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Claudio Contessa (*)
 
Lo stato dell’arte in tema di affidamenti in house (**)
 
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Sommario: 1. Aspetti generali della questione. – 2. Principali acquisizioni giurisprudenziali in materia di in house providing prima del ‘pacchetto normativo’ del 2014 (sintesi). – 3. Le novità in tema di in house providing introdotte dal nuovo Codice dei contratti pubblici e dal ‘Decreto correttivo’. – 4. Le differenze tra la nuova disciplina e quella anteriore al 2016. – 5. Il requisito del controllo analogo. – 6. Il controllo analogo in caso di in house pluripartecipato. – 7. Il requisito dell’attività prevalente nelle società pluripartecipate. – 8. L’in house è una modalità di affidamento ordinaria ovvero speciale ed eccezionale? – 9. La questione della fallibilità delle società in house.
 
 
 
1 Aspetti generali della questione.
 
La disciplina dell’in house providing (contenuta nell’articolo 5 – e, in misura minore, nell’articolo 192 – del nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’, nonché nell’articolo 16 del Testo unico sulle società partecipate del 2016)[1] presenta un’assoluta peculiarità ai fini di cui alla presente indagine.
Dal punto di vista del diritto positivo, infatti, tali previsioni rappresentano il primo tentativo di fornire all’istituto in esame una disciplina positiva dotata di un qualche grado di compiutezza.
D’altra parte (e per ciò che riguarda le ricadute giurisprudenziali del fenomeno) occorre osservare che si tratta di un istituto la cui elaborazione prosegue – sia pure con alterne fasi – da ormai un ventennio (i.e.: dal 1999, anno in cui la Corte di giustizia si pronunciò sul ben noto caso Teckal).
Nonostante si tratti di un istituto ben conosciuto agli operatori del diritto pubblico nazionale (e nonostante esso rappresenti un fenomeno di squisita matrice giurisprudenziale)[2], sono ancora piuttosto limitate le pronunce in tema di in house providing rese nella vigenza del nuovo ‘Codice’ dei contatti pubblici.
Ciò pone un obiettivo problema a chi si accinga a descrivere il fenomeno in questione nell’ambito di una trattazione dedicata essenzialmente al contenzioso e alla giurisprudenza.
Ed infatti, laddove si tentasse di tracciare una panoramica completa della giurisprudenza in tema di affidamenti in house, si rischierebbe di superare – e non di poco – i limiti dimensionali propri della presente elaborazione (richiamando talvolta, oltretutto, orientamenti vetusti, isolati oppure superati dalla successiva elaborazione normativa).
Laddove ci si limitasse, invece, all’esame delle sole pronunce successive all’entrata in vigore del ‘Codice’, la trattazione rischierebbe di restare limitata a un novero piuttosto ristretto di tematiche.
Laddove, infine, si omettesse qualunque riferimento alla disciplina positiva del fenomeno (enfatizzandone in massimo grado la matrice giurisprudenziale), si rischierebbe di svolgere una trattazione largamente incompleta: tanto, nella consapevolezza che l’istituto in parola presenta ormai una commistione inscindibile fra profili di diritto positivo e tratti di matrice giurisprudenziale.
Pur nella consapevolezza di tale inevitabile ‘errore pendolare’, si ritiene comunque iniziare la presente parte della trattazione prendendo le mosse da una sintetica panoramica sintetica i principali filoni giurisprudenziali formatisi fino al ‘pacchetto UE’ del 2014, per poi esaminare le principali novità introdotte sul tema ad opera del ‘pacchetto’ normativo eurounitario del 2014 (e dalla conseguente normativa nazionale di recepimento), concludendo poi con un esame delle principali questioni attualmente aperte nell’ambito del dibattito giurisprudenziale nazionale.
 
 
 
2. Principali acquisizioni giurisprudenziali in materia di in house providing prima del ‘pacchetto normativo’ del 2014 (sintesi)
 
Nel presente paragrafo si sarà sinteticamente conto di alcune fra le principali acquisizioni giurisprudenziali in materia di in house providing affermatesi anteriormente all’approvazione del pacchetto normativo del 2014.
L’analisi in questione (necessariamente breve) si soffermerà essenzialmente sulla giurisprudenza della CGUE in tema di presupposti e condizioni per procedere – in modo legittimo – a un affidamento in house.
Come è noto, i presupposti applicativi per l’affidamento in house sono stati delineati per la prima volta dalla CGCE con la sentenza sul caso Teckal del 18 novembre 1999 (in causa C-107/98).
La decisione della Corte di Lussemburgo fu resa all’esito di un’ordinanza di rimessione ex articolo 234 del TCE (in seguito: articolo 267 del TFUE) del T.A.R. dell’Emilia-Romagna su un caso avente ad oggetto la fornitura dei servizi di riscaldamento del Comune di Viano (RE).
Nell’occasione la Corte di giustizia affermò che si poteva prescindere da un affidamento con gara di servizi altrimenti contendibili sul mercato (e procedere a un affidamento diretto in favore di una società formalmente distinta rispetto all’ente conferente) a condizione che tale società si configurasse come ‘organismo in house’.
Tale possibilità sussisteva al ricorrere di condizioni requisiti:
  • che l’Ente conferente eserciti su quello conferitario un controllo analogo a quello esercitato sui propri uffici o articolazioni interne (requisito del controllo analogo o del controllo strutturale);
  • che l’Ente conferitario svolga la parte prevalente della propria attività con l’Ente (o gli Enti) che la controllano (requisito dell’attività prevalente).
Si trattava evidentemente di requisiti che dovevano necessariamente sussistere in modo cumulativo, a pena di illegittimità dell’affidamento.
 
 
Corte di giustizia delle CE
Sentenza 18 novembre 1999 in causa C-107/98 (Teckal)
(punto 46 e segg.)
 
(…) Il comune di Viano, in quanto ente locale, è un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva 93/36. Spetta pertanto al giudice nazionale verificare se il rapporto tra tale amministrazione e l’AGAC soddisfi anche le altre condizioni previste dalla direttiva 93/36 per configurare un appalto pubblico di forniture.
Ciò avviene, conformemente all’art. 1, lett. a), della direttiva 93/36, se si tratta di un contratto concluso per iscritto a titolo oneroso avente per oggetto, in particolare, l’acquisto di prodotti.
E’ pacifico nella fattispecie che l’AGAC fornisce prodotti, ossia combustibili, al comune di Viano dietro pagamento di un corrispettivo.
Relativamente all’esistenza di un contratto, il giudice nazionale deve verificare se vi sia stato un incontro di volontà tra due persone distinte.
A questo proposito, conformemente all’art. 1, lett. a), della direttiva 93/36, basta, in linea di principio, che il contratto sia stato stipulato, da una parte, da un ente locale e, dall’altra, da una persona giuridicamente distinta da quest’ultimo. Può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano.
Occorre pertanto risolvere la questione pregiudiziale nel senso che la direttiva 93/36 è applicabile ove un’amministrazione aggiudicatrice, quale un ente locale, decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un contratto a titolo oneroso avente ad oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta un’amministrazione aggiudicatrice o meno”.
 
 
Casella di testo: La successiva evoluzione giurispruden-zialePer quanto riguarda l’evoluzione giurisprudenziale, all’indomani dell’enucleazione dell’istituto sia la giurisprudenza della Corte di giustizia, sia la giurisprudenza nazionale iniziarono a valutarne i presupposti e i contorni applicativi in modo estremamente rigoroso (sino ad affermare che il ricorso all’istituto stesso non rappresentasse un ordinario corollario del principio di libertà organizzativa delle amministrazioni ma rappresentasse piuttosto un’eccezione al principio di libera concorrenza in materia di affidamenti).
Casella di testo: In house e partecipazione di capitali privatiPer quanto riguarda la giurisprudenza relativa c.d. ‘primo requisito Teckal’ (o: requisito del controllo analogo): è stata esclusa la sussistenza di un controllo analogo nel caso in cui il capitale della società potenzialmente ‘in house’ sia partecipato anche in quota minoritaria da soggetti privati (in tal senso la sentenza 11 gennaio 2005 in causa C-26/03 – Stadt Halle – in termini analoghi  la sentenza Cons. Stato, Ad. Plen. 3 marzo 2008, n. 1 –)[3].
La giurisprudenza della Corte di Lussemburgo escluse inoltre la sussistenza di un controllo analogo (e quindi di una relazione ‘in house’) nel caso in cui il soggetto affidatario, pur se partecipato integralmente da un’amministrazione pubblica, fosse comunque governato da un consiglio di amministrazione caratterizzato da rilevanti poteri gestori esercitabili in modo sostanzialmente autonomo (sentenza 13 ottobre 2005 in causa C-458/03 – Parking Brixen).
La giurisprudenza della Corte di Lussemburgo ha inoltre escluso la sussistenza del requisito del ‘controllo analogo’ (e quindi di un rapporto ‘in house’ in senso proprio) laddove, pur sussistendo al momento dell’affidamento una partecipazione interamente pubblica, nondimeno lo statuto sociale dell’organismo conferitario contempli la possibilità di alienare o cedere a terzi una parte del capitale (in tal senso la sentenza 10 settembre 2009 in causa C-573/07 – SEA).
La giurisprudenza della Corte ha inoltre enucleato uno stringente novero di poteri ispettivi e di controllo (ad es., in materia di bilanci) che il soggetto conferente deve necessariamente poter esercitare su quello conferitario perché possa dirsi sussistente il requisito del controllo analogo (in tal senso la sentenza sul caso Parking Brixen in causa C-458/03).
Ma anche per quanto riguarda il secondo requisito Teckal (requisito dell’attività prevalente), la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo ha serbato un atteggiamento di pari rigore applicativo.
In particolare:
–        è stato affermato che il requisito dell’attività prevalente possa dirsi predicabile solo laddove la società potenzialmente ‘in house’ realizzi la propria attività in regime di sostanziale esclusività con il soggetto conferente (in tal senso la sentenza 11 maggio 2006 in causa C-340/04 – Carbotermo);
–        è stato affermato che, per ravvisarsi la sussistenza del c.d. ‘secondo requisito’, l’eventuale svolgimento di attività in favore di soggetti terzi debba presentare un carattere del tutto marginale (in tal senso la sentenza CGCE, 11 dicembre 2008 in causa C-371/07 – Commissione c/ Italia).
 
