01/09/2016 – La nuova sfida dei dirigenti pubblici

La nuova sfida dei dirigenti pubblici

 

Aveva tentato Andreotti nel 1972: creò la dirigenza statale, staccandola dal personale direttivo, ma non riuscì a ridurla a unità. L’apparato pubblico è, quindi, rimasto come un insieme di corpi separati, talora di feudi. Eppure da un buon vertice dipende la forza della macchina amministrativa. Lì debbono accedere i migliori, in condizioni di eguaglianza, esclusivamente per merito, abbandonando la concezione proprietaria del posto e della carriera, coniugando sensibilità agli indirizzi politici (altrimenti si interrompe il circuito democratico) con separazione dai partiti e dagli interessi (altrimenti si perde l’imparzialità). Giunge ora in porto la riforma approvata dal governo in attuazione della legge Madia sulla riforma della pubblica amministrazione. Il testo è all’esame del Parlamento, della Conferenza Stato-Regioni e del Consiglio di Stato, chiamati a esprimere il loro parere. Lo schema di decreto legislativo appena approvato, molto coraggiosamente, crea un sistema unico di dirigenza, con accesso omogeneo e unica banca dati, diviso in tre ruoli, statale, regionale e locale; unisce in una sola fascia i dirigenti (erano inizialmente tre, poi ridotte a due), in modo che tutti possano ricoprire qualunque incarico, anche apicale; rompe gli automatismi, il culto del posto fisso e il rispetto delle aspettative di carriera indipendentemente dal merito. I circa 33 mila dirigenti (sono esclusi quelli di scuola e sanità e quelli in regime di diritto pubblico) potranno essere chiamati a tutti i posti disponibili.

In un sistema così configurato, gli snodi fondamentali sono tre: i modi di selezione all’ingresso; le procedure di attribuzione degli incarichi; la disciplina transitoria. Per accedere vi saranno due vie, il corso-concorso e il concorso. Il primo, da svolgere annualmente, comporta un anno di corso con esame finale e la successiva assunzione per tre anni come funzionario, salvo poi ottenere la qualifica dirigenziale. La seconda via, residuale rispetto alla prima, comporta concorso e assunzione a tempo determinato di quattro anni; in caso di valutazione positiva, si diviene dirigenti a tempo indeterminato. Per rafforzare selezione e formazione, la riforma prevede una profonda trasformazione della Scuola Nazionale dell’Amministrazione. Una volta divenuti dirigenti e iscritti in uno dei tre ruoli, si potrà avere un incarico dirigenziale a séguito di una procedura dove è fondamentale l’attività svolta da tre commissioni, una per ogni ruolo, composte dai più alti e rispettati funzionari statali, quali, ad esempio, il Ragioniere generale, il Segretario generale della Farnesina e il Capo del Dipartimento degli affari interni e territoriali del Ministero dell’Interno. Essi condizionano i vertici politici in vario modo: adottando i criteri generali per il conferimento degli incarichi; selezionando cinque candidati tra i quali questi debbono scegliere a chi conferire gli incarichi dirigenziali generali; oppure controllando ex post le loro scelte. Solo il 10 per cento di incarichi dirigenziali generali e l’8 per cento degli altri incarichi possono essere affidati all’«esterno», con procedure selettive e trasparenti, per la durata di tre o quattro anni.

Nell’incarico si resta per quattro anni, salvo proroga per altri due anni. Successivamente, i dirigenti dovranno cercare altri incarichi. Se ne restano privi, decadono dopo due anni o, per chi ha avuto valutazione negativa e revoca dell’incarico, dopo un anno. Infine, in via transitoria, sono fatti salvi gli incarichi esistenti fino alla naturale scadenza e i trattamenti economici fondamentali attuali (mentre, a regime, si amplia il peso della parte di risultato sulla retribuzione complessiva). Inoltre, agli attuali dirigenti statali di prima fascia, categoria a esaurimento, spetterà almeno il 30 per cento dei posti di livello generale, come la legge prevede oggi. Ridisegnare la dirigenza è compito importante quanto modificare la Costituzione.

Questa nuova configurazione va nella direzione giusta. Essa stringe i meccanismi di selezione, perché richiede requisiti rigorosi e scelte competitive dei concorrenti. Rompe le paratie stagne tra le amministrazioni, consentendo quello scambio di esperienze che finora è mancato. Prevede una progressiva omogeneizzazione del trattamento economico, scoglio su cui si sono arenati i precedenti tentativi di istituire un ruolo unico. Compie un giro di vite sulla disciplina dei dirigenti privi di incarico, prevenendo possibili abusi. Consente anche ai più giovani di accedere ai posti apicali, rompendo il criterio esclusivo dell’anzianità. Mette i vertici politici sotto controllo nelle loro scelte, affidando il difficile compito di proposta ad alti funzionari che rappresentano il cuore dello Stato: Interni, Finanza, Esteri. Fa salvo l’accesso agli incarichi anche dall’esterno, ma lo limita. Stabilisce un equilibrio tra scelte politiche e valorizzazione dei corpi amministrativi. Sarà ora importante assicurare l’attuazione rigorosa di questo nuovo disegno, non dimenticando che il dialogo con gli altri membri dell’Unione è rimesso ai contatti quotidiani dell’alta burocrazia, più che agli incontri politici: per guadagnarci il rispetto dei nostri «partners» europei, dobbiamo mandare a Bruxelles funzionari capaci.

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