap con la Germania. Ma, si pone una domanda: l’obiettivo qual è? Le risposte sono due. Una è quella del titolo: “non si va lontano”, perché l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare (cit.). Può anche darsi che lasciare le cose che non funzionano come stanno sia un risultato cui tendere. L’altra risposta è cercare di avvicinarsi a modelli che funzionano. Se questo è l’intento, occorre accettare che comunque prima o poi in qualche modo si deve pur partire.

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