13/02/2017 – La riforma della PA che vorremmo vedere

La riforma della PA che vorremmo vedere

 
 
Nei prossimi giorni dovrebbe andare all’approvazione del Consiglio dei ministri il testo della riforma del lavoro pubblico, attuativo dell’articolo 17 della legge 124/2015, noto come “riforma Madia”.

Già se ne conoscono gli elementi costitutivi essenziali:
–          nuovi poteri ai contratti di derogare le leggi sul lavoro pubblico;
–          flessibilizzazione del sistema di valutazione, con eliminazione delle “fasce” di merito;
–          ennesima ondata di stabilizzazioni;
–          nuovo regime delle visite di controllo per le assenze da malattia;
–          modifiche ed accelerazione del procedimento disciplinare;
–          norma speciale per la garanzia del reintegro dei dipendenti che abbiano subito un licenziamento illegittimo.
Il tutto come sempre è per lo più fatto passare come “riforma epocale” o, come minimo, un sistema per rilanciare la produttività del lavoro.
Vale la pena di porsi la domanda se è con questo tipo di riforme, ondeggianti tra l’atteggiamento “da caserma” e l’accordo con i sindacati per assicurarsi anche consenso elettorale, che davvero la pubblica amministrazione italiana possa aumentare la propria efficienza. Francamente, è inevitabile dubitarne.
Si deve innanzitutto affermare che è giusto e corretto qualsiasi intervento volto a limitare e sanzionare senza alcuna pietà chi truffa tutti i cittadini, fingendosi presente mentre è a fare dell’altro.
Non è, però, di minore importanza l’altro problema: far svolgere a chi è rispettoso dei propri doveri di dipendente pubblico un lavoro utile e produttivo.
La domanda cui rispondere è: posto che grazie alle varie “strette” sui “furbetti” si riesca finalmente a farli stare tutti saldamente accostati alle loro postazioni di lavoro, siamo sicuri che, poi, detti dipendenti producano in modo utile?
Non si può non sottolineare il paradosso che in determinati enti le assenze dei “furbetti” erano organizzate e di massa, eppure sostanzialmente nessuno se ne accorgeva. Un segno non proprio favorevole all’efficacia dell’attività lavorativa.
Del resto, se un ufficio è sotto dotato sul piano organizzativo, finanziario, patrimoniale e strumentale, dunque regolarmente in ritardo o portato ad agire in modo raffazzonato, come accorgersi di un calo di produttività, se essa è già sotto zero?
La riforma della PA che vorremmo vedere dovrebbe partire da questi assunti. Scardinare la rassegnata abitudine alle file infinite nei pronto soccorso o al rinvio alle calende greche degli appuntamenti fissati dai Cup. In Italia, gli addetti ai servizi per il lavoro in favore dei disoccupati sono circa 6.000; in Germania, dove i disoccupati sono quasi la metà dei 3 milioni italiani, gli addetti sono, invece, oltre 100.000: è evidente che, poi, alla fine le attività operative sono sempre in affanno e di limitata portata.
Non necessariamente i rimedi alle disfunzioni della PA consistono nel rimpolpare la dotazione del personale, ricordando, comunque, che in Italia, contrariamente alla vulgata, i 3 milioni circa di dipendenti sono molto meno di quelli operanti in Paesi competitori come Gran Bretagna e Francia, dove sono a circa 5 milioni, e la stessa Germania, che veleggia oltre i 4 milioni.
Riformare la PA dovrebbe significare in primo luogo rivedere il modo col quale essa offre i propri servizi ai cittadini. Le riforme sull’ordinamento del lavoro pubblico e la relativa organizzazione dovrebbero essere successive e conseguenti.
Facciamo solo alcuni esempi di riforme che vorremmo vedere.
Trasparenza. Abbiamo, finalmente, il Foia, si dice. Bene. Allora, non è opportuno chiedersi che senso ha avere tre tipologie di accesso, quello “documentale”, quello “civico” e quello “generalizzato” se, appunto, grazie alla riforma del d.lgs 33/2013 l’accesso civico generalizzato consente sostanzialmente di accedere a qualsiasi documento, dato e informazione?
A cosa servono torrenziali Linee Guida sul tema, che poi consigliano a ciascun ente di agire “caso per caso”, secondo un “prudente apprezzamento” ed “assumendosene l’esclusiva responsabilità”?
Sarebbe molto più utile:
a)      abolire la normativa sull’accesso “documentale” di cui si occupa la legge 241/1990, assorbito da quello “generalizzato”;
b)      abolire le centinaia di obblighi di pubblicazioni varie, lasciando alle amministrazioni modo di scegliere se, come e quando rendere pubblici i dati, senza formalismi, dato che comunque l’accesso generalizzato consente di accedervi;
c)      liberare ingentissime forze lavoro (si veda qui) da adempimenti solo formali e destinarle ad attività certamente di maggiore e diretto interesse per i servizi.
Suap. Lo sportello unico per le attività produttive è nato come idea per rimediare alla dispersione delle procedure tra troppi enti, concentrando l’istruttoria in un unico ufficio, che si relazioni direttamente con l’impresa e curi le pratiche con gli altri enti “al posto” del cittadino.
Si tratta, però, all’evidenza, di un’idea ormai vecchia e, oggettivamente, ormai malmessa.
Ci sono slogan molto interessanti come “l’impresa in un giorno” e similari, ma è noto a tutti che presentare istanze o segnalazioni certificate di inizio attività nelle troppe e troppo diversificate piattaforme di gestione dei Suap è un’impresa titanica, tra firme digitali, autenticazioni, up-load, down- load, che molte volte, per altro, riguardano la scansione di moduli redatti a mano!
