31/08/2020 – Processi evolutivi da smart working e riforma della P.A.

Processi evolutivi da smart working e riforma della P.A.
 
Lo smart working alimenta il dibattito pubblico con vicende che spesso appaiono contradittorie, da una parte, alcune categorie di lavoratori si “rifiutano” di rientrare in servizio (ovvero, manifestano perplessità al rientro forzato non essendo – in grado il datore di lavoro pubblico – di assicurare la sicurezza dal contagio), dall’altra parte, chi vorrebbe rientrare al lavoro (ovvero, far rientrare il personale in servizio, c.d. in presenza), viene chiamato a fornire chiarimenti dalla Funzione Pubblica per la presunta violazione del protocollo quadro “Rientro in sicurezza”, sottoscritto il 24 luglio 2020 dal Ministro per la P.A.[1].
Assistiamo ad una nuova genesi da Covid-19, la “riforma del pubblico impiego” sotto il profilo dell’orario di servizio, elemento cardine del rapporto di lavoro, che rientra nella prestazione del lavoratore a fronte della controprestazione retributiva (c.d. rapporto sinallagmatico), segnando un elemento determinante e fondante del rapporto negoziale, ai sensi dell’art. 2094 c.c., disegnando la natura del contratto: a titolo oneroso e prestazioni corrispettive (c.d. “contratto di scambio”)[2].
In questa avanguardia del cambiamento, imposto dalla segregazione delle persone e delle attività economiche (serrando i diritti di libertà di movimento e di riunione, solo per citarne alcuni), lavoratori compresi, penetra nel pubblico impiego una nuova “modalità ordinaria” della prestazione lavorativa: il “lavoro agile”.
Si è andati oltre al “telelavoro”, assumendo questa forma di lavoro “da remoto” un archetipo di una “misura” di prevenzione degli effetti nefasti del Covid-19, generata nelle notti del sabato sera, con dirette facebook, dalla nutrita sfornatura di DPCM, incidendo direttamente e volutamente sull’organizzazione e sui rapporti interni ed esterni, le cui modalità, se in epoca Covid-19 hanno seguito formalità sommarie di autorizzazione, anche unilaterale (oggetto di monitoraggio), nell’immediato costituirà la base “di semplificazione” della prestazione lavorativa nella P.A.: in una visione liquida del lavoro pubblico.
Se un tempo la presenza in servizio, accertata con la timbratura (anche mediante lo scanner oculare o l’impronta biometrica, in evidente violazione delle norme del GDPR, violando i principi di proporzionalità), costituiva un punto invalicabile, oggetto di tanti procedimenti disciplinari, a volte penali (per truffa)[3], ora si è giunti al suo ribaltamento (non ovviamente per tutti i servizi, quali quelli che esigono la presenza): la prestazione non si misura in orario di presenza in ufficio ma in progetti realizzati e documentati, tracciati con sistemi informatici dal proprio domicilio (nel rispetto delle tutele dei lavoratori), che diventa la sede di lavoro pubblico, da alcuni definito “diversamente agile[4].
A rafforzare questo strumento di flessibilità viene previsto, ed è questa la novità più rilevante, che entro il 31 dicembre di ciascun anno, le Amministrazioni Pubbliche redigono, sentite le organizzazioni sindacali, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), quale sezione del Piano della performance, che individua le modalità attuative del lavoro agile prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 60 per cento dei dipendenti possa avvalersene (in mancanza del Piano ad almeno il 30 per cento), garantendo che gli stessi non subiscano penalizzazioni professionali o di carriera e sia assicurato un percorso formativo, con l’evidente voluntas legis di riscrivere le relazioni tra lavoratore e datore di lavoro, senza distinzione del luogo della prestazione.
