Print Friendly, PDF & Email

Cumulo di impieghi tra enti locali. Difficile la dimostrazione del danno erariale al dipendente previamente autorizzato

di Vincenzo Giannotti – Dirigente Settore Gestione Risorse (umane e finanziarie) Comune di Frosinone
Un dipendente assunto a tempo indeterminato presso un ente locale, che aveva richiesto ed ottenuto il part-time, prima al 50% (18 ore settimanali) e successivamente al 83,33% (30 ore settimanali), comunicava al proprio ente l’assunzione di incarichi esterni di collaborazione presso altri due enti locali. L’incarico di collaborazione presso il primo comune veniva autorizzato dall’ente di appartenenza, anche mediante successivi rinnovi, così come veniva autorizzato per un periodo di sei mesi un ulteriore incarico esterno presso l’ufficio tecnico manutentivo, costituito in convenzione tra due comuni, incarico quest’ultimo di cui non seguiva l’autorizzazione alla proroga con cessazione dell’incarico alla fine dei sei mesi autorizzati.
Il procedimento disciplinare
Il responsabile del personale, a seguito di puntuale verifica accertava che l’incarico ricevuto presso altro ente locale era avvenuto ai sensi dell’art. 110, comma 2, del Tuel, con la conseguenza di una incompatibilità di diritto che portava all’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa. Il Tribunale di primo grado, adito dal dipendente licenziato, pur riconoscendo la legittimità del licenziamento, ne rilevava la tardività dell’irrogazione della sanzione disciplinare con conseguente risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione. La Corte di Appello annullava, invece, il licenziamento per insussistenza del fatto contestato, rilevando che il rapporto di lavoro istaurato ai sensi dell’art. 110, comma 2 del Tuel, fosse da inquadrare quale collaborazione autonoma (Art. 110, comma 6, del Tuel), condannando il Comune alla reintegra del dipendente nel posto di lavoro. La causa giungeva in Cassazione che, annullando la pronuncia del giudice di appello, riconosceva la natura subordinata del rapporto di lavoro e rimetteva alla Corte di Appello, in diversa composizione, la nuova decisione sul merito.
Le accuse mosse dalla Procura contabile
La Procura nella ricostruzione del caso individuava l’incompatibilità assoluta dell’incarico autorizzato ai sensi dell’art. 110, comma 5, del Tuel a mente del quale è prevista la risoluzione di diritto del precedente rapporto di lavoro con l’amministrazione di appartenenza, ovvero il collocamento in aspettativa secondo le modifiche medio tempore intervenute. Secondo la Procura, si sarebbe in presenza di fattispecie di incompatibilità assoluta tra incarichi e impieghi, rispetto alla quale sarebbe dunque irrilevante qualsivoglia comunicazione e/o autorizzazione dell’ente di appartenenza, che sarebbero comunque state ottenute dal convenuto attraverso un comportamento dissimulatorio, volto a far credere agli amministratori dell’ente locale di appartenenza il carattere liberamente esercitabile della propria attività extra-lavorativa. Il dipendente ha difeso la propria posizione, oltre che in rito (prescrizione, differenza tra atto introduttivo e citazione, competenza del giudice ordinario) anche nel merito, spiegando che le attività svolte erano state sempre previamente autorizzate anche in un periodo in cui lo stesso è stato posto in part-time al 50% venendo meno in tale periodo il divieto di cumulo degli impieghi.
Le deroghe normative per gli enti locali
Il Collegio contabile ha rilevato in via preliminare come il legislatore abbia da sempre vietato il cumulo di impieghi/incarichi presso diverse amministrazioni, a prescindere sia dalla natura subordinata, parasubordinata o autonoma del rapporto nascente dall’incarico assunto, sia dal regime a tempo pieno o parziale del rapporto di pubblico impiego originario. Questo principio è stato sin dall’inizio sancito dall’art. 65D.P.R. n. 3 del 1957, secondo cui “Gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salve le eccezioni stabilite da leggi speciali … (omissis) … L’assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall’impiego precedente, salva la concessione del trattamento di quiescenza eventualmente spettante, ai sensi dell’art. 125, alla data di assunzione del nuovo impiego”. Al citato divieto il legislatore ha, tuttavia, previsto possibili eccezioni o deroghe, qualora disposte dalla legge (o da norme contrattuali) che per gli enti locali possono così essere riassunte:
