Alla fine, il capo di gabinetto di Roma da 193.000 euro l’anno si è dimesso, poco prima di essere revocato.
C’è voluta la sottoposizione da parte del sindaco Raggi all’Anac della questione della legittimità in particolare della definizione della retribuzione, prevista nella quantità piuttosto rilevante per permettere alla dottoressa Raineri, magistrato, di non perderci sul piano economico.
La vicenda appare oltre il limite del grottesco, sia per come è stata gestita sul piano fattuale, sia nei suoi risvolti giuridici. Vediamone le ragioni.
Secondo quanto riferito da Il Fatto Quotidiano dell1.9.2016, il comune di Roma avrebbe rivolto un quesito all’Anac in merito all’incarico al capo di gabinetto e l’Autorità presieduta da Raffaele Cantone ha rilevato che la corretta fonte normativa a cui fare riferimento per incaricare un capo di gabinetto è l’articolo 90 del d.lgs 267/2000 e non l’articolo 110, sempre del d.lgs 110/2000, cui, invece, si è fatto riferimento Tuel’.
Non ci voleva certamente un genio per capirlo sin da subito. Il capo di gabinetto, figura comunque non prevista dall’ordinamento degli enti locali e di utilità altamente discutibile se non nulla (vedere
qui) fa parte dello staff degli organi di governo locali. Se operasse in un’amministrazione statale si direbbe che farebbe parte degli “uffici di diretta collaborazione”.
L’articolo 90 del d.gs 267/2000 è espressamente dedicato proprio all’acquisizione della provvista di personale in staff a sindaco e giunta. Lo si capisce in modo inequivocabile già semplicemente leggendo la rubrica dell’articolo: “Uffici di supporto agli organi di direzione politica”.
Poiché si tratta di uffici chiamati a supportare la funzione politica, cioè di programmazione e successivo controllo, i suoi componenti non possono porre in essere nessun atto di gestione: un contratto, un impegno di spesa, una concessione, un permesso, qualsiasi atto finalizzato ad attuare il programma politico che ingeneri una relazione negoziale con terzi.
Questa impossibilità discende direttamente dal principio di separazione tra politica e gestione: è evidente che non è corretto per il politico aggirare tale divieto incaricando personale nel proprio staff e attribuendogli quegli stessi poteri gestionali che al politico sono inibiti.
Tuttavia, moltissimi enti locali da questo orecchio non hanno voluto sentire per anni, nonostante una giurisprudenza molto chiara sul principio di separazione, anche se pronunce su funzioni e competenze dei capi di gabinetto ve ne sono pochissime.
In ogni caso, col d.l. 90/2014 la questione è stata chiarita una volta e per sempre: nell’articolo 90 è stato introdotto un comma 3-ter, ai sensi del quale “resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale” per gli addetti allo staff di sindaco e giunta.
Nonostante queste regole richiamate siano piuttosto lineari e semplici, al comune di Roma non hanno inteso rassegnarsi.
Per giorni sui giornali, a difesa del lauto incarico al capo di gabinetto, si è detto che il sindaco ha tutto il diritto di acquisire una persona estremamente competente, cui affidare il compito di coordinare l’attività dei dirigenti. In particolare, si è decantata la specifica competenza dell’incaricata nella lotta alla corruzione.
Peccato che per coordinare la dirigenza ed applicare le norme anticorruzione occorra porre in essere attività gestionale, vietata ai capi di gabinetto.
Proprio perché, comunque, a Roma non ci si è voluti arrendere all’evidenza, allora si è fatto ricorso ad un escamotage, per la verità molto diffuso: stabilire, cioè, che il ruolo di capo di gabinetto sia regolato non dall’articolo 90 del d.lgs 267/2000, bensì dall’articolo 110: la norma che consente nelle amministrazioni locali di assumere dirigenti non di ruolo “a contratto”.
Il richiamo all’articolo 110 è stato utile per due ragioni:
1) per aggirare il divieto di esercizio di funzioni gestionali imposto dall’articolo 90 e, dunque, fare del capo di gabinetto un dirigente addetto alla gestione;
2) per poter fondare l’applicazione della speciale deroga al tetto massimo alla retribuzione dei dirigenti degli enti locali, contenuta nel comma 3 dell’articolo 110 ai sensi del quale per i dirigenti “a contratto” il trattamento economico “può essere integrato, con provvedimento motivato della giunta, da una indennità ad personam, commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali”.
Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del comune di Roma completa la gran confusione (come in molti altri comuni), prevedendo all’articolo 8, comma 2, che il capo di gabinetto è nominato dal sindaco, previa deliberazione di giunta (che nel caso della Raineri ha seguito e non preceduto l’incarico, assegnato con “ordinanza”, come se si trattasse di un’emergenza indifferibile) “che ne stabilisce il trattamento economico”.
Dunque, il comune di Roma, come moltissimi altri comuni, ritiene di poter disporre di un potere normativo equiparato a quello della legge e dei contratti collettivi nazionali e di fare come gli pare, attribuendo alla giunta il potere di fissare il trattamento stipendiale del capo di gabinetto in modo del tutto arbitrario, sebbene nessuna disposizione di legge lo preveda o consenta. Al contrario, la legge riserva a se stessa ed alla contrattazione nazionale collettiva la competenza a fissare il trattamento economico dei dipendenti pubblici.
In pochissime parole, il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del comune di Roma è illegittimo, come illegittimo è risultato l’incarico al capo di gabinetto, nella parte in cui si è previsto un trattamento economico di molto superiore al massimo contrattualmente previsto.
Sì, perché l’Anac ha fatto notare al comune di Roma che ai sensi dell’articolo 90, comma 2, del d.lgs 267/2000 “al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali”. Dunque, alla Raineri non si poteva riconoscere un trattamento economico di 193.000 euro, superiore di oltre 100.000 euro circa al tetto massimo di stipendio della dirigenza locale.
Cosa insegna, allora, tutto ciò? Una serie di indicazioni e riflessioni.
La prima è che la figura del capo di gabinetto negli enti locali, di utilità quasi nulla, è spessissimo regolata in modo illegittimo. Poi, scopriamo che negli enti locali, come si vede, i dirigenti strapagati, molto al di là dei tetti contrattuali, sono quelli incaricati dall’esterno, cooptati dalla politica e non quelli di ruolo.
In questo frangente, ancora, la considerazione più amara sta nel prendere atto che la Raineri è stata scelta per la sua particolare professionalità sull’anticorruzione. I fatti, tuttavia, hanno dimostrato da parte della dottoressa Raineri una conoscenza probabilmente molto sommaria dell’ordinamento degli enti locali e della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, tale da non averle permesso di accorgersi ella per prima della non sostenibilità dell’impianto in base al quale si è costruito il suo incarico.
Eppure, sicuramente nel comune di Roma qualche dirigente o funzionario avrà sollevato questi problemi, evidenziandoli al sindaco. Possiamo immaginare che saranno stati tacciati di essere “burocrati” immeritevoli della “fiducia” del sindaco, intenti solo a boicottare l’indirizzo politico. La riforma Madia per questo genere di “burocrati” consentirà ai sindaci di infliggere la punizione esemplare del mancato rinnovo dell’incarico senza nemmeno una motivazione espressa: sei un “rompiscatole”? Vai in disponibilità, a stipendio falcidiato.
E’ evidente che nei comuni, come in tutta la PA, funzioni di controllo interno o, comunque, le istruttorie tecniche rispettose delle disposizioni normative non servono a nulla. Come si è visto, nel caso di specie c’è voluto l’intervento di un soggetto esterno, l’Anac, per evidenziare quanto era comunque già previsto nelle norme vigenti (risultando indifferente quanto disposto da regolamenti e provvedimenti contrari a legge). Ma, se, come è evidente, occorrono ancora controlli esterni, perché si insiste ancora nel perpetuare l’errore drammatico e clamoroso commesso dalla riforma Bassanini del 1997 consistente nell’eliminazione dei controlli preventivi di legittimità? Nel caso di specie, non si sarebbe perso molto meno tempo e non si sarebbe riusciti a disciplinare in maniera corretta l’incarico di capo di gabinetto (se proprio lo di voleva assegnare), se vi fosse stato un procedimento di controllo preventivo?