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DI GIUSEPPE TROPEA

 I nuovi poteri di sindaco, questore e prefetto in materia di sicurezza urbana

 

Il d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, contenente «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città», convertito con modificazioni dalla legge n. 48/2017, è un provvedimento complesso, che merita attenzione, e che non può essere liquidato con generiche ed unilaterali prese di posizione, spesso condizionate dalle lenti deformanti dell’ideologia. In questa sede mi soffermerò soprattutto sulla parte della legge relativa ai rinnovati poteri del sindaco e del questore (artt. 8 ss.), ma prima qualcosa deve essere detta anche sul tema della «sicurezza integrata» (Sez. I della legge), in quanto strettamente connesso alla ridefinizione dei suddetti poteri. È mia convinzione che questa sia la parte maggiormente apprezzabile del provvedimento, anche alla luce delle modifiche appartante in sede di conversione, sia pure con alcuni persistenti profili di criticità legati soprattutto alla clausola di neutralità finanziaria di cui all’art. 17. La prima domanda che si è posta, più nel dibattito massmediatico che fra i tecnici, attiene al “colore” politico del tema. Esiste certamente, “a sinistra”, una risalente discussione: penso soprattutto al realismo criminologico anglosassone, che condivide con le impostazioni “situazionali” e di “tolleranza zero” l’idea di prendere sul serio il crimine e la vittima, seppure deviando nelle ricette di intervento, sulla base di un programma socialdemocratico volto ad implementare piani locali di controllo della criminalità fondati su un approccio multi-agency e sul principio della responsabilità democratica. Ben prima dei provvedimenti del legislatore statale, quello più recente che qui si considera e quelli del biennio 2008/2010 (in cui un partito politico di sedicente ispirazione federalista ha, in questo settore, messo in campo politiche pubbliche di stampo fortemente centralista), si sono registrati interventi normativi su altri fronti. Penso soprattutto alla legislazione regionale in tema di c.d. «servizio integrato di sicurezza», che vede, non a caso, l’Emilia-Romagna in prima linea (con una legge del 1999, dunque prima della riforma costituzionale del 2001), ed all’utilizzo sempre più intenso di piani o protocolli per il controllo del territorio che hanno visto, e vedono, il coinvolgimento di Regioni ed enti locali, nonché di privati. Da queste esperienze, peraltro, si evince una nozione “ampia” di sicurezza urbana, dove sovente il momento repressivo non vive isolatamente, ma viene posposto a quello preventivo, di lotta al disagio sociale. La «sicurezza urbana», così, si pone in discontinuità rispetto ai tradizionali concetti di «ordine e sicurezza pubblica» (di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, lett. h, Cost.). L’aggettivo «urbana» designa il luogo dove maggiormente si percepiscono i problemi derivanti dall’insicurezza «globale», da quella socio-economica, legata soprattutto alla crisi del 2007, a quella c.d. “strategica”, oggi rappresentata soprattutto dal fondamentalismo islamico. In questa tematica l’assetto delle competenze e delle fonti appare centrale, essendo avvinto a doppio nodo alle politiche pubbliche in materia, che si muovono lungo l’asse della difficile conciliazione tra sicurezza, politiche “situazionali” e di c.d. “tolleranza zero”, e politiche sociali di prevenzione ed inclusione. Il tema di fondo è rappresentato dal tramonto del c.d. welfarismo criminologico come specchio della più ampia crisi, o comunque ristrutturazione, del Welfare State. In tale contesto le politiche della sicurezza possono prendere il posto delle politiche sociali. Il rischio, quindi, è rappresentato da un determinato modo di intendere in questo delicatissimo settore l’intreccio fra sussidiarietà verticale e quella orizzontale: la legislazione statale degli ultimi anni ha finito per attirare, in una forma di sussidiarietà “ascendente”, l’individuazione delle policies, rendendo tutto come forma di “sicurezza pubblica minore”, sovente a danno di diversi modelli discendenti dalla legislazione