 
 
3. Le novità in tema di in house providing introdotte dal nuovo Codice dei contratti pubblici e dal ‘Decreto correttivo’.
Come si è già accennato, il nuovo Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione reca per la prima volta nell’esperienza nazionale una disciplina dell’in house providing che si caratterizza con un qualche carattere di compiutezza (sia pure, con le criticità connesse a un testo di recepimento che costituisce in massima parte un puro e semplice esercizio di copy out dei testi eurounitari di riferimento)[4].
Non erano mancate negli anni passati talune iniziative (sia al livello nazionale, sia al livello UE) volte ad introdurre una disciplina generale in ordine ai presupposti e alle condizioni legittimanti il ricorso alla figura in questione, ma tali tentativi si erano per lo più risolti con sostanziali ‘nulla di fatto’.
Vero è, poi, che lo stesso Legislatore italiano aveva in più occasioni introdotto disposizioni volte a disciplinare taluni aspetti degli affidamenti in house (si pensi all’art 23- bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 sul cruciale tema dei servizi pubblici locali di rilevanza economica).
Tuttavia tali disposizioni (peraltro volte di solito a limitare la possibilità di fare legittimo ricorso all’istituto) non ne delineavano i caratteri generali – mutuati invece dall’elaborazione giurisprudenziale –, ma ne disciplinavano singoli aspetti con interventi nel loro complesso limitati e settoriali.
Si può quindi affermare che la principale novità recata sul punto dal Codice del 2016 sia rappresentata in primis dal fatto stesso che si sia reso possibile per la prima volta introdurre una disciplina generale – pur se non completa ed esaustiva – dell’istituto in esame.
È qui appena il caso di osservare che, anche al livello eurounitario, la disciplina introdotta dal c.d. ‘pacchetto appalti/concessioni’ del 2014 abbia rappresentato la prima traduzione normativa di un istituto di matrice essenzialmente giurisprudenziale, laddove – sino ad allora – i tentativi profusi in tal senso si erano sempre scontrati con i veti opposti da alcuni Stati Membri (Francia e Germania in primis), diffidenti nei confronti di una positivizzazione dell’istituto.
Ed infatti, a seguito dell’enucleazione del fenomeno dell’in house providing ad opera della sentenza Teckal del 1999, l’istituto è rimasto privo di una disciplina positiva al livello UE per circa quindici anni (i.e.: sino all’adozione del ‘pacchetto normativo appalti/concessioni’ del 2014).
Si osserva che nel prosieguo del presente contributo si farà riferimento (per quanto riguarda la disciplina positiva dell’istituto) alle previsioni di cui all’articolo 12 della Dir. 2014/24/UE (c.d. ‘Direttiva appalti’); anche se disposizioni sostanzialmente identiche sono presenti sia nella Dir. 2014/23/UE (c.d. ‘Direttiva concessioni’) che nella Dir. 2014/25/UE (c.d. ‘Direttiva settori speciali’).
Per quanto riguarda le modifiche apportate dal D.lgs. n. 56 del 2017 (c.d. ‘correttivo al Codice’) esse sono state piuttosto limitate sia con riferimento all’articolo 5 che all’articolo 192 (i.e.: con riferimento alle uniche due disposizioni del ‘Codice’ che disciplinano il fenomeno).
Il Legislatore della delega per l’emanazione del ‘Codice dei contratti pubblici’ (L. 28 gennaio 2016, n. 11) ha dedicato uno specifico criterio direttivo al tema dell’in house providing (si tratta del criterio eee), ma la lettura del criterio in parola[5] non aiuta l’interprete a comprendere quale sia in concreto l’approccio – per così dire: ‘di policy’ – che lo stesso Legislatore ha inteso tenere sul tema: la disposizione in esame, infatti, si limita a richiamare generali (e generici) obiettivi di pubblicità e trasparenza e prefigura altresì l’istituzione presso l’ANAC di una sorta di registro in cui iscrivere le amministrazioni che optano per questa modalità di conferimento.
Il nuovo Codice, come si è già anticipato, dedica due disposizioni al tema dell’in house providing: i) l’articolo 5 (il quale è rubricato in maniera non chiarissima ‘Principi comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico’ e costituisce certamente la disposizione di maggiore interesse sistematico) e ii) l’articolo 192 (il quale, al di là dell’altisonante rubrica – ‘Regime speciale degli affidamenti in house’ -, si occupa in realtà del solo aspetto relativo all’istituzione del c.d. ‘registro in house’).
Paradossalmente, quindi:
  • la disposizione che disciplina in concreto il fenomeno in esame (l’articolo 5) presenta una rubrica non pertinente, mentre
  • la disposizione che espressamente fa riferimento all’istituto dell’in house (l’articolo 192) si occupa a ben vedere di un aspetto piuttosto secondario della complessiva disciplina.
Entrambe le disposizioni risultano comunque caratterizzate – e per le ragioni già viste – da un indubbio carattere di innovatività.
Qui di seguito, quindi, ci si soffermerà dapprima sulle novità contenute nella disposizione caratterizzata da un più ampio respiro sistematico (i.e.: sull’articolo 5) e successivamente si darà conto delle novità contenute nel successivo articolo 192.
In assenza di un valido tertium comparationis sul quale basare un possibile confronto normativo, le osservazioni che seguono saranno fondate (da un lato) sul pregresso assetto giurisprudenziale dell’istituto e (dall’altro) sulla nuova disciplina introdotta al livello UE e nazionale – rispettivamente – nel 2014 e nel 2016.
Partendo dall’articolo 5 del ‘Codice’, quindi, gli aspetti di novità non saranno scrutinati – se non in parte – ponendoli in comparazione con la scarna disciplina nazionale pregressa, quanto – piuttosto – in relazione ai consolidati acquis giurisprudenziali formatisi in ambito UE e nazionale.
Il Codice del 2016 presenta sul punto almeno cinque importanti aspetti di novità.
Il primo aspetto di novità recato dal nuovo Codice (e che deriva puntualmente dalle omologhe previsioni dell’articolo 12, paragrafo 1 della Direttiva appalti 2014/24/UE)[6] inerisce il c.d. ‘primo requisito Teckal’ (o requisito del controllo analogo)[7].
La disposizione in esame segna il definitivo superamento dell’approccio (peraltro, estremamente radicato nella giurisprudenza e nel dibattito UE e nazionale) secondo cui anche una ridottissima partecipazione di capitali privati nell’ambito di un determinato organismo impedirebbe la configurabilità di un genuino controllo analogo (e quindi di un vero e proprio rapporto di immedesimazione organica, in tal modo impedendo qualunque forma di affidamento diretto).
È noto al riguardo che, all’indomani della sentenza Teckal, sia la Corte di giustizia, sia le Corti nazionali (evidentemente mosse da una sostanziale diffidenza verso l’espansione del modello ‘in house’) si mossero nella direzione dell’irrigidimento dei presupposti e delle condizioni perché si potesse procedere ad affidamenti in regime di delegazione interorganica.
In quest’ottica, la giurisprudenza affermò, fra l’altro, che il requisito del c.d. ‘controllo analogo’ può dirsi sussistente soltanto laddove l’amministrazione conferente detenga di fatto la totalità del capitale dell’Ente conferitario, dal momento che anche partecipazioni anche del tutto minoritarie di capitale sociale nella compagine dell’organismo affidatario potrebbero in qualche misura ‘inquinare’ la purezza del modello in house.
L’approccio in questione è stato tradotto in termini assai chiari dalla Corte di Giustizia con la sentenza Stadt Halle del gennaio 2005[8]. Nell’occasione la Corte affermò che il requisito del controllo analogo può configurarsi solo in caso di partecipazione pubblica totalitaria alla compagine sociale (“la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”)[9].
Il medesimo approccio fu confermato di lì a poco con la successiva sentenza Parking Brixen dell’ottobre 2005 (la quale rappresenta, in qualche misura, l’apice della diffidenza dei Giudici di Lussemburgo nei confronti del modello in house). Nell’occasione i Giudici di Lussemburgo ebbero a precisare che la partecipazione pubblica totalitaria costituisce condizione necessaria ma non sufficiente perché possa affermarsi la sussistenza del requisito del controllo analogo.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pose a propria volta sulla scia di tale orientamento ed affermò (sentenza 3 marzo 2008, n. 1) che “la sussistenza del controllo analogo viene esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione pubblica totalitaria. Infatti, la partecipazione (pure minoritaria) di un’impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi”.
Addirittura, la CGUE e gli stessi Giudici nazionali giunsero ad affermare che la partecipazione pubblica totalitaria costituisse una condizione necessaria ma non ancora sufficiente perché si potesse affermare la legittimità dell’affidamento in house. A tal fine risultava infatti necessario che l’amministrazione conferente disponesse di maggiori strumenti di controllo rispetto a quelli tipicamente previsti dal diritto societario in capo al socio di maggioranza.
Ebbene, il nuovo Codice (articolo 5, comma 1, lett. c) interviene con indubbia forza innovativa sugli esiti del dibattito in questione e afferma che il requisito del controllo analogo è comunque ravvisabile anche nel caso di «forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei Trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
Il successivo comma 2 completa il quadro concettuale di riferimento e stabilisce che «un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (…) qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata».
In tal modo, il Legislatore ha – per così dire – ‘chiuso il cerchio’ di un dibattito piuttosto vivace[10] relativo al se il controllo analogo dovesse essere inteso come controllo di tipo strutturale sulla società in house, ovvero come controllo sull’attività dalla stessa svolta[11] (si tratta di un dibattito invero in larga parte già risolto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale aveva optato sul punto per una soluzione di massimo rigore applicativo, richiedendo – di fatto – la sussistenza di entrambi i requisiti).
L’introduzione di questa nuova tipologia di società in house (che potremmo definire come ‘società blandamente partecipate’) pone all’interprete alcuni interrogativi e induce a domandarsi, in particolare: i) se tali società siano ascrivibili al genus delle società a partecipazione pubblica; ii) quali siano in concreto le corrette modalità perla selezione del socio privato e se sia necessaria a tal fine una procedura ad evidenza pubblica.
Si ritiene qui di anticipare che il Decreto correttivo n. 56 del 2017 ha integrato in parte il testo del comma 1, lett. c), e ha precisato (colmando una lacuna derivante verosimilmente da un mero errore materiale di trasposizione della Direttiva)[12] che nelle ipotesi ivi disciplinate le partecipazioni di capitale privato non possono comunque comportare “controllo o potere di veto”.
La seconda novità di rilievo introdotta dal nuovo Codice sul tema dell’in house providing riguarda il secondo dei ‘requisiti Teckal’ (o requisito dell’attività prevalente).
Come è noto, la sentenza Teckal del 1999 aveva stabilito al riguardo che la legittimità di un affidamento diretto, senza gara, fosse subordinata altresì al fatto che l’organismo controllato esercitasse “la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano”.
È altresì noto che, per molti anni, sia la giurisprudenza della CGUE (es.: sentenza Carbotermo del maggio 2006)[13], sia la giurisprudenza nazionale interpretarono il secondo requisito Teckal in modo estremamente rigoroso, facendo coincidere nei fatti il requisito dell’attività prevalente con il dato della sostanziale esclusività.
Ai limitati fini che qui rilevano si osserva che, in tal modo, la giurisprudenza aveva operato una vera e propria riscrittura delle statuizioni rese nell’ambito del leading case del 1999, sostituendo – e in assenza di effettive ragioni di carattere sistematico – la nozione di prevalenza con quella di esclusività.
Ad ogni modo è importante osservare che il Legislatore del 2016 – anche in questo caso, ponendosi pedissequamente sul solco delle Direttive del 2014 – non solo ha operato una sorta di ‘ritorno alla Teckal’ (restituendo effettività alla nozione di prevalenza), ma per di più ha operato un notevole sforzo di pragmatismo introducendo una soglia numerica di fatturato superata la quale non può più affermarsi che l’attività sia svolta in modo prevalente in favore dell’Ente conferente.
Ed infatti, l’articolo 5, comma 1, lett. b) del nuovo Codice stabilisce che il requisito dell’attività prevalente può dirsi sussistente in capo all’organismo in house, a condizione che “oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi”.
Il successivo comma 7 chiarisce al riguardo che per determinare la percentuale delle attività in questione occorre prendere in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione.
La terza novità recata dal nuovo Codice è rappresentata dall’introduzione del nuovo istituto dell’in house inverso (o in house verticale capovolto)[14].
Si tratta del caso (a ben vedere, inverso e speculare rispetto al modello tipico della delegazione interorganica) in cui l’affidamento diretto:
  • non interviene nella direzione (per così dire: ‘tipica’) che va dal soggetto controllante a quello controllato,
  • bensì nella direzione opposta (che va dal soggetto controllato a quello controllante, attraverso una sorta di affidamento in risalita).
L’istituto in questione (invero, già conosciuto nell’ambito del dibattito pubblicistico nazionale) è ora disciplinato dal comma 3 dell’articolo 5, secondo cui «il presente codice non si applica anche quando una persona giuridica controllata che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante o ad un altro soggetto giuridico controllato dalla stessa amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore, a condizione che nella persona giuridica alla quale viene aggiudicato l’appalto pubblico non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
Ora, se il fenomeno appena descritto viene riguardato attraverso l’angolo visuale del rapporto di sostanziale immedesimazione organica che caratterizza i rapporti fra l’organismo controllante e quello controllato, allora la figura in questione non presenta alcunché di particolarmente innovativo: in entrambi i casi, infatti, l’affidamento diretto si configura come ordinaria vicenda endorganizzativa e il fatto che l’affidamento avvenga – per così dire – ‘in risalita’ non la priva certamente di tale carattere.
Al contrario, la figura in questione rappresenta un’innovazione di sistema particolarmente rilevante laddove si consideri che, nelle ipotesi in esame, è pacificamente carente il requisito del controllo da parte dell’organismo che conferisce l’appalto o la concessione nei confronti dell’organismo cui l’appalto o la concessione medesimi sono conferiti.
La quarta novità di sistema recata dal nuovo Codice in tema di affidamenti in house è rappresentata dal c.d. in house a cascata[15].
Si tratta dell’ipotesi in cui:
  • l’ente o organismo ‘A’ eserciti un controllo analogo sull’organismo ‘B’
  • e l’organismo ‘B’ eserciti a propria volta un controllo analogo sull’organismo ‘C’.
Ebbene, in questi casi il nuovo Codice ammette che si possa procedere all’affidamento diretto dall’organismo ‘A’ all’organismo ‘C’ (anche se, a rigore, fra i due organismi in questione non sussiste alcun rapporto di carattere diretto).
L’istituto è oggi trasfuso all’articolo 5, comma 2, del nuovo Codice, secondo cui il controllo analogo (rilevante ai fini dell’affidamento in house) “può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore”.
Ora, se si riguarda il fenomeno dal punto di vista della linearità del sistema, esso è difficilmente spiegabile, non potendosi affermare – almeno, dal punto di vista formale – che nel caso dinanzi richiamato l’ente/organismo ‘A’ eserciti un effettivo controllo analogo su un organismo con il quale non intrattiene alcuna relazione di carattere diretto.
Al contrario, se si riguarda il fenomeno dal diverso angolo visuale della Realpolitik nell’ambito dei rapporti di controllo infragruppo, è piuttosto evidente che esso corrisponda a un’esigenza di sistema del tutto comprensibile.
La quinta novità di sistema recata dal d.lgs. n. 50 del 2016 è rappresentata dalla disciplina positiva del c.d. ‘in house frazionato’ (o: ‘quasi-in house’, ovvero ‘in house pluripartecipato’ o ‘a controllo analogo congiunto’)[16].
Va qui premesso che nei successivi paragrafi 5 e 6 si esamineranno i principali orientamenti giurisprudenziali formatisi– rispettivamente – sul requisito del controllo analogo e dell’attività prevalente nel caso degli organismi pluripartecipati.
Nel presente paragrafo ci si limiterà invece a una panoramica di carattere generale sul tema.
Ebbene, al di là della complessità terminologica che nel corso del tempo ha accompagnato la descrizione dell’istituto, si tratta in realtà di un fenomeno piuttosto intuitivo e ben noto al dibattito in ambito eurounitario e nazionale.
Ci si riferisce, in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto cui si intende conferire in via diretta un appalto o una concessione risulti controllato (non già da un solo ente/organismo, bensì) da una pluralità di enti i quali sono in grado di esercitare il controllo solo in forma congiunta, risultando – se singolarmente intesi – privi di un siffatto potere.
L’ipotesi in questione risultava a ben vedere già contemplata (almeno in nuce) nell’ambito della sentenza Teckal del 1999, la quale descrisse il c.d. ‘secondo requisito’ richiamando in modo espresso la possibilità che il controllo analogo fosse esercitato da una pluralità di enti collettivamente controllanti l’organismo conferitario (nell’occasione, infatti, la Corte di Lussemburgo descrisse il requisito dell’attività prevalente richiamando l’ipotesi in cui l’organismo della cui natura si discute “realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”).
La giurisprudenza della CGUE degli anni successivi[17] ha ammesso in modo sostanzialmente pacifico la legittimità del modello in esame.
 Ebbene, il nuovo Codice riprende in gran parte i richiamati acquis giurisprudenziali e stabilisce le condizioni sussistendo le quali è possibile operare un affidamento diretto in regime di controllo analogo congiunto.
A tal fine sarà necessario (articolo 5, comma 5):
  • che gli organi decisionali della persona giuridica controllata siano composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti;
  • che tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori siano in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica;
  • che la persona giuridica controllata non persegua interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti.
La disposizione codicistica suscita in particolare due riflessioni.
In primo luogo ci si domanda se la generalizzazione normativa del modello dell’in house frazionato (o pluripartecipato) risponda a una coerente logica di sistema ovvero a – pur comprensibili – esigenze di Realpolitik.
Ad avviso di chi scrive, la risposta è certamente nel secondo dei sensi indicati. E ciò per l’assorbente ragione che, a fronte di una pluralità di amministrazioni partecipanti, nessuna di esse può a buona ragione sostenere di esercitare sull’organismo (pluri)partecipato un effettivo controllo analogo. In questi casi, quindi, l’affidamento diretto sottintende una vera e propria fictio iuris per ciò che riguarda la sussistenza del requisito del controllo analogo.
In secondo luogo ci si domanda se l’affidamento diretto dell’appalto o della concessione nel caso di in house frazionato (o pluripartecipato) sia davvero riconducibile all’ambito di applicazione dell’in house in senso proprio, ovvero al diverso modello delle ‘cooperazioni di tipo verticale’ fra amministrazioni aggiudicatrici.
Ad avviso di chi scrive la risposta corretta è nel secondo dei sensi indicati, anche in considerazione del fatto che:
  • mentre il comma 1 dell’articolo 5 (il quale descrive e disciplina il genuino modello in house) stabilisce che nelle ipotesi in esame ci si colloca del tutto al di fuori dell’ambito di applicazione del Codice (trattandosi di affidamenti che, a ben vedere, non rappresentano né appalti né concessioni);
  • al contrario, i commi 4 e 5 del medesimo articolo conferiscono alle amministrazioni partecipanti una mera facoltà di aggiudicazione diretta, in tal modo confermando che non ci si colloca radicalmente al di fuori dell’ambito disciplinato dal Codice, bensì nel particolare ambito relativo alla cooperazione fra amministrazioni.
 
