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Controllo pubblico della partecipata: non è sufficiente la maggioranza dei voti in assemblea
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
Il TAR della Marche con la sentenza n. 695, dell’11 novembre 2019, dopo una approfondita analisi della normativa contenuta nel D.Lgs. n. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) ha affermato che la situazione di controllo pubblico della partecipata non è soddisfatto dalla maggioranza dei voti in assemblea perché è necessario anche una influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della società partecipata.
Il caso
Il contenzioso vede contrapposti una società mista di paternariato pubblico-privato concessionario del servizio di gestione integrato dei rifiuti urbani e un Comune.
In particolare la società partecipata ha impugnato il provvedimento inerente la deliberazione del Consiglio comunale del dicembre 2018 ritenendo che vi non vi siano i presupposti per configurare, la società partecipata soggetta ad un controllo pubblico , ai sensi del D.Lgs. n. 175 del 2016.
L’analisi del TAR delle Marche
Il TAR evidenzia preliminarmente che la ricorrente è una società mista pubblico-privata di Partenariato Pubblico Privato Istituzionalizzato (PPPI), concessionaria del servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti urbani e assimilati nei comuni soci. I soci privati della ricorrente società sono stati individuati all’esito di una procedura evidenza pubblica di gara a doppio oggetto di “Selezione del socio privato partner industriale al 49,59%” e l’affidamento in concessione per 15 anni del servizio pubblico locale di gestione integrata dei rifiuti ed attività connesse e correlate nei confronti dei comuni partecipanti alla parte pubblica del capitale.
I soci pubblici, invece, sono 21 Comuni e una Comunità Montana.
Nel ricorso in questione e, in precedenza, nella fase istruttoria che ha portato il Comune ad adottare la decisione impugnata, la società ricorrente ha sostenuto di dover essere inquadrata tra le società a partecipazione pubblica e non tra le società a controllo pubblico, in quanto la semplice maggioranza pubblica delle quote societarie non integrerebbe il controllo ai sensi dell’art. 2, lett. m) e b) del D.Lgs. n. 175 del 2016, non essendo configurabile un controllo congiunto ai sensi della normativa sopra richiamata.
Nella fattispecie lo statuto della società pubblica prevede che vi sia maggioranza pubblica nel consiglio di amministrazione (5 nominati dai soci pubblici e 4 dai privati, artt. 11 e 13 dello Statuto) e che la nomina del presidente sia riservata al socio maggioritario pubblico, così come la nomina del vicepresidente, mentre ai soci privati è riservata la nomina dell’amministratore delegato.
Preliminarmente, il TAR afferma la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo; infatti, come ritenuto in giurisprudenza in materia di provvedimenti riguardanti le partecipazioni detenute da enti pubblici, la volontà del soggetto pubblico che è socio di una società mista, analogamente a quella di ogni soggetto collettivo socio di una società di capitali, a differenza di quanto accade per il socio persona fisica, non si forma nel foro interno per essere poi esternata mediante dichiarazione e il voto in assemblea, ma all’esito di un evidente procedimento amministrativo, il cui atto principale è deliberato dall’organo competente per legge.
Se, come nel caso in esame, la volontà proviene da un ente pubblico, questo è un procedimento amministrativo che rileva per la generalità e rispetto al quale ben vi possono essere posizioni differenziate, sindacabili davanti al giudice amministrativo quale giudice del legittimo esercizio del potere pubblico. Vi è, dunque, una fase pubblicistica che precede la fase privatistica interna alla società e che si conclude con l’adozione delle delibera da parte degli organi societari. In particolare, la volontà del socio pubblico si forma nella prodromica determinazione amministrativa, e va a produrre i suoi reali effetti nei confronti della società, come nei confronti degli altri soci.
Il TAR ritiene che, nel caso in esame, sia indubbia la presenza di un potere autoritativo, che valuta l’effettiva presenza del controllo pubblico della società partecipata e richiede i conseguenti adempimenti statutari . Il provvedimento di cui all’art. 20 del D.Lgs. n. 175 del 2016 non può quindi essere ritenuto un atto meramente ricognitivo, a differenza di quanto sostenuto dal Comune resistente. Non depone in senso contrario il controllo della Corte dei Conti previsto dal D.Lgs. n. 175 del 2016 sulle delibere societarie.
Nel merito, la questione oggetto dell’unico e articolato motivo di ricorso, è la nozione di società a controllo pubblico sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 175 del 2016 con le conseguenze in termini di adeguamento dello statuto societario di quanto previsto da tale norma.
La questione si configura di puro diritto, in quanto sono sostanzialmente incontestati i principi di governance alla base dello statuto della ricorrente.