regionale e da buone pratiche, specie a livello locale, caratterizzati da educazione alla convivenza, rispetto della legalità, integrazione e inclusione sociale, rigenerazione urbana e «rammendo» delle periferie. In base all’art. 117, comma 2, lett. h Cost., introdotto dalla riforma del Titolo V del 2001, l’ordine pubblico e la sicurezza, esclusa la polizia amministrativa locale, spettano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato; inoltre, il novellato art. 118, comma 3, affida alla legge statale forme di coordinamento fra Stato e Regioni, fra l’altro, nelle materie di cui al suddetto art. 117, comma 2, lett. h. Si tratta di disposizione sinora colpevolmente inattuata dal Parlamento; in questo senso la legge in esame prova, a distanza di più di quindici anni dalla riforma del Titolo V, proprio a darvi attuazione. La giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, privilegiando sovente il criterio della c.d. «prevalenza», specie con riguardo a settori connessi alla prevenzione (in via amministrativa) di comportamenti penalmente rilevanti, di fatto ha portato ad un’estensione dei casi di ritenuta sussistenza della competenza esclusiva statale, spesso a danno proprio delle competenze regionali. Tale linea interpretativa risulta sostanzialmente confermata dalla sentenza n. 196/2009 in tema di sicurezza urbana. Secondo la Corte nel “nuovo” art. 54 t.u.e.l. i poteri esercitabili dai sindaci possono essere esclusivamente finalizzati all’attività di prevenzione e repressione dei reati, e non riguardano lo svolgimento di funzioni di polizia amministrativa nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome. La Corte sembra optare a favore della tesi che vede la sicurezza urbana come parte dell’ordine pubblico, sicurezza pubblica “minore”, scartando invece la diversa ricostruzione che configura la sicurezza urbana come intreccio e punto di coordinamento fra competenza diverse, statali e non, volto non solo, in senso stretto (c.d. security), alla prevenzione e repressione dei reati, ma anche, in senso ampio (safety), alla promozione e coesione sociale. Tutto ciò finisce per determinare una potenziale indebita sottrazione di competenze regionali esclusive o concorrenti, rispetto a materie che ben potrebbero riguardare la sicurezza urbana (es. formazione professionale, tutela e sicurezza sul lavoro, servizi sociali, attività culturali e istruzione, attività produttive, urbanistica, edilizia). In direzione (almeno parzialmente) diversa si muove la sentenza n. 226/2010, con riferimento al potere di stabilire le condizioni alle quali i comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio. La sentenza si pone in parziale continuità con la precedente n. 196/2009, per la parte relativa al fine di segnalazione di eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana. Altro discorso viene fatto per il riferimento alle «situazioni di disagio sociale», che viene considerato elemento spurio ed eccentrico rispetto alla ratio della disciplina, e ricondotto alla sicurezza sociale, rientrante nella competenza regionale residuale. Trattasi di sentenza che merita un giudizio favorevole, in quanto trova nella nozione di «disagio sociale» un argine rispetto a una tendenza, che prima che giuridica è culturale: una “supplenza” della sicurezza pubblica rispetto alla sicurezza sociale, con una sorta di ritorno alle politiche pubbliche di trattamento della povertà e del disagio sociale di fine ‘800. Detto ciò, le politiche pubbliche degli ultimi due anni mi pare rappresentino un cambiamento di rotta, seppure parziale, rispetto a quelle del biennio 2008/2010. Penso, prima di tutto, al D.P.C.M. 25 maggio 2016, attuativo dell’art. 1, comma 974 ss., della legge n. 208/2015, che istituisce il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluoghi di provincia, finalizzato alla realizzazione di una serie di interventi, volti, fra l’altro, alla rigenerazione delle aree urbane degradate attraverso la promozione di progetti di miglioramento della qualità del decoro urbano, di manutenzione, riuso e rifunzionalizzazione delle aree pubbliche e delle strutture edilizie esistenti, rivolti all’accrescimento della sicurezza territoriale e della capacità di resilienza urbana, etc.. A me pare che secondo tali coordinate generali vada letto anche il Capo I della legge n. 48/2017 («Collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana»), la cui Sezione I («Sicurezza integrata»), merita un giudizio tendenzialmente favorevole. Non è un caso che, come detto, esso venga adottato (finalmente) «anche in attuazione dell’art. 118, terzo comma, della Costituzione» (art. 1), anche se è già stato avanzato il dubbio circa la possibilità di intervento con decreto legge al fine di dare attuazione alla previsione costituzionale.  