Occorre a questo punto passare ad esaminare sinteticamente le previsioni che l’articolo 192 del nuovo Codice dedica al ‘Regime speciale degli affidamenti in house’.
L’articolo in questione disciplina innanzitutto (comma 1) l’istituzione presso l’ANAC dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house.
La disposizione (invero, in modo non del tutto perspicuo) stabilisce:
  • per un verso, che l’iscrizione avvenga su domanda dell’amministrazione conferente, dopo che sia stata riscontrata l’esistenza dei presupposti e dei requisiti ‘Teckal’ e
  • per altro verso, che l’amministrazione conferente possa comunque (e per effetto della sola domanda di iscrizione) procedere all’affidamento in regime di delegazione interorganica.
Solo parzialmente innovativa è la previsione di cui all’articolo 192, comma 2, che ripropone un modello (invero, ampiamente invalso nella giurisprudenza UE e nazionale negli ultimi tre lustri circa) in base al quale il ricorso all’in house non rappresenta per l’amministrazione un’opzione – per così dire – ‘libera e incondizionata’, ma costituisce una sorta di opzione residuale, percorribile soltanto a fronte di dimostrate ipotesi di market failure.
Come si avrà modo di approfondire infra (par. 7), la giurisprudenza nazionale ha recentemente dubitato della compatibilità fra gli ostacoli posti dal Legislatore nazionale alla piena attingibilità dell’in house providing e il principio eurounitario della pari dignità di tale modello di affidamento rispetto alle altre forme di affidamento conosciute dall’Ordinamento.
Il quadro disciplinare qui in esame è stato poi completato dall’ANAC attraverso l’emanazione delle Linee Guida n. 7 del 18 aprile 2016 (‘Linee Guida per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’articolo 192, d.lgs. n. 50 del 2016’), in seguito – lievemente – aggiornate alle novità di cui al decreto correttivo con delibera dell’Autorità del 29 settembre 2016.
Il Decreto correttivo (d.lgs. n. 56 del 2016) ha modificato solo in parte l’articolo 192 precisando le modalità con cui l’ANAC acquisisce gli elementi informativi necessari a stabilire in concreto la sussistenza dei requisiti ‘Teckal’ al fine dell’iscrizione nell’Elenco ivi disciplinato.
È stato a tal fine aggiunto un nuovo periodo nell’ambito del comma 1 dell’articolo 192 a tenore del quale «l’Autorità, per la raccolta delle informazioni e la verifica dei predetti requisiti, opera mediante procedure informatiche, anche attraverso il collegamento, sulla base di apposite convenzioni, con i relativi sistemi in uso presso altre Amministrazioni pubbliche ed altri soggetti operanti nel settore dei contratti pubblici».
 