Oltre tutto, non di rado i Suap sono chiamati, più che altro, a fare semplicemente da filtro o fulcro delle pratiche, senza materialmente istruirle o condurle e limitandosi a mediare tra uffici o enti competenti e cittadini richiedenti.
Sarebbe, allora, il caso di rivedere tutto da zero. Vi è stata l’insistenza sullo Spid e la posta certificata? Si utilizzino, allora, strumenti diversi, come l’obbligo di gestire le procedure amministrative mediante applicativi internet, nei quali caricare e tracciare documenti ed iter.
In questo modo, si potrebbe davvero riqualificare e di molto la professionalità dei dipendenti e garantire istruttorie concentrate, permettendo accessi alle pratiche a tutti gli uffici ed alle amministrazioni interessati, ciascuno per il proprio livello di competenza. Servono soldi? Sì, tanti. Ma, le riforme “senza oneri per la finanza pubblica” come quelle che negli ultimi anni sono state varate, non possono avere alcuna efficacia: si modificano processi produttivi solo con investimenti, come le imprese sanno benissimo. E gli investimenti si fanno anche sul personale, con aggiornamento, formazione, riqualificazione, interesse e cura.
Controllo e consulenza. La PA è ancora eccessivamente orientata a fornire un servizio volto a rimuovere ostacoli giuridici al pieno esercizio di posizioni giuridiche di terzi.
Per moltissime attività occorrono provvedimenti espressi, contenenti autorizzazioni, nulla osta, atti di assenso di varia natura, che impegnano le amministrazioni in catene di montaggio di costruzione di “carta”, montagne di atti non di rado di diniego, a causa di vizi formali e cavilli.
Non sarebbe il caso di ripensare drasticamente il tutto? Una PA più efficiente potrebbe essere quella che non gestisce la formazione di provvedimenti di assenso, ma che, invece, offra una consulenza preventiva completa a chi la richiede, garantendo così, sotto la propria responsabilità, della correttezza piena di successive semplicissimi segnalazioni di inizio attività.
In ogni caso, invece di considerare gli uffici come un ostacolo all’esplicazione di diritti, in via estesa sarebbe utile consentire ai cittadini di auto formare sempre il proprio titolo giuridico, trasformando l’azione della PA da concessoria in controllo. Prevedendo un controllo diffuso e capillare, con amplissimi poteri di annullamento e rimessione in pristino per chi abbia dichiarato il falso o ciurlato nel manico, ma riducendo i controlli nei confronti di chi si avvalso della consulenza preventiva.
Anche in questo caso i benefici organizzativi sarebbero evidentissimi e la possibilità di riqualificare l’operato dei dipendenti pubblici molto ampia.
Telelavoro. E’ vero che in generale in Italia il lavoro da remoto o il “lavoro agile” non ha riscosso particolare successo o interesse. Meno che mai, comunque, questo vale per il lavoro pubblico, ove la parola “telelavoro” pare non si possa neanche pronunciare.
Ma, qualcuno ha mai fatto un serio censimento di quante potrebbero essere le attività potenzialmente da svolgere “da remoto”? Non risulta. Eppure, vi sono, eccome.
Si pensi a tutte le attività di ispezione e controllo svolte in esterno: perché quel lavoratore addetto deve essere costretto al “ritorno in ufficio” a chiudere i verbali relativi alla pratica, oppure a concentrare solo nelle 6 ore mattutine quell’attività? Essendo funzioni facilmente programmabili e standardizzabili (determinando in quantità di ore necessarie per ciascuna ispezione, in media, e, quindi, fissando budget giornalieri o settimanali), la produttività potrebbe essere valutata non sulla base della concezione tayloristica della presenza in fabbrica abbarbicato alla macchina, ma valutando quante uscite sono state fatte nel corso si una giornata “liquida” e flessibile, oltre la cornice delle 6 ore mattutine, con caricamento dei dati anche da remoto: da casa o centri di raccolta informatici.
Per non parlare, poi, di attività “d’ufficio” di back office, come archiviazione, catalogazione, registrazioni di varia natura.
Quanta produttività si potrebbe finalmente misurare davvero, in questo modo, e, dunque recuperare?
Censimento degli adempimenti. Ormai si sono stratificate quantità di adempimenti procedurali fuori da ogni controllo.
Molto spesso nei giornali le farraginosità operative sono imputate alla “burocrazia”, lasciando credere che siano una responsabilità dei dirigenti o dei funzionari, bizantinamente intenti a creare dal nulla cavilli, passaggi, fasi, adempimenti, al solo scopo di rallentare e complicare.
Le cose non stanno così. E’ il legislatore la fonte primaria (anche se non esclusiva) dell’alluvione burocratica: chiunque ne abbia voglia, dia una lettura al d.lgs 50/2016, il codice dei contratti, spesso fatto passare per norma di “semplificazione”, per rendersi conto di quanti adempimenti minuti impone, rendendo una gara qualcosa di simile alla Parigi-Rubaix del ciclismo.
Un censimento dei troppi adempimenti volto alla loro eliminazione radicale sarebbe necessario e già di per sé questo consentirebbe ad enti, organi ed uffici di recuperare di botto tantissime risorse operative da dedicare ai servizi.
Ci fermiamo qui. Inutile proseguire con un elenco di cose che non sono presenti nella riforma Madia. Quando sarà approvata, si farà l’analisi di ciò che contiene, coscienti che sono, invece, le carenze di questa riforma a farne, certamente, l’ennesima occasione perduta.
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