29/12/2020 – Illegittimi regolamenti locali di disciplina dei procedimenti disciplinari. I danni della “regolamentite”

La regolamentite è una grave malattia che affligge da sempre gli enti locali. E’ la compulsione a produrre continuamente regolamenti su qualsiasi argomento dello scibile umano, a prescindere dal legittimo esercizio della competenza per materia, ma soprattutto, dalla concreta utilità.

 

Moltissimi comuni regolamentano davvero quasi solo per regolamentare, un’attività fine a se stessa, spesso mossa dalla convinzione di molti segretari e funzionari che determinate disposizioni normative:

 

a)      possano produrre effetti solo in quanto “recepite” con un regolamento;

b)      possano, comunque, essere oggetto di una diversa disciplina, in omaggio alla equiordinazione degli enti locali nell’ambito degli enti che compongono la Repubblica.

Si tratta di due conclusioni false ed erronee. Nessuna legge dell’ordinamento italiano ha bisogno di alcun atto di recepimento per essere applicata all’ordinamento interno, con la sola eccezione dei casi degli statuti speciali delle regioni, laddove attribuiscano alla potestà legislativa esclusiva di queste determinate materie.

 

Il “recepimento” è attività propria di ordinamenti “indipendenti”, i quali, per propria autonoma determinazione, stabiliscono liberamente di recepire, acquisire, quindi nel proprio ordinamento, atti normativi di altri ordinamenti. Il recepimento avviene, generalmente, per effetto di adesione a trattati internazionali, che costruiscono la cornice nell’ambito della quale l’organismo internazionale produce atti, soggetti a successivo recepimento, affinchè siano produttivi di effetti negli specifici ordinamenti degli Stati aderenti ai trattati. E’ esattamente il meccanismo fissato dalle regole del Trattato UE, sia pure con le sfumature particolari che prevedono un recepimento vero e proprio per i regolamenti, ed un recepimento “forzato” nel caso delle Direttive, che spesso sono autoapplicative decorso un determinato lasso di tempo per il recepimento.

Ora, la legge italiana trova efficacia ed ingresso nell’operatività anche dell’ordinamento locale immediatamente (sia nel senso di “subito”, sia nel senso di assenza di mediazione). Non occorre, quindi alcun atto di recepimento.

Allo stesso modo, i regolamenti locali non dispongono di alcun potere di modificare le previsioni sostanziali delle norme.

La riforma del Titolo V della Costituzione ha spinto, in questi anni, molta parte della dottrina ad enfatizzare oltre ogni misura la previsione espressa della potestà regolamentare contenuta nell’articolo 117, comma 6, della Costituzione stessa.

 

Si è parlato dell’attivazione di una potestà regolamentare propria, rispetto alla quale le previsioni normative sarebbero da considerare “cedevoli”. Una ricostruzione mai accolta dalla giurisprudenza[1], secondo la quale i regolamenti locali sono rimasti subordinati alle leggi ed agli statuti, potendo dipanare il proprio potere normativo solo entro i limiti consentiti dalla normativa.

In effetti, la dottrina incline a ritenere che i regolamenti locali possano aver ricevuto dalla sciaguratissima riforma del Titolo V una potestà normativa di fatto concorrente e riservata, esagera vistosamente i contenuti del citato comma 6 dell’articolo 117 della Costituzione. Leggiamone il testo: “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

Come si nota, la disposizione non autorizza in alcun modo a ritenere che gli enti locali dispongano di una propria potestà regolamentare riservata e capace di far retrocedere la legge, nella disciplina sostanziale. I regolamenti restano, come inevitabile, soggetti al principio di legalità. Lo spazio che la Costituzione riconosce loro è solo quello organizzativo: i regolamenti non possono né modificare i contenuti delle norme o derogarli (a meno che non siano le leggi a consentirlo in via esplicita), né integrarne i contenuti sostanziali; possono esclusivamente occuparsi di come calare nell’organizzazione le attività necessarie ad attuare le previsioni normativi. La Costituzione si è preoccupata di consentire alla variegatissima organizzazione, anche solo dimensionale, degli enti locali di specificare come attivare al proprio interno le strutture organizzative necessarie per attuare le norme. Non di fissare contenuti ulteriori, alternativi o derogatori alle leggi.

 

Preso atto di questo, risulta assai evidente che la “regolamentite”, l’eccesso regolamentare costituisce un appesantimento normativo ed organizzativo, lungi dall’essere un corretto strumento d’esercizio delle funzioni.