 
 
4. Le differenze tra la nuova disciplina e quella anteriore al 2016.
 
Individuare le differenze disciplinari fra la pregressa disciplina nazionale in tema di in house providing e il nuovo quadro normativo introdotto dal d.lgs. n. 50 del 2016 risulta piuttosto difficoltoso per l’interprete, atteso che sino al 2016 era mancata nell’esperienza giuridica nazionale una disciplina compiuta e organica dell’istituto.
Nel presente paragrafo, quindi, ci si limiterà a dare atto dello stato dell’arte che, sul tema dell’in house providing, si presentava al Legislatore nazionale per effetto delle complesse vicende normative che avevano riguardato questo tormentato istituto.
Al riguardo è qui appena il caso di rammentare (e con gli intuibili vincoli di sintesi propri del presente contributo):
  • che l’articolo 23 bis, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 aveva introdotto una disciplina nel complesso limitativa della possibilità di ricorrere a forme di affidamento in house nel cruciale settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (ad esempio, il ricorso a tale tipologia di affidamenti era possibile solo in caso di conclamate ipotesi di market failure, da confermare attraverso un’analisi di mercato da sottoporre all’esame dell’Autorità Antitrust nazionale);
  • che il quadro normativo così delineato fu cassato all’ordinamento a seguito del referendum abrogativo del giugno del 2011;
  • che, al fine di evitare il sostanziale vuoto normativo in tal modo determinatosi, il Governo al tempo in carica introdusse con decretazione d’urgenza una disciplina-tampone il cui contenuto sostanziale era tuttavia pressoché per intero riproduttivo dei medesimi vincoli e limiti già contenuti nell’abrogato articolo 23-bis (ci si riferisce all’articolo 4, d.l. 13 agosto 2011, n 138);
  • che la Corte costituzionale, nel luglio del 2012[18] dichiarò costituzionalmente illegittima anche la richiamata disciplina-tampone in quanto sostanzialmente riproduttiva del medesimo impianto normativo sostanziale che, appena due mesi prima, il corpo elettorale aveva inteso espungere dall’ordinamento;
  • che il nuovo Governo medio tempore insediatosi ritenne necessario evitare anche in questo caso il vuoto disciplinare determinato dal nuovo intervento della Consulta.
Fu così introdotta nell’ambito del c.d.Decreto crescita’ (d.l. 18 ottobre 2012, n. 179) una disposizione – articolo 34 – il cui effetto fu quello di riconoscere piena cittadinanza nell’ordinamento interno a tutte le tipologie di affidamento conosciute nell’esperienza eurounitaria a condizione che ricorressero “i requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta”.
In definitiva, alla vigilia dell’approvazione della legge delega n. 11 del 2016 (e del nuovo ‘Codice’) erano stati rimossi dall’ordinamento nazionale tutti i vincoli e le limitazioni alla piena espansione degli affidamenti in house, che risultavano, quindi, generalmente ammessi alla sola condizione che risultassero conformi all’acquis normativo e giurisprudenziale UE.
Era in tal modo accaduto che l’intento di limitare e di iper-regolamentare il fenomeno avesse prodotto nell’ordinamento interno un effetto paradossale: quello per cui il fenomeno oggetto di disciplina (l’affidamento diretto in house) non solo non era stato espunto, ma risultava altresì incondizionatamente utilizzabile e, per di più, privo di una specifica disciplina.
Urgeva, quindi, l’adozione di nuove misure idonee a recare in questo cruciale settore dell’ordinamento adeguati livelli di certezza giuridica che il nuovo ‘Codice’ ha tentato (e in parte è riuscito) ad assicurare.
 
 
 
5. Il requisito del controllo analogo
 
Ai sensi dell’articolo 12 della ‘Direttiva appalti’, n. 2014/24/UE (ripreso in parte qua dall’articolo 5 del ‘Codice’), il requisito del controllo analogo è configurabile quando l’amministrazione aggiudicatrice controllante eserciti «un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata».
Secondo la giurisprudenza comunitaria, il controllo c.d. analogo dovrebbe essere “effettivo, strutturale e funzionale”  (in tal senso CGUE, sent. 8 maggio 2014 in causa C-5/13).
La giurisprudenza della Corte di Lussemburgo ha altresì chiarito che, al fine di configurare il requisito in parola, è necessario che il controllo risulti talmente penetrante da risultare incompatibile con “ampi poteri di gestione esercitabili in maniera autonoma” dall’organo amministrativo  (in tal senso la richiamata sentenza 13 ottobre 2005 in causa C-458/03, Parking Brixen).
La sentenza in questione ha addirittura escluso la configurabilità di una relazione in house laddove lo statuto dell’organismo della cui natura di discute riconosca agli amministratori (secondo l’id quod plerumque accidit) la “facoltà di adottare tutti gli atti ritenuti necessari per il conseguimento dell’oggetto sociale”.
A conclusioni del tutto simili è giunta la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui, ai fini dell’in house, sia necessario, da un lato, che il consiglio di amministrazione della società non abbia “rilevanti poteri gestionali” e, dall’altro, che l’ente pubblico controllante sia in grado di esercitare “poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale” (sul punto – ex multis -: Cons Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1)[19].
Dal canto suo la Corte costituzionale ha precisato che, al fine di configurare un rapporto in house, non è necessario “che siano annullati tutti i poteri gestionali dell’affidatario in house [tuttavia,] la ‘possibilità di influenza determinante’ è incompatibile con il rispetto dell’autonomia gestionale, senza distinguere — in coerenza con la giurisprudenza comunitaria — tra decisioni importanti e ordinaria amministrazione” (in tal senso: Corte cost., sent. 28 marzo 2013, n. 50)[20].  
La giurisprudenza della Corte dei conti[21] ha chiarito a propria volta che il controllo (cd. analogo) esercitato dall’ente controllante deve avere carattere “strutturale”, ovvero, riguardare gli aspetti relativi alla direzione strategica e gestionale della società e non semplicemente quelli concernenti la nomina degli organi societari ed il possesso della totalità del capitale azionario (di conseguenza, il controllo del consiglio comunale sull’organismo partecipato si esprimerà in termini di preventiva definizione degli obiettivi gestionali, di organizzazione di un idoneo sistema informativo relativo alla situazione contabile, gestionale ed organizzativa delle partecipate, ai contratti di servizio, alla qualità dei servizi erogati ed al rispetto delle norme di legge sui vincoli di finanza pubblica, ecc.)[22].
 
 
 
6. Il controllo analogo in caso di in house pluripartecipato
 
Come si è detto in precedenza, la possibilità di configurare forme di in house pluripartecipato non è stata enucleata per la prima volta con il ‘pacchetto UE 2014’ ma risale alla stessa sentenza Teckal del 1999. Ed infatti, con la sentenza del novembre 1999 la CGUE ammise la legittimità dell’affidamento diretto “nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano” (enfasi aggiunta).
E’ evidente quindi che, quando la giurisprudenza degli anni successivi (a partire dalla sentenza Carbotermo del 2006) riprese la nozione di in house pluripartecipato, in realtà non introdusse nulla di particolarmente innovativo rispetto a quanto già stabilito dalla sentenza ‘Teckal’.
Tanto premesso dal punto di vista generale, si ritiene qui di svolgere alcune considerazioni sul fenomeno dell’in house pluripartecipato e sulle sue declinazioni giurisprudenziali.
Va in primo luogo osservato che, nel caso degli organismi in house  ‘pluripartecipati’, il requisito del controllo analogo si fonda su una vera e propria fictio iuris (quella secondo cui il singolo ente, pur detenendo una quota – in ipotesi – minima di capitale sociale viene considerato come organismo controllante in senso proprio).
Si tratta di un approccio a ben vedere di carattere controintuitivo e comunque profondamente dissimile da quello che caratterizza l’ordinaria dinamica societaria, nel cui ambito la polverizzazione delle partecipazioni non consente solitamente di individuare posizioni di controllo. Nell’ambito di tale ordinaria dinamica, se è necessario unire più partecipazioni singole per giungere a una posizione dominante o di controllo, nessuno dei soci in questione potrà a buon diritto vantare uti singulus un siffatto controllo.
Vero è che il Legislatore del 2016 (evidentemente conscio di tale possibile antinomia) ha tentato (con l’articolo 5, comma 5 del nuovo ‘Codice’) di individuare i presupposti del controllo analogo congiunto (si tratta delle ipotesi in cui le diverse amm.ni «sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative [della] persona giuridica»).
E’ altresì vero, però, che la richiamata formula legislativa non risolve la questione di come sia possibile coniugare il dato del controllo con quello del frazionamento del capitale.
Quanto appena osservato dimostra l’oggettiva difficoltà di coniugare il requisito del controllo analogo con la figura degli organismi pluripartecipati.
Va inoltre osservato che, a ben vedere, l’affidamento diretto in favore di un organismo pluripartecipato non rappresenta neppure una forma di affidamento in house ma rappresenta, piuttosto, una forma di cooperazione di tipo verticale fra amministrazioni.
E tale notazione viene confermata dallo stesso D.lgs. 50 del 2016 il quale distingue fra:
  • (da un lato) le ipotesi di in house in senso proprio (le quali «non rientra(no) nell’ambito di applicazione del presente codice») / e
  • (dall’altro) le ipotesi di organismi pluripartecipati (o a controllo analogo congiunto) le quali rientrano bensì nell’ambito di applicazione del ‘codice’  ma per le quali è possibile comunque un affidamento in via diretta. E la difficoltà di coniugare in modo certo la figura della pluripartecipazione con il modello in house discende proprio dalla difficoltà di individuare, in tali ipotesi, il requisito del controllo analogo.
 