A conferma di ciò, si consideri che in sede di conversione del d.l. n. 14/2017, è stato aggiunto un comma 2-bis all’art. 1, in base al quale «Concorrono alla promozione della sicurezza integrata gli interventi per la riqualificazione urbana e per la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia finanziati con il fondo di cui all’art. 1, comma 140, della legge 11 dicembre 2016, n. 232». La definizione delle linee generali per la promozione della sicurezza integrata è affidata alla proposta del Ministro dell’interno, ma soggetta all’accordo in sede di Conferenza unificata (art. 2); anche in questo caso, peraltro, la legge di conversione ha positivamente innovato, non solo nel senso di specificare i settori di intervento (scambi informativi e logistico-operativi tra polizia locale e forze di polizia, aggiornamento professionale congiunto), ma anche – e soprattutto – nel senso che le suddette linee generali debbano tener conto «della necessità di migliorare la qualità della vita e del territorio e di favorire l’inclusione sociale e la riqualificazione socio-culturale delle aree interessate» (art. 2, comma 1-bis). Inoltre, viene generalizzata la possibilità di accordi tra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano, prendendosi atto di un fenomeno ampiamente diffuso nella prassi oltre che normato in varie leggi finanziarie degli ultimi anni, e si richiama un altro importante aspetto, anch’esso diffuso (nella legislazione regionale sopra richiamata), ma spesso trascurato, relativo al sostegno regionale nei confronti degli enti locali per interventi di promozione della sicurezza integrata (art. 3, comma 2). D’altra parte la legge in sé, al netto della clausola di neutralità finanziaria, investe poco in sicurezza: 7 milioni di Euro per il 2017 e 15 milioni di Euro per il 2018 per l’installazione di sistemi di videosorveglianza (art. 5, comma 2-ter) e 2.500.000 Euro per l’assunzione di personale della polizia locale, per i comuni che abbiano rispettato gli obiettivi del pareggio di bilancio (art. 7, comma 2-bis e 2-ter). Le norme di principio in materia di «sicurezza integrata» e di «sicurezza urbana» sono definite, rispettivamente, in «linee generali» e in «linee guida» adottate con un accordo concluso, su proposta del Ministro dell’Interno, in sede di Conferenza Unificata e di Conferenza Stato – Città e Autonomie locali. Gli appositi patti stipulati tra il prefetto e il sindaco, di cui all’art. 5, comma 1, devono muoversi in coerenza con le previsioni recate dalle «linee generali» sulla sicurezza integrata e dalle «linee guida» sulla sicurezza urbana. Si è detto, sul punto, che questa scelta è in linea con una nozione di «sicurezza integrata» di tipo verticale, seppure «temperata», in quanto il Ministro dell’Interno, ferme restando le sue competenze esclusive in materia di ordine pubblico e sicurezza, conserva la prerogativa di proporre le linee fondamentali e, dunque, limiti e contenuti di cooperazione istituzionale, mentre nelle precedenti esperienze interistituzionali si avevano obblighi di collaborazione reciproca su un piano tendenzialmente paritario. Pare a chi scrive che tale rilievo sia solo in parte condivisibile, in quanto nel provvedimento appare comunque evidente la volontà di “cambio di passo” rispetto alle precedenti politiche pubbliche sul tema. Certo questo non significa, come diremo, che manchino le criticità, connesse appunto a una persistente centralità della gestione del fenomeno in termini “situazionali”… (segue)

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