Per altro, moltissime volte l’adozione dei regolamenti si riduce alla ripetizione dei contenuti delle norme; ripetizione che, però, non è pedissequa. Qui e là gli enti introducono proprio quelle superfetazioni o deroghe, inammissibili, che poi espongono la concreta gestione a una serie di problemi di legittimità. La norma regolamentare difforme dalla legge andrebbe disapplicata, ma è chiaro che chi abbia interesse all’applicazione del regolamento in quanto contenga una previsione a sé favorevole potrebbe impugnare il provvedimento che lo disapplica.

La “regolamentite” è un non senso giuridico, una fonte di complicazione e di contenzioso senza pari, senza che, purtroppo, vi possa essere un freno esterno alla produzione di regolamenti inutili e dannosi, a causa della sventurata abolizione dei controlli preventivi esterni di legittimità.

Un esempio di regolamento inutile e controproducente, ma larghissimamente presente ed utilizzato, è quello posto a disciplinare i procedimenti disciplinari.

Si tratta di uno sforzo normativo totalmente privo di senso ed utilità, buono solo a creare spunti per il contenzioso.

Gli enti locali sono convintissimi dell’opportunità di una disciplina interna per le sanzioni disciplinari.

Ma, producendo l’inutile regolamento non si rendono conto di dare vita ad una norma che risulta del tutto illegittima per totale carenza di potere.

Un regolamento locale per la disciplina del procedimento disciplinare, infatti, va in frontale rotta di collisione con l’articolo 40, comma 1, secondo periodo, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge”.

 

Tale norma pone contestualmente due distinte riserve:

1.      una di legge: la disposizione evidenzia che le materie elencate sono attribuite in via principale alla competenza normativa dello Stato, poiché si tratta della disciplina del rapporto di lavoro, sorretta dal codice civile;

2.      l’altra, di contratto nazionale collettivo: la norma, cioè, consente alla legge di disporre di se stessa ed autolimitarsi, per concedere spazi di normazione ad altra fonte, cioè i contratti collettivi nazionali di lavoro.

Come è facile notare, la disciplina non contempla nel modo più radicale i regolamenti quali fonti del procedimento disciplinare.

E, d’altra parte, l’articolo 55, comma 1, del medesimo d.lgs 165/2001 stabilisce che “Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile”. Si tratta di norme inderogabili da parte dei contratti e, a maggior ragione, dai regolamenti, per nulla considerati fonti di produzione e regolazione del procedimento disciplinare.

Del resto, questo assetto è coerente con le previsioni dell’articolo 2, comma 2, sempre del d.lgs 165/2001, posto a dettare in generale le regole sulle fonti in merito al rapporto di lavoro pubblico: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili”.

 

Non solo la norma qui sopra citata individua le fonti del rapporto di lavoro esclusivamente in codice civile, leggi sul rapporto di lavoro nell’impresa, il tutto, in quanto compatibile con le norme di diritto speciale contenute nel d.lgs 165/2001 stesso; espressamente indica che statuti e regolamenti non hanno alcuna potestà e competenza ad ingerirsi nella materia.

L’unico limitatissimo spazio occupabile dai regolamenti locali riguarda la costituzione ed organizzazione dell’ufficio per i procedimenti disciplinari. Infatti, l’articolo 55-bis, comma 2, del d.lgs 165/2001 dispone che “Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento e nell’ambito della propria organizzazione, individua l’ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarità e responsabilità”.

In applicazione, quindi, della potestà regolamentare prevista dall’articolo 117, comma 6, della Costituzione, gli enti locali possono adottare non un regolamento sui procedimenti disciplinari, la cui disciplina è integralmente esaurita dalla legge e dai contratti collettivi nazionali di lavoro, bensì un regolamento che abbia ad oggetto costituzione e funzionamento dell’ufficio per i procedimenti disciplinari e nulla più. Il successivo comma 3 del citato articolo 55-bis permette, inoltre, agli enti di convenzionarsi per gestire in via unificata l’ufficio, senza maggiori oneri per la finanza pubblica. Il che dimostra che la diffusa abitudine da parte degli enti “capofila” di uffici per i procedimenti disciplinari convenzionati di chiedere agli altri enti aderenti un feeper i procedimenti gestiti è illegittima e fonte di responsabilità amministrative quando non anche penali.

 

 

 


[1] Per un approfondimento sul tema: “LE FONTI DEGLI ENTI LOCALI TRA DOTTRINA E GIURISPRUDENZA (A QUASI UN DECENNIO DALLA RIFORMA DEL TITOLO V), di Cesare Mainardis, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0243_mainardis.pdf.

 
 

 

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