Ebbene, dopo aver svolto alcune considerazioni di carattere generale sulla figura del controllo analogo negli organismi pluripartecipati, è ora possibile soffermarsi sui principali orientamenti che, sul tema, sono stati enucleati dalla giurisprudenza.
In particolare, il Consiglio di Stato ha avuto ben presente nella sua più recente evoluzione la difficoltà di coniugare il frazionamento degli assetti proprietari con la sussistenza di una posizione di controllo in capo a ciascuno degli Enti conferenti.
La giurisprudenza amministrativa di appello ha fornito nel corso del tempo risposte differenziate sul tema.
In base a un primo filone giurisprudenziale la sussistenza del controllo analogo nel caso degli organismi pluripartecipati deve essere vagliata non in relazione alla posizione del singolo ente, bensì in modo ‘globale e sintetico’ (i.e.: in relazione all’influenza determinante collettivamente esercitata).
In base a tale ottica “il controllo deve intendersi assicurato anche se svolto non individualmente ma congiuntamente dagli enti associati, deliberando anche a maggioranza ma a condizione che sia effettivo; dovendo tale requisito essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente” (in tal senso: Cons. Stato, V, sent. 182 del 2018).
L’approccio in questione è stato di recente ripreso e ribadito dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato
 
 
Consiglio di Stato, V
Sent. 30 aprile 2018, n. 2599
Il requisito del controllo analogo congiunto in caso di società in house partecipata da una pluralità di Enti locali è sussistente qualora, anche in relazione alle amministrazioni pubbliche che detengono partecipazioni di minoranza possa ritenersi che: a) gli organi decisionali dell’organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare tutti i soci pubblici partecipanti; b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell’organismo controllato, secondo le regole generali elaborate con riguardo all’in house providing tradizionale sin dalla sentenza della Corte di Giustizia Teckal (8 novembre 1999, C-107/98); c) l’organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipanti.
 
 
In definitiva, l’orientamento appena richiamato modula e declina in qualche misura il consolidato orientamento secondo cui il controllo analogo, per essere riconosciuto tale deve presentare i caratteri di incisività, effettività e concretezza.
In base a un opposto filone (che potremmo definire dell’“approccio atomistico”) l’effettività e la concretezza del controllo analogo congiunto dovrebbero essere verificate in relazione alla posizione del singolo ente e l’effettività di tale potere potrebbe essere affermata soltanto laddove il singolo ente detenga poteri condizionanti le scelte strategiche e gli obiettivi significativi della società.
A tal fine occorrerebbe ravvisare in capo al singolo ente conferente poteri di condizionamento e di controllo “superiori per intensità rispetto a quelli normalmente previsti dal diritto societario”.
Tale possibilità dovrebbe essere ammessa anche attraverso il ricorso a strumenti quali i patti parasociali, i comitati ad hoc e il riconoscimento di specifici poteri di veto.
 
 
Cons. Stato, III, 27 aprile 2015, n. 2154[23]
 
“(…) i requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale perché possa farsi luogo ad affidamento in house sono: – la totale partecipazione pubblica (con divieto di cedibilità a privati); – l’esclusività (destinazione prevalente dell’attività a favore dell’ente affidante); il controllo analogo (esercizio di influenza decisiva sugli indirizzi strategici e sulle decisioni significative del soggetto affidatario, tale da escludere la sostanziale terzietà dell’affidatario rispetto al soggetto affidante).
A proposito nell’in house pluripartecipato, le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) gli organi decisionali dell’organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipanti;
b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell’organismo controllato;
c) l’organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipanti.
Principi, questi, oggi codificati all’art. 12 della direttiva appalti 2014/24/UE che, sebbene non sia stata ancora recepita (essendo ancora in corso il termine relativo per l’incombente), appare di carattere sufficientemente dettagliato tale da presentare pochi dubbi per la sua concreta attuazione ( cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 30/01/2015, n. 298).
(…) – La ricorrente in primo grado aveva evidenziato la mancanza in capo all’ente pubblico proprietario di speciali poteri di ingerenza e di condizionamento delle funzioni del c.d.a., superiori per intensità a quelli normalmente previsti dal diritto societario.
Per contro, gli ampi e illimitati poteri gestionali del c.d.a., estesi all’amministrazione ordinaria e straordinaria, non risulterebbero né limitati nella loro portata oggettiva, né soggetti al vaglio preventivo degli enti affidanti.
Con riferimento alla posizione del singolo socio (e in particolare dell’ASO AL, socio di minoranza), rilevava la mancanza di alcun potere di nomina di propri rappresentanti nel c.d.a. e, più in generale, l’assenza di alcun potere di influenza effettiva sull’operato della società, essendo le decisioni rimesse all’assemblea dei soci, che opera a maggioranza assoluta e con la partecipazione di tanti soci che rappresentino oltre la metà del capitale sociale; l’inconsistenza dei poteri di segnalazione e di veto, in quanto non assistiti da efficacia vincolante, essendo l’ultima parola sul punto rimessa alle decisioni finali dell’assemblea dei soci, nell’ambito della quale il peso specifico dell’amministrazione intimata è irrilevante, disponendo questa di una quota pari al 2,5% (percento) del capitale sociale, a fronte del 60%(percento) del capitale detenuto dalle sole aziende AO di Cuneo e ASL n. 1 di Cuneo.
La sentenza appellata ha affermato, in linea di principio, che è necessario, invece, secondo la giurisprudenza comunitaria, nel caso di pluripartecipazione, che il singolo socio possa vantare una posizione più che simbolica, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di partecipazione alla gestione dell’organismo del quale è parte; sicché, una presenza puramente formale nella compagine partecipata o in un organo comune incaricato della direzione della stessa, non risulterebbe sufficiente.
Ha, dunque, ricordato che “la prassi conosce svariati meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione della società; ora sulla partecipazione mediata agli organi direttivi attraverso la nomina da parte dell’assemblea di consiglieri riservati ai soci di minoranza. Valida alternativa è offerta dagli strumenti di carattere parasociale, che operano attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell’attività”.
Infine, il controllo deve essere esercitato non solo in forma propulsiva ma anche attraverso l’esercizio – in chiave preventiva – di poteri inibitori.
 
 
La sentenza in questione ha chiarito che “laddove non esiste un legame interno [particolarmente intenso] tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’entità affidataria non ricorre il motivo che giustifica il riconoscimento dell’eccezione per quanto concerne gli affidamenti in house”.
Un terzo filone giurisprudenziale ha infine tentato di individuare una sorta di ‘via mediana’ fra i primi due e ha ritenuto che, al fine di individuare il requisito del ‘controllo analogo’ negli organismi pluripartecipati:
  • non sia necessario che il singolo ente eserciti un’influenza determinante su tutte le scelte dell’organismo in house
  • ma è sufficiente che eserciti un’influenza notevole sulle scelte che ineriscono il frammento di gestione relativo al proprio territorio.
 
Nel corso del 2019 il Consiglio di Stato ha affrontato una questione relativa ai rapporti fra (da un lato) i presupposti e le condizioni del controllo analogo congiunto nel diritto UE (dall’altro) il requisito della ‘stretta necessarietà che condiziona l’acquisto di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche (in tal modo impedendo, di fatto, l’acquisto di partecipazioni di mero conferimento o dal contenuto meramente finanziario).
La questione si era posta in relazione all’assetto di una società la quale, pure essendo interamente partecipata da amministrazioni pubbliche, aveva nella propria compagine
  • una prima tipologia di soci (c.d. ‘soci affidanti’) i quali esercitavano il controllo analogo sulla società e potevano conseguentemente operare affidamenti diretti in suo favore e
  • una seconda tipologia di soci (i c.d. ‘soci non affidanti’) i quali non esercitavano invece un tale controllo analogo e non potevano quindi operare affidamenti diretti in favore dell’organismo partecipato. I ‘soci non affidanti’ si configuravano dunque come soci di mero conferimento di capitale e la loro presenza si poneva a di fuori dello schema tipico degli affidamenti in house.
Ebbene, con l’ordinanza 7 gennaio 2019, n. 138 la quinta Sezione del Consiglio di Stato ha distinto gli effetti del richiamato assetto in base al diritto eurounitario e in base al diritto interno.
Per quanto riguarda il diritto UE, il Consiglio di Stato ha reputato compatibile lo schema dinanzi descritto sulla base di un argomento a fortiori. Ed infatti, se il diritto dell’UE (e, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE) ammette che l’in house a controllo analogo congiunto sia possibile anche quando il capitale dell’organismo sia aperto alla partecipazione di capitali privati (purché non comporti loro controllo o potere di veto), a maggior ragione non emergono ragioni per escludere che l’in house a controllo analogo congiunto possa sussistere anche nel caso di partecipazione di capitale di amministrazioni pubbliche (purché – scil. – tali amministrazioni non esercitino controllo o poteri di veto e non effettuino affidamenti diretti).
Quindi, il particolarissimo assetto proprietario della società dinanzi descritta (la quale si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche – quelle ‘affidanti’ – e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche – quelle ‘non affidanti’ -) non sembra porsi in contrasto con il diritto comunitario.
Il Consiglio di Stato ha invece osservato che lo schema in parola sembri sollevare seri dubbi di contrasto con le previsioni del diritto interno (e, in particolare, con il T.U. sulle società partecipate n. 175 del 2016), di cui occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto dell’UE.
In particolare, l’articolo 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate stabilisce che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
La disposizione appare in linea con il recente orientamento di politica legislativa nazionale inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di capitali.
Ci si domanda, quindi, se il canone legale nazionale della ‘stretta necessarietà’ consenta a un organismo pubblico di acquistare partecipazioni di minoranza in una società pluripartecipata laddove tale acquisizione non consenta nell’immediato un affidamento diretto in favore di tale società (configurandosi allo stato come mero conferimento finanziario), ma permetta solo in una fase successiva di acquisire anche il controllo analogo congiunto, in tal modo legittimando un affidamento diretto in favore dell’organismo pluriparecipato.
Il Consiglio di Stato osserva che tale possibilità appaia esclusa dal diritto nazionale in quanto
–        se (per un verso) la gestione dei servizi di igiene urbana rientra di certo fra le finalità istituzionali degli enti locali ‘non affidanti’
–        per altro verso, la semplice possibilità che l’acquisto del controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” – evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura – che appare imposto dal richiamato articolo 4, comma 1.
Ma se il diritto nazionale osta a tale forma di acquisto di partecipazioni societarie da parte degli enti pubblici (e quindi limita in parte qua il ricorso a un modello di partecipazione ammesso dal diritto UE), ci si domanda se tale limite risulti compatibile con il diritto eurounitario.
In definitiva, occorre interrogarsi circa la compatibilità fra
–        il diritto dell’UE (in particolare, fra l’articolo 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e
–        il diritto interno (in particolare, l’articolo 4, comma 1, cit., interpretato nel senso dinanzi descritto) che sembra non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato.
La questione interpretativa viene dunque rimessa alla Corte di giustizia ai sensi dell’articolo 267 del TFUE.
 