Alcuni penseranno di sostituire la fisicità nel posto con un correlato (e personalizzato) avatar (vi sono, è giusto osservare, prestazioni e servizi che richiedono necessariamente la presenza presso la sede)[5], anche se a ben vedere l’essenziale dell’efficienza e della produttività è la capacità di misurazione della prestazione, che può essere assolta anche da casa, svolgendo al meglio i propri compiti, anche dimostrando concretamente i risultati raggiunti, potendo garantire il contatto visivo (in sostituzione di quello fisico) con le videoconferenze, migliorando diversi aspetti di natura gestionali collegati all’immediatezza di risposta, senza necessità di spostamenti, e la contemporaneità di partecipazione procedimentale/istruttoria più soggetti contemporaneamente, risolvendo le esigenze di spazi di lavoro, tralasciando altri profili di riduzione dei costi[6].
La digitalizzazione del procedimento amministrativo e l’ampliamento dei servizi on line, con le videoconferenze sostitutive delle istruttorie in presenza, se da una parte ha conciliato le misure di distanziamento sociale (lockdown), dall’altra, impone, pertanto, una rivisitazione dell’organizzazione e dei tempi amministrativi, dove l’agenda degli “appuntamenti” riduce i tempi di risposta e – lo spazio virtuale – va ad implementare tutti gli strumenti informatici di relazione.
In termini diversi, gli effetti dello smart working impongono rapporti più immediati, una prestazione misurata sui risultati (la c.d. responsabilizzazione), la dematerializzazione dei documenti, la connessione costante, dove i procedimenti e i servizi erogati, anche in forma seriale, potrà riflettersi sul recupero di risorse, sul contenimento del tempo/lavoro (aumento della produttività), sul miglioramento del rapporto tra Amministrazione, impresa e cittadini: una revisione dei processi e procedimenti amministrativi.
Dunque, sarà necessario potenziare i servizi di controllo, analisi e feedback, dimostrando le relazioni tra la nuova organizzazione e il recupero di economicità, efficienza ed efficacia indotta dall’estensione dell’Amministrazione aperta (digitale), dove i sistemi di performance individuale e organizzativa dovranno confrontare i diversi indicatori della prestazione, con un potenziamento della struttura informatica, con postazioni e piattaforme sempre più legate alla rete, piuttosto che alle infrastrutture interne (e connesse esigenze di aumentare la sicurezza dei dati e delle reti intranet).
L’andamento di questo progressivo dislocamento delle risorse dovrà essere accompagnato da report di valutazione, in grado di comparare le unità in presenza da quelle in telelavoro (un data manager ICT), il recupero di risparmi e i costi di approntamento delle postazioni in remoto, in un progressivo sfumare dell’ambiente di lavoro tradizionale per la creazione di spazi nella rete capaci di sostituire la forma in presenza (il corpo umano digitalizzato, in video), senza più un’effettiva distinzione delle prestazioni: una neutralità dalla postazione lavorativa (tradizionale).
La prestazione di lavoro in modalità agile dovrebbe, pertanto, perdere la sua iniziale condizione compatibile con le caratteristiche della prestazione, poiché tutta la fase procedimentale, compresa quella decisionale o motivazionale, per la maggior parte dei procedimenti potrà effettuarsi a distanza, fuori dall’ambiente di lavoro che conoscevamo fino ad oggi: una globalizzazione della postazione di lavoro ma anche delle relazioni umane, sempre più rivolte al digitale o, più comunemente, al c.d. social.
Il “lavoro agile” richiederà personale formato (nativo digitale), dove l’utilizzo della tecnologia informatica non potrà prescindere dalla modalità di esecuzione del rapporto di lavoro, mentre i vincoli di subordinazione verranno rivisti su parametri non più legati all’orario di lavoro o alla presenza in sede, ma a vincoli di risultato significativi per l’organizzazione, graduando le responsabilità in funzione degli obiettivi stipulati in sede aziendale (come già in essere nelle altre parti del mondo).
Invero, se guardiamo all’esistente, a tutte le discipline in materia di misurazione della performance, e a tutti i limiti di una ponderata e valida metodologia di riferimento, possiamo affermare che la prestazione in ufficio può essere valutata anche da remoto, senza un’effettiva distinzione, se si vuole dare un valido significato alla batteria di indicatori improntati dai diversi sistemi di valutazione: il risultato utile si misura su fattori qualitativi, quantitativi, d’impatto[7].