– l’art. 92 del Tuel prevede che “Gli enti locali possono costituire rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, pieno o parziale, nel rispetto della disciplina vigente in materia. I dipendenti degli enti locali a tempo parziale, purché autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, possono prestare attività lavorativa presso altri enti”;
– l’art. 1 comma 58-bis, L. n. 662 del 1996 dispone che i dipendenti degli enti locali, con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento, possono svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza;
– l’art. 1, comma 557L. n. 311 del 2004 stabilisce che “I comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell’attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purché autorizzati dall’amministrazione di provenienza”;
– l’art. 14 del CCNL enti locali del 22 gennaio 2004, al comma 1, dispone che “Al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare, con il consenso dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri enti cui si applica il presente CCNL per periodi predeterminati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo …”;
– infine, in presenza di incarichi non di natura subordinata, è prevista la possibilità di autorizzare il dipendente pubblico, da parte dell’ente di appartenenza, a prestare attività extra lavorativa esterna (art. 53D.Lgs. n. 165 del 2001).
In considerazione delle sopra indicate deroghe, la possibilità da parte dei dipendenti degli enti locali di prestare attività presso altri enti locali non è vietata dalla legge. Sul punto, precisa il Collegio contabile, appaiono dirimenti le conclusioni cui è giunta la Sezione delle Autonomie della corte dei conti (deliberazione n. 23 del 2016) secondo la quale “se l’Ente decide di utilizzare autonomamente la prestazione di un dipendente a tempo pieno presso altro ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi all’interno di un nuovo rapporto di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall’art. 9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo”. Pertanto, nulla vieta all’ente locale di conferire incarichi ad un dipendente a tempo pieno di altra amministrazione, anche mediante contratto di lavoro subordinato a tempo parziale, con l’unico limite della previa autorizzazione dell’ente di appartenenza e del necessario rispetto del limite massimo lavorabile di 48 ore settimanali, posto dal D.Lgs. n. 66 del 2003.
La decisione del Collegio contabile
Precisata la normativa di riferimento per gli enti locali, il Collegio contabile emiliano romagnolo rileva che, nel caso di specie, il dipendente abbia correttamente richiesto ed ottenuto specifica autorizzazione agli incarichi che avrebbero dovuto essere svolti presso altri enti locali, mentre gli enti locali conferenti hanno correttamente comunicato gli importi corrisposti al fine degli adempimenti previsti dall’anagrafe delle prestazioni. I giudici contabili, prendono atto, tuttavia, che il dipendente successivamente passato a 30 ore settimanali, presso la propria amministrazione, ha di fatto ecceduto il limite delle 48 ore settimanali, ma evidenziano anche che, tale orario eccedente, non determina, diversamente dalla quanto prospettato dalla Procura, nullità del rapporto per illiceità della causa, essendo esclusivamente sottoposto a sanzioni pecuniarie a carico del datore di lavoro inadempiente (art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 213 del 2004). In altri termini, le prestazioni lavorative effettuate in concreto, seppur in violazione di legge (art. 2126 c.c.) non è di per sé idonea a causare un danno all’erario e ad escludere il riconoscimento della controprestazione in denaro, laddove il rapporto non sia in contrasto con i principi etici fondamentali dell’ordinamento di ordine pubblico o con norme imperative che ad esso riconducono. In tale ambito, infatti, la Procura non ha minimamente evidenziato come tale eccedenza di orario si sia rivolta a detrimento delle prestazioni del dipendente presso la propria amministrazione (esempio minore rendimento, mancanze, negligenze o ritardi nell’adozione di atti od in generale nell’esercizio delle funzioni affidate).
Infine, secondo i giudici contabili, non può non essere rilevato, in merito alla buona fede del dipendente, come proprio l’autorizzazione rilasciata dall’ente di appartenenza avrebbe dovuto sin dall’inizio rilevare eventuali situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi (art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001).
In definitiva il dipendente deve essere assolto sia per mancanza del danno erariale (non dimostrato dalla Procura) sia per mancata verifica da parte dell’ente di appartenenza in sede di autorizzazioni rilasciate in merito agli incarichi esterni richiesti dal dipendente.

Torna in alto