 
Cons. Stato, V, ord. 7 gennaio 2019, n. 138
 
 Deve essere posto alla Corte di giustizia il seguente quesito interpretativo: “se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate – decreto legislativo n. 175 del 2016 -) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato”.
 
 
 
 
7. Il requisito dell’attività prevalente nelle società pluripartecipate.
 
Nel corso del 2016 la Corte di giustizia ha reso un importante chiarimento in relazione al requisito dell’attività prevalente nelle ipotesi di ‘in house pluripartecipato’[24].
Si trattava nell’occasione di stabilire se potesse dirsi sussistente il c.d. ‘secondo requisito Teckal’ nel caso di una società la quale fosse, sì, interamente partecipata da Enti pubblici, ma che rivolgesse una parte importate della propria attività (circa la metà) anche in favore di Enti non soci.
La vicenda presentava un carattere di particolarità poiché, nel caso esaminato dalla Corte (sulla base di un’ordinanza di rimessione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato)[25], la società conferitaria non poteva esimersi da prestare la propria attività in favore anche di Enti non soci, essendovi obbligata sulla base di un provvedimento regionale per essa vincolante.
Ebbene, con la sentenza 8 dicembre 2016 in causa C-553/15 (Undis Servizi) la Corte ha risolto la questione secondo un approccio di grande rigore applicativo e ha stabilito
–       che, in base alla giurisprudenza della medesima Corte, qualsiasi attività dell’ente affidatario che sia rivolta a persone diverse da quelle che lo controllano (i.e.: a persone che non hanno alcuna relazione di controllo con tale ente), va considerata come svolta in favore di terzi, non rilevando il fatto che tale attività sia in ipotesi svolta in favore di soggetti pubblici (punto 34 della motivazione);
–       che non può giungersi a conclusioni diverse (in relazione alla controversa sussistenza del c.d. ‘secondo requisito Teckal’) in considerazione del fatto che l’attività svolta dalla società in esame in favore di enti terzi sia imposta da un’amministrazione pubblica (la Regione Abruzzo), anch’essa non socia della stessa. La Corte ha osservato al riguardo che “in assenza di un qualsiasi controllo da parte di tale amministrazione pubblica, l’attività che quest’ultima impone alla [società partecipata] deve essere considerata come un’attività svolta in favore di terzi” (ivi, punto 37).
 
 
Corte di giustizia dell’Unione europea,
sentenza 8 dicembre 2016 in causa C-553/15 (Undis Servizi)
 
“Nell’ambito dell’applicazione della giurisprudenza della Corte in materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici detti ‘in house’, al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per l’amministrazione aggiudicatrice, segnatamente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che lo controllino, non si deve ricomprendere in tale attività quella imposta a detto ente da un’amministrazione pubblica, non sua socia, a favore di enti territoriali a loro volta non soci di detto ente e che non esercitino su di esso alcun controllo. Tale ultima attività deve essere considerata come un’attività svolta a favore di terzi.
2)      Al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che esercitino su di esso, congiuntamente, un controllo analogo a quello esercitato sui loro stessi servizi, occorre tener conto di tutte le circostanze del caso di specie, tra le quali, all’occorrenza, l’attività che il medesimo ente affidatario abbia svolto per detti enti territoriali prima che divenisse effettivo tale controllo congiunto”.
 
 
E’ qui solo in caso di osservare che lo stesso Consiglio di Stato, nel definire il giudizio di rinvio a seguito dei chiarimenti resi dalla CGUE con la sentenza dell’8 dicembre 2016, si è conformato ai princìpi di diritto espressi dalla Corte, ha riformato la sentenza di primo grado e ha annullato l’affidamento diretto disposto dal Comune di Sulmona (Cons. Stato, V, 28 agosto 2017, n. 4078).
 
 
 
8. L’in house è una modalità di affidamento ordinaria ovvero speciale ed eccezionale?
 
Come si è già osservato, l’intera evoluzione del modello in house si muove da sempre sul sottile crinale del rapporto fra la regola e l’eccezione.
Sin dall’originaria enucleazione della figura (con la sentenza Teckal del 1999) l’intera evoluzione della figura si è mossa
  • per un verso nella direzione del riconoscimento del suo carattere di ordinaria modalità di aggiudicazione (del resto, la stessa nozione di delegazione interorganica evoca un ordinario fenomeno endorganizzativo) e
  • per altro verso nel riconoscimento alla figura in esame di un carattere derogatorio rispetto all’affidamento con gara (rispetto al quale l’housing rappresenterebbe una delle eccezioni più vistose e rilevanti – e quindi, mal tollerate -).
Questa alternanza di punti di vista (fra loro radicalmente alternativi) si è riverberata anche sugli orientamenti giurisprudenziali.
In alcuni casi, infatti, la stessa giurisprudenza costituzionale ha sottolineato il carattere – per così dire – ‘ordinario’ degli affidamenti in house, sino a dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni di legge che configuravano tale fenomeno come eccezionale e residuale (in tal senso la sentenza n. 199 del 2012, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge n. 138 del 2011)[26].
Del resto, la stessa giurisprudenza amministrativa ha in numerose ipotesi affermato che l’affidamento in house, se – e in quanto – conforme ai principi eurounitari, deve essere inteso come una normale modalità di gestione dei servizi pubblici locali (alternativo rispetto al ricorso al mercato o alla società cd. mista, ma non subvalente rispetto a tali modelli)[27]. 
Nel corso del 2017, in particolare, il Consiglio di Stato ha affermato con ampiezza di riferimenti sistematici e normativi il carattere del tutto ordinario degli affidamenti in house (i quali non possono quindi essere considerati a stretto rigore come un’eccezione ai princìpi liberoconcorrenziali).
In particolare, con la sentenza Cons. di Stato, III, 24 ottobre 2017, n. 4902[28] è stato chiarito che, all’indomani dell’abrogazione referendaria dell’articolo 23-bis del D.L. 112 del 2008 (e all’indomani della declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 4 del D.L. n. 138 del 2011, che ne aveva in larga parte ripreso gli assunti di fondo), è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (in termini del tutto analoghi: Cons. Stato, V, 18 luglio 2017, n. 3554).
Al contrario, con l’articolo 34 del D.L. 197 del 2012 sono venute meno le ulteriori limitazioni agli affidamenti in house contenute nell’articolo 4, comma 8 del predetto D.L. n. 138 del 2011 (in tal senso: Cons. Stato, VI, sent. 762 del 2013).
Dal canto suo (ha precisato la sentenza in esame), la giurisprudenza amministrativa non solo ha ribadito la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house (al ricorrere dei relativi presupposti), ma ha altresì rilevato come la relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta (in tal senso: Cons. Stato, V, 257 del 2015).
Del resto, il quinto “considerando” della direttiva 2014/24/UE (c.d. ‘Direttiva appalti’) stabilisce in modo netto che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva».
In altri casi – invero assai più numerosi – la giurisprudenza ha riguardato l’istituto in questione come una modalità eccezionale di affidamento costituente un’eccezione ai princìpi liberoconcorrenziali[29].
Per quanto riguarda l’orientamento giurisprudenziale da ultimo menzionato si ritiene qui di richiamare Cons. Stato, III, 7 maggio 2015, n. 2291[30] che ha affrontato la questione se contrasti con il diritto UE una disposizione (quale l’articolo 4, comma 7 del D.L. 95 del 2012) la quale limita in modo pressoché assoluto il ricorso al modello in house per quanto riguarda l’acquisizione da parte delle PP.AA. dei beni e servizi strumentali all’espletamento delle proprie attività d’istituto.
Nell’occasione i Giudici di Palazzo Spada hanno osservato che, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4, comma 8 del medesimo decreto-legge (il quale contemplava in modo espresso l’affidamento in house) per violazione delle prerogative regionali (Corte cost., sent. 229/2013), l’eccezione rappresentata dall’affidamento diretto in regìme di delegazione interorganica non risulta più percorribile dalle PP.AA. ed opera unicamente il principio dell’affidamento con gara di cui al co. 7 (il quale non risulta invece inciso dalla sentenza della Consulta del 2013).
Al riguardo il Collegio non condivide l’opinione dei Giudici di primo grado, secondo i quali l’art. 4, co. 8 (dichiarato incostituzionale) era da considerarsi disposizione ‘pleonastica’ in quanto si limitava a recepire la giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di generale operatività dell’in house providing
Secondo i Giudici di Palazzo Spada al contrario, l’art. 4, comma 7 (che è sopravvissuto all’intervento della Consulta) è chiaramente volto ad estendere in massimo grado gli affidamenti con gara e a limitare quelli in via diretta (i quali, oltretutto, sono idonei a sottrarre al libero mercato importanti quote di affidamenti – Cons. Stato, Ad. Plen. 1/08 -).
Se dunque – osserva il Collegio – l’affidamento diretto ha carattere spiccatamente derogatorio, l’esistenza di una sua disciplina normativa a livello comunitario (…) consente tale forma di affidamento, ma non obbliga i Legislatori nazionali a disciplinarla, né impedisce loro di limitarla o escluderla in determinati ambiti”.
La circostanza che un affidamento in house non contrasti con le direttive comunitarie non vuol dire che sia contraria all’ordinamento UE una norma nazionale che limiti ulteriormente il ricorso all’affidamento diretto”.
La sentenza in questione (che si pone sul solco di un orientamento piuttosto consolidato sfavorevole all’espansione del modello in house) suscita alcune riflessioni in ordine all’effettiva compatibilità delle sue statuizioni con l’attuale evoluzione dell’ordinamento nazionale ed eurounitario (con particolare riguardo al principio UE della ‘libera organizzazione’ delle amministrazioni pubbliche).
Al livello eurounitario il principio della piena apertura concorrenziale dei mercati degli appalti e delle concessioni convive infatti con il principio della piena e incoercibile libertà per i soggetti pubblici di organizzare come meglio ritengono le prestazioni dei servizi di rispettivo interesse (si tratta del c.d. principio di libera organizzazione), senza che l’ordinamento UE possa imporre l’adozione di una particolare modalità gestionale (ad es. il regime di affidamento con gara) rispetto a un altro (ad es. il regime dell’internalizzazione e dell’autoproduzione).
Addirittura, nel sistema normativo UE è il modello dell’apertura libero-concorrenziale a presentare una valenza – per così dire – sussidiaria rispetto a quello dell’autoproduzione, nel senso che la scelta prima e fondante che si pone all’amministrazione la quale intenda acquisire un’opera o un servizio è quella fra l’internalizzazione/autoproduzione e l’esternalizzazione. Solo laddove essa opti per il secondo di tali modelli (il che rappresenta una scelta libera e incoercibile per l’amministrazione) occorrerà applicare in modo coerente i principi libero-concorrenziali.
Restando ancora sull’orientamento giurisprudenziale che riguarda l’in house come una forma di affidamento del tutto eccezionale, va qui richiamata la posizione espressa da Cons. Stato, V, 22 novembre 2017, n. 5437, secondo cui è consentito alle PP.AA. l’affidamento in house di un servizio in precedenza svolto da altro operatore selezionato con gara solo laddove si offra una puntuale motivazione in ordine alla maggiore convenienza della prima modalità di affidamento rispetto alla seconda.
 
Come si è altrove avuto modo di osservare[31], è in effetti la scelta nel senso dell’autoproduzione (anche attraverso il modello dell’in house providing) che, laddove legittimamente esercitata, impedisce sul piano sistematico ed operativo di invocare il ricorso al modello di apertura alla concorrenza al mercato.
La stessa Corte di giustizia ha a più riprese stabilito che l’Ordinamento comunitario non pone alcun limite alla libertà per le amministrazioni di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che su un modello di esternalizzazione.
In particolare, con la sentenza ANAV del 2006[32] la Corte di Lussemburgo aveva già chiarito che l’Ordinamento UE non osta a una normativa nazionale (quale quella italiana al tempo vigente) la quale ponga i due richiamati modelli su un piano di sostanziale parità, demandando poi alla singola amministrazione l’opzione per l’uno o l’altro di essi.
Con la successiva sentenza del giugno del 2009 (sul caso Commissione europea c/ RFT) la Grande Sezione della Corte ha poi ribadito il principio in questione in termini ancora più chiari, affermando che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche[33].
In termini del tutto analoghi depone il considerando 5 della Direttiva 2014/24/UE, secondo cui “è opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva[34].
Ed ancora, depone nel medesimo senso l’articolo 2 della Direttiva concessioni 2014/23/UE (significativamente rubricato Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche), il quale riconosce expressis verbis la possibilità per le amministrazioni di espletare i compiti di rispettivo interesse pubblico: i) avvalendosi delle proprie risorse, ovvero ii) in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici, ovvero – ancora iii) mediante conferimento ad operatori economici esterni.
È fondamentale osservare al riguardo che la direttiva in parola pone le tre modalità in questione su un piano di integrale equiordinazione, senza riconoscere alla modalità sub iii) valenza – per così dire – paradigmatica e, correlativamente, senza riconoscere alle modalità sub i) e ii) valenza eccettuale o sussidiaria[35].
Tanto premesso dal punto di vista dell’ordinamento UE, non si può non osservare che il comma 2 dell’articolo 192 del nuovo Codice ribadisce, invece, un orientamento fortemente critico rispetto al ricorso al modello dell’affidamento in house. La disposizione in questione stabilisce infatti che, laddove l’amministrazione intenda procedere all’affidamento in house di un servizio disponibile sul mercato, essa debba fornire una sorta di motivazione aggravata la quale dia conto: i) delle ragioni del mancato ricorso al mercato; ii) dei benefici per la collettività connessi all’opzione per la forma di gestione prescelta, “anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
In tal modo il Legislatore delegato del 2016 ripropone un modello per molti versi simile a quello che era stato proprio dell’articolo 23 bis, d.l. n. 112 del 2008 (il quale – prima di cadere sotto la scure del referendum abrogativo del giugno 2011 – aveva a sua volta subordinato la possibilità di fare legittimamente ricorso a questa tipologia di affidamenti alla previa acquisizione di un’analisi di mercato da parte dell’amministrazione conferente, da sottoporre alla previa approvazione da parte dell’Autorità Antitrust).
È bene osservare che la limitazione introdotta dal Legislatore delegato del 2016, pur ponendosi sul solco dei richiamati precedenti normativi, non rinviene invece un puntuale addentellato nell’ambito della legge di delega n. 11 del 2016 (la quale, al contrario, si limita a sottolineare che la disciplina in tema di affidamenti in house miri a garantire in massimo grado il perseguimento degli obiettivi di pubblicità e trasparenza, senza tuttavia operare una sorta di graduazione – per così dire – ‘valoriale’ fra gli affidamenti in questione e l’apertura al mercato)[36].
Giova anche sottolineare che l’approccio in questione risulta da ultimo sostanzialmente confermato (sia pure con accenti parzialmente diversi) nell’ambito del (mai adottato) schema di decreto legislativo attuativo della c.d. ‘delega Madia’ in tema di servizi pubblici locali di interesse economico generale. Il comma 4 dell’articolo 8 dello schema di decreto stabili(va) infatti che «nel caso di affidamento in house o di gestione mediante azienda speciale, il provvedimento [dà] specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato e, in particolare, del fatto che tale scelta non sia comparativamente più svantaggiosa per i cittadini (…), nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche. Laddove non sussistano i presupposti della concorrenza nel mercato, il provvedimento è motivato anche in ordine all’eventuale impossibilità di procedere mediante suddivisione in lotti nel rispetto della disciplina dell’Unione europea, al fine di consentire l’attività di più imprese nella prestazione del servizio e favorire forme di concorrenza comparativa».
Si osserva in conclusione che i vincoli e le limitazioni posti dal Legislatore del 2016 alla piena espansione del modello in house, se – per un verso – si pongono sul solco di un ormai consolidato orientamento interno che guarda con malcelata diffidenza alla figura in esame, per altro verso pongono rilevanti problemi di compatibilità sia con i limiti della delega legislativa (che sul punto serbava un eloquente silenzio), sia con l’evoluzione dell’ordinamento giuridico UE, che ha conosciuto negli anni più recenti una vera e propria inversione di rotta nel senso di una sempre maggiore apertura al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche e, in via mediata, alle forme di affidamento in regime di delegazione interorganica.
Per le ragioni appena evidenziate il Consiglio di Stato, con ordinanza 7 gennaio 2019, n. 138, ha rimesso alla Corte di giustizia dell’UE una questione interpretativa ai sensi dell’articolo 267 del Trattato di Roma circa la compatibilità fra le disposizioni nazionali limitative del ricorso all’in house providing e il pertinente quadro eurounitario il quale – al contrario- sembra riconoscere a tale tipologia di affidamenti una valenza del tutto equiordinata rispetto alle altre forme conosciute dall’Ordinamento (e, in primis, rispetto all’affidamento con gara).
 
Consiglio di Stato, ordinanza 7 gennaio 2019, n. 138
 
L’ordinanza in questione rimette alla Corte di Lussemburgo il seguente quesito pregiudiziale: “se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e il principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento
 
E’ qui appena il caso di sottolineare che di recente anche il T.A.R. della Liguria ha posto un’importante questione interpretativa circa la legittimità del comma 2 dell’articolo 192, D.lgs. 50 del 2016.
In particolare, il Tribunale amministrativo regionale ligure con ordinanza 15 novembre 2018, n. 886 ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la q.l.c. dell’articolo 192, cit. nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, «delle ragioni del mancato ricorso al mercato».
Il Giudice remittente ha ipotizzato che la disposizione in parola si ponga in contrasto con l’articolo 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1, lettere a) ed eee) della legge di delega n. 11 del 2016 (la quale non autorizzava il Governo ad introdurre una siffatta limitazione nel ricorso all’in house – limitazione che, peraltro, risulta sconosciuta al diritto dell’UE -).
 
 
 
9. La questione della fallibilità delle società in house.
 
Già da alcuni anni si è posta in giurisprudenza la questione relativa all’assoggettabilità degli organismi in house in forma societaria alla disciplina della crisi di impresa e delle procedure concorsuali[37]. La questione si è interrelata con la più ampia tematica dell’assoggettabilità alle procedure concorsuali delle società a partecipazione pubblica di cui al D.lgs. 175 del 2016 (T.U. delle società a partecipazione pubblica).
Si tratta di una questione che, a propria volta, si interseca in modo pressoché inscindibile con quella della natura di tali società.
Va premesso al riguardo che la materia in esame non è destinata ad essere incisa in modo significativo dal nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (decreto legislativo n. 14 del 2019) atteso che il comma 3 dell’articolo 1 di tale codice fa espressamente salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi di impresa delle società pubbliche (e in particolare, ai fini che qui rilevano, gli articoli 14 e 21 del T.U. 175 del 2016).
Occorre altresì premettere che l’articolo 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267  (Legge fallimentare) e l’articolo 2221 cod. civ. esclude espressamente gli enti pubblici dal novero delle entità che possono essere soggette al fallimento e alle disposizioni in tema di concordato preventivo.
Appare evidente, allora, che laddove le società partecipate – e gli stessi organismi in house in forma societaria – siano configurabili come enti pubblici (anche in considerazione del fine di interesse generale che ne caratterizza l’attività), da tale qualificazione deriverà coerentemente la sottrazione di tali società delle procedure fallimentari.
Al contrario, laddove si opti per una qualificazione di stampo privatistico, ne deriverà in modo parimenti coerente l’assoggettabilità alla legge fallimentare. In base a tale seconda opzione, infatti, la scelta dello strumento societario di diritto comune dovrebbe avere quale logico corollario quello di rendere applicabili tutte le conseguenze derivanti dalla sua adozione, ivi compreso il rischio che la società resti sottoposta a procedura fallimentare in caso d’insolvenza.
Con la sentenza n. 7799 del 2005 le Sez. Un. della Cassazione avevano già chiarito che una società con partecipazione pubblica non muta la propria natura di soggetto di diritto privato per il solo fatto che l’ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le quote di partecipazione.
Nell’occasione la S.C. aveva chiarito: i) che il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia; ii) che, se è vero che l’ente pubblico può – in linea di principio – partecipare alla società solo se la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse, una volta che la società sia stata comunque costituita l’interesse riferibile al socio assume un rilievo esclusivamente extrasociale, ragione per cui deve ritenersi che le società partecipate da un’amministrazione pubblica abbiano comunque natura privatistica.
L’impostazione in parola, che propende per l’applicazione della disciplina fallimentare è stata ribadita (e declinata nella materia concorsuale) nel corso del 2013 dalla Corte di cassazione, la quale ha affermato sul punto che la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali — e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico — comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità’[38].
Nel corso del 2006 le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 31 luglio 2006 n. 17287) avevano chiarito che, se (per un verso) l’ente pubblico può, in linea di principio, partecipare alla società soltanto se la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse, una volta che comunque la società sia stata costituita l’interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extrasociale, con la conseguenza che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura privatistica (con quanto ne consegue in termini di assoggettamento all’ordinaria disciplina in tema di fallimento e altre procedure concorsuali)[39].
L’impostazione in questione è stata infine trasfusa nel testo dell’articolo 14, comma 1 del T.U. 175 del 2016 secondo cui «le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo nonché, ove ne ricorrano le condizioni, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza» (D.lgs. 270 del 1999).
 Il problema della fallibilità delle società pubbliche si è successivamente riaperto con specifico riguardo alle società in house.
Con riguardo a tale categoria di organismi il tema dell’assoggettabilità al fallimento e alle altre procedure concorsuali presentava aspetti di interesse sistematico ancora maggiore rispetto alle ordinarie società partecipate.
Ciò in quanto, nel caso delle società in house, il vincolo di immedesimazione organica con l’apparato organizzativo dell’amministrazione conferente rende ancora più rilevanti gli elementi di matrice pubblicistica e – in via mediata – rende ancora più plausibile la configurabilità delle stesse quali ‘enti pubblici’ in senso sostanziale, con quanto ne consegue in termini di possibile esclusione dall’ambito di applicazione della disciplina in tema di fallimento e di concordato preventivo.
Ebbene, nonostante l’esistenza di evidenti indici normativi nel senso della qualificazione in chiave pubblicistica delle società in house, la giurisprudenza del tutto maggioritaria ha concluso nel senso della fallibilità di tale tipologia di organismi[40].
 
Cass. civ., sez. un., 7 febbraio 2017, n. 3196
 
Il profilo pubblicistico della società in house, in cui l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo, quantomeno per prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi ed uffici, appare allora ispirato – in realtà – dal mero obiettivo di eccettuare l’affidamento diretto (della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate) alle citate norme concorrenziali, ma senza che possa dirsi nato, ad ogni effetto e verso i terzi, un soggetto sovraqualificato rispetto al tipo societario eventualmente assunto. Su tale società, in questi casi, per quanto intesa come articolazione organizzativa dell’ente, ove posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una disamina materiale, si determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune – secondo i dettami di Cass. s.u. 26283/2013, poi ripresi dal D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 12 – ma senza il prospettato effetto di perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore. Le norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono dunque incidere – come parimenti notato in dottrina – sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Sul punto già Cass. 21991/2012 aveva precisato che, ai fini dell’esclusione di una società mista dal fallimento, non è di per sé rilevante la soggezione al potere di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell’espletamento del servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la vigilanza l’attività operativa della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano. Il sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, determina invero nei terzi un legittimo affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento, che, invece, verrebbe aggirato ed eluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche.
Va così tuttora ripetuto il senso della L. n. 70 del 1975, art. 4 che nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, mostra altresì di richiedere che la qualità di ente pubblico, ove non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba almeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Ne consegue che anche una disamina sulla motivazione con cui pur App. Milano 17.7.2014, escludendo il controllo analogo, ha negato la sussistenza di una società in house providing, alla stregua di una esplicita recezione della puntuale analisi parimenti negativa condotta dalla Corte dei Conti (con delibera del 2013, aggiornata al periodo successivo al 2010-2011, cioè al referto sul partecipante Comune di Mozzate), risulta superflua. Così come non appare utile una verifica del postulato di una società a partecipazione pubblica che, rivestendo un carattere necessario per l’ente pubblico in ragione dell’attività svolta, non potrebbe essere dichiarata fallita in virtù della oggettiva incompatibilità fra tutela dell’interesse pubblico e normativa fallimentare, tenuto conto che alla (OMISSIS) s.r.l. era stato affidato in gestione e manutenzione il patrimonio immobiliare sia proprio che del socio pubblico.
3. Né la supposta ed eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile: ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto. Le società nascono infatti per limitare la responsabilità rispetto ai soci secondo un proprio ordinamento, mentre la organizzazione prescelta per l’attività è appunto il mero riflesso della nascita di un soggetto giuridicamente diverso dai soci e dunque senza che a loro volta le regole di organizzazione di questi valgano in modo diretto a disciplinare il funzionamento e le obbligazioni di quello. Una volta adottato, anche da parte dell’ente pubblico, il blocco-sintagma societario, nella fattispecie della società a responsabilità limitata, la scelta di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali (e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico) comporta per un verso che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza. Per altro verso, nemmeno potrebbe darsi la paradossale conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale siano esentate dal fallimento: lo escludono la necessità di preindividuazione certa del regime delle responsabilità e di quel rischio per cui l’ente pubblico-socio risponde, salvi altri regimi di concorrente responsabilità dei suoi organi (Cass. s.u. 5491/2014, 26936/2013), nei soli limiti del capitale di investimento immesso nella società divenuta insolvente. L’annullamento ad ogni effetto della soggettività dell’esaminata società, a ben vedere, procurerebbe altresì l’altro paradosso di un’azione dei creditori sociali della società in house che diverrebbero tutti creditori diretti dell’ente pubblico, con possibilità di azione esattamente ed invece scongiurata laddove l’ente pubblico abbia scelto, come visto, di delimitare la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società partecipata. Ciò convince che anche l’intento di Cass. s.u. 26283/2013 (conf. 5491/2014) è solo quello di preservare l’erario dalla mala gestio degli organi sociali di società strumentali, in un’ottica selettiva e per quanto di rafforzamento della responsabilità che ne investe gli organi, come poi recepito dal cit. legislatore del 2016.
4. Anche nella vicenda non è pertanto invocabile, a fronte della partecipazione dell’ente pubblico, un procedimento di riqualificazione della natura del soggetto partecipato, nemmeno all’insegna della categoria, di volta in volta da disvelare, di una società di diritto speciale. Come detto, solo quando ricorra una espressa disposizione legislativa, con specifiche deroghe alle norme del codice civile, potrebbe affermarsi la realizzazione di una struttura organizzata per attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c., con la possibile emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa. In difetto di tale intervento esplicito, il fenomeno resta quello di una società di diritto comune, nella quale pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che attiene al funzionamento della società convivono. E se è vero che l’ente pubblico in linea di principio può partecipare alla società soltanto se la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse (secondo norme e vincoli resi più stringenti dal D.Lgs. n. 175 del 2016), una volta che comunque la società sia stata costituita, l’interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extrasociale, con la conseguenza che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura privatistica (Cass. s.u. 17287/2006). Il rapporto tra società ed ente è perciò di assoluta autonomia, non essendo consentito al secondo di incidere unilateralmente sullo svolgimento dello stesso rapporto e sull’attività della società mediante poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario e mediante la nomina dei componenti degli organi sociali. Né, si osserva ancora, un eventuale abuso di tali poteri pubblicistici ovvero la previsione di accordi anche contrattuali tra società ed ente, in costanza del tipo societario operativo, possono farne aggirare il modello di responsabilità con efficacia verso i terzi, ciò altrimenti dipendendo, sostanzialmente, da imprevedibili scelte di mera convenienza, ancora una volta incompatibili con l’adozione a monte dell’istituto societario. La disciplina di convivenza così sintetizzata permette, come efficacemente spiegato in dottrina, che le società a partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d’intervento; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario.
Anche su tale punto il Legislatore delegato sembra avere infine confermato gli approdi della giurisprudenza, stabilendo, all’articolo 14 del Testo Unico n. 175 del 2016, che le società a partecipazione pubblica – tra cui devono ricomprendersi anche le società in house – sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.
 
Da ultimo, con la sentenza Cass., I, 2 luglio 2018, n. 17279 è stato chiarito ancora una volta che tutte le società commerciali (a totale o parziale partecipazione pubblica e quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultano effettivamente sottoposte) restano assoggettate al fallimento, essendo loro applicabile l’articolo 2221 cod. civ. in forza del rinvio alle norme del codice civile, contenuto prima nell’articolo 4, comma 13, del decreto-legge n. 95 del 2012 (e, in seguito nell’articolo 1, comma 3 del D.lgs. 175 del 2016)[41].
Con il testo unico del 2016 il dibattito in tema di assoggettabilità al fallimento delle società in house sembra ormai definitivamente concluso con l’adesione da parte del Legislatore alla tesi affermativa.
Il primo elemento normativo in tal senso è rappresentato dall’articolo 14, comma 1 il quale assoggetta alle disposizioni in materia concorsuale tutte le società a partecipazione pubblica (ivi comprese, quindi, le società in house).
Un secondo elemento testuale che depone nel medesimo senso è rappresentato dal comma 6 dell’articolo 16 il quale espressamente richiama il fallimento «[delle] società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti», così evocando in modo diretto le società in house (il cui tratto distintivo, come è noto, è rappresentato proprio dalla possibilità di essere – legittimamente – affidatarie in via diretta di appalti e di concessioni).
All’indomani dell’entrata in vigore del Testo Unico si è manifestata un’evidente discrasia fra:
  • (da un lato) il comma 1 dell’articolo 14 (il quale stabilisce in modo chiaro l’assoggettamento delle società partecipate – ivi comprese le società in house – alle procedure concorsuali di diritto comune) e
  • (dall’altro) il comma 1 dell’articolo 21 il quale (con riferimento alle società partecipate da enti locali) sancisce l’obbligo per le pubbliche amministrazioni locali partecipanti di accantonare in bilancio un importo pari al risultato negativo della società non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione.
Al riguardo, si è – del tutto correttamente – osservato che, in caso di società interamente partecipate (come nel caso delle società in house), l’obbligo per l’amministrazione partecipante di ripianare in toto i debiti di esercizio ne determini in via indiretta la non fallibilità, e ciò a prescindere dalla gravità dello stato di insolvenza.
Nonostante le ripetute richieste formulate dal Consiglio di Stato al fine di sanare la rilevata discrasia, essa non è stata risolta neppure a seguito del c.d