Il provvedimento impugnato considera in maniera coordinata le norme, nel senso che, qualora una o più amministrazioni pubbliche dispongano della maggioranza dei voti nell’assemblea ordinaria, le stesse esercitano poteri di controllo ai sensi dell’art. 2359 e, quindi, il controllo pubblico ai sensi dell’art. 2 lett. m) del D.Lgs. n. 175 del 2016. Detta tesi, nel medesimo provvedimento del Comune e impugnato dalla società partecipata, viene rafforzata con il riferimento a una delibera della sezione controllo della Corte dei Conti Sezione regionale della Liguria deliberazione n. 3 del 2018 e al parere della Struttura di monitoraggio e controllo delle partecipazioni pubbliche del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in data 15 febbraio 2018, che esprimono il medesimo avviso (così come la già citata decisione n. 46 del 2018 della Sezione di Controllo delle Marche in atti).
Il TAR ritiene che la tesi espressa nel provvedimento impugnato non sia condivisibile. In particolare, per la società partecipata non si integrano i presupposti per la presenza di un controllo pubblico, alla luce dell’insufficienza del mero dato della maggioranza in assemblea (e all’interno del consiglio di amministrazione) per affermare un controllo da parte dei soci pubblici ai sensi dell’articolo 2, del D.Lgs. n. 175 del 2016 e, conseguentemente, dell’art. 2359 cod. civ.
La stessa tesi è stata espressa in una recente decisione del giudice amministrativo. Nel caso citato, una società a capitale misto pubblico privato era stata ritenuta in una situazione di controllo ai sensi della seconda parte dell’art. 2, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 175 del 2016 “…quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo…” e dell’art. 2359 comma 3 del codice civile. Significativamente, nel caso esaminato dalla sentenza, lo stesso ente (ANAC) che ha ritenuto la sussistenza del controllo pubblico sulla società oggetto della pronuncia, non lo ha fatto in base alla mera maggioranza assembleare dei soci pubblici, pur presente.
In ogni caso, la sentenza citata per escludere la sussistenza del controllo pubblico, ha valorizzato il fatto che la gestione compete “per statuto” a un amministratore delegato espressione della parte privata e che i soci pubblici devono condividere con quello privato le delibere dell’assemblea straordinaria (come nel caso in esame), nonché, nel caso specifico, anche di quella ordinaria (TAR Roma 5118/2019).
La tesi della non sufficienza della maggioranza in assemblea per configurare un controllo pubblico ha trovato un’ulteriore recente conferma giurisprudenziale, con riguardo a un’altra società a partecipazione mista situata nella regione Marche. La sentenza osserva che l’accertamento della sussistenza dello status di società a controllo pubblico non può essere desunto dai meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di consiglieri nel consiglio di amministrazione ma richiede precipua attività istruttoria volta a verificare se, nel caso concreto, sussistano le condizioni richieste dall’art. 2, lett. b) del D.Lgs. n. 175 del 2016. In altre parole, ai fini del decidere se una società possa definirsi , o meno, società a controllo pubblico ovvero semplicemente società a partecipazione pubblica, assume rilievo decisivo lo scrutinio delle disposizioni statutarie e dei patti parasociali per verificare in che termini le pubbliche amministrazioni (enti locali) che detengono partecipazioni azionarie sono in grado di influire sulle “decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale”. Ciò si ricava dalla lettura dell’art. 2 lett. b) del D.Lgs. n. 175 del 2016 che circoscrive in modo più rigoroso la nozione di “controllo pubblico” introducendo un’altra fattispecie, estranea alla nozione civilistica ex art. 2359 cod.civ., nell’affermazione che può sussistere anche quando “in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo” (Corte dei Conti, sez. un. giur, 16/2019 cit.).
Il TAR nell’accogliere il ricorso condivide l’orientamento citato , per il quale non è possibile desumere il controllo pubblico dalla semplice astratta possibilità per i soci pubblici di fare valere la loro maggioranza azionaria in assemblea. Il riferimento alla mera maggioranza dei voti esercitabili in assemblea non può, quindi, essere svincolato da indici concreti di un effettivo controllo.
Soprattutto nel caso della società partecipata ricorrente dove il socio pubblico principale ha una partecipazione inferiore ai due maggiori soci privati e vi sono previsioni statutarie che assegnano ai soci privati la nomina dell’Amministratore delegato (che, ai sensi dell’art. 20 dello statuto, cura sia pure con alcune limitazioni, la gestione operativa delle società, l’attuazione della sua volontà, e il controllo del suo andamento) e prevedono la necessità di coinvolgere i soci privati nella convocazione dell’assemblea straordinaria (e, quindi, nelle modifiche statutarie).

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