La flessibilità organizzativa, la fornitura delle dotazioni base, i collegamenti dalla sede potranno prescindere dalla dimora del lavoratore, dove la presenza viene rimessa all’impronta digitale (loggare) o alla tracciatura dello strumento informatico utilizzato (ovviamente, nel rispetto dello Statuto dei lavoratori, che vieta il controllo a distanza).
Tutta questa progressiva semplificazione lavorativa dovrà partire da una immediata verifica dell’esperienza COVID-19, dalla mappatura di tutte le prestazioni effettuate, dalla quantificazione del monte ore utilizzato (rispetto al periodo ferie o congedi esauriti), dai costi delle dotazioni, stendendo una programmazione che coinvolga tutto il personale, comprese le c.d. “eccedenze”, quelle figure che in tale nuovo bilanciamento non troveranno (forse) collocazione (non diversamente impiegabile), in relazione al profilo prestazionale “incerto”.
Lo smart working ridimensionerà il lavoro pubblico (un progresso della digitalizzazione), metabolizzando un progressivo allontanamento dall’ufficio, il suo successo sarà dovuto, in parte alla tecnologia (visto che le tecnologie tendono ad “atomizzare” che a socializzare o solidarizzare), ma più semplicemente al senso del dovere che caratterizza il bravo dipendente pubblico, «al servizio esclusivo della Nazione» (ex art. 98 Cost.), e questo non mi sembra poco.
 
 
[1] Cfr., Smart working: Funzione Pubblica blocca rientro in presenza al comune di Messinaaliautonomie.it, 27 agosto 2020. Vedi, Ministro per la Pubblica Amministrazione, Circolare n. 3 del 24 luglio 2020, «Indicazioni per il rientro in sicurezza sui luoghi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» e Direttiva n. 3 del 4 maggio 2020, «Modalità di svolgimento della prestazione lavorativa nell’evolversi della situazione epidemiologica da parte delle pubbliche amministrazioni».
[2] Cass. civ., sez. Lav., 11 luglio 2018, n. 18253.
[3] Cfr. Cass. pen., sez. II, sentenza n. 7005/2019, ove si configurava il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni, previsto dall’art. 55 quinquies del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in tema di indebito utilizzo dei badges attestanti la presenza in ufficio: si riferisce all’ipotesi del c.d. assenteismo dal posto di lavoro quando il pubblico impiegato induca in errore, mediante artifizi o raggiri, l’ente presso il quale risulta impiegato circa la sua presenza sul posto di lavoro, Cass. pen., sez. II, 23 gennaio 2019, n. 3262.
[4] Vedi, Giordano, Un lavoro diversamente agile, Panorama, 5 agosto 2020, l’incipit dell’articolo «O Pola o morte… il dipendente pubblico da anni maltrattato e bistrattato ha finalmente trovato la sua nuova rivendicazione, la solenne frontiera da conquistare, l’obiettivo agognato più della pausa caffè, più dei buoni pasto, più delle ferie ad agosto: il Pola».
[5] Vedi, Tribunale di Mantova, decreto n. 1054/2020, per una lettura si rinvia, CIRIOLI, Lo smart working non è per tutti, ItaliaOggi, 4 luglio 2020, dove si analizza il rigetto di un ricorso di un dipendente che si è visto rifiutare lo smart working chiesto, ai sensi dell’art. 90 del D.L. n. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio).
[6] Ad es., meno “buoni pasto”, Tribunale di Venezia, decreto 8 luglio 2020, n. 3463dove si riferisce che «in sostanza dunque i buoni pasto non sono dovuti al lavoratore in smart working e di conseguenza la mancata corresponsione degli stessi non doveva essere oggetto di contrattazione e confronto con le sigle sindacali. D’altro canto è anche difficile ipotizzare quale potrebbe essere l’esito di tale confronto: se i buoni pasto non spettano, non possono erogati e l’atto del Comune con cui se ne sospende l’erogazione al lavoratore in smart working è sostanzialmente un atto “necessitato”».
[7] Cfr. Funzione Pubblica, «Linee guida per il Sistema di Misurazione e Valutazione della performance. Ministeri», n. 2 dicembre 2017.

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