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dI GIOVANNI BAROZZI REGGIANI
In house providing, capitali privati e vincoli per il legislatore
L’istituto dell’in house providing, sorto per effetto dell’attività pretoria della Corte di Giustizia CE (UE) ed oggetto di successive elaborazioni – che ne avevano, fino ad epoca recente, determinato una certa “stabilizzazione” quanto a caratteri distintivi e presupposti applicativi – è tornato al centro delle riflessioni dottrinali e giurisprudenziali a seguito dell’entrata in vigore del pacchetto di Direttive UE concernenti concessioni e appalti pubblici (Direttive 23, 24 e 25/2014/UE). I citati interventi normativi eurounitari hanno parzialmente mutato i connotati del volto dell’istituto dell’in house, sotto svariati profili e, in particolare (e trattasi della tematica oggetto specifico del presente contributo), in riferimento alla “natura” (pubblica o privata) ed alla dimensione (totalitaria, maggioritaria, minoritaria) delle partecipazioni al capitale sociale del soggetto cui un’Amministrazione intenda affidare senza gara un contratto pubblico. Introducendo un elemento che – pur non costituente novità assoluta – appare certamente rilevante per il suo carattere di applicabilità alla generalità delle ipotesi di in house providing, le Direttive del 2014 hanno, per quanto qui di specifico interesse, affermato la qualificabilità quale soggetto «in house» – ai fini della “sottrazione” alla gara per l’affidamento di un contratto pubblico – anche di una società alla quale partecipino capitali privati (sempre che risultino sussistenti ben precisi presupposti e a patto che, naturalmente, sussistano i requisiti dell’attività prevalente e del controllo analogo). Trattasi di elemento di novità che impone qualche riflessione, specie in ragione del fatto che, in epoca antecedente all’entrata in vigore delle Direttive del 2014, all’esito di un graduale ma costante percorso giurisprudenziale (confermato peraltro da alcuni interventi normativi del nostro legislatore) si era addivenuti alla conclusione per la quale l’in house richiedesse, per la propria configurazione, la partecipazione totalitaria (rigorosamente) pubblica al capitale sociale del soggetto; ragion per cui l’apertura alla presenza di capitali privati rappresenta una novità (benché, come si diceva, non assoluta) potenzialmente dirompente, che richiede la messa a punto di precise cautele nonché di essere pienamente e correttamente interpretata. Con detta novità, sorta in contesto europeo, hanno dovuto fare i conti gli Stati membri dell’Unione, in sede di recepimento del pacchetto di Direttive del 2014. E nell’ordinamento italiano, nell’ambito del predetto recepimento, sono sorte questioni interpretative di non lieve momento, anche a causa di interventi normativi non sempre coordinati e di interpretazioni oscillanti fornite (benché in sede “semplicemente” consultiva) dal Consiglio di Stato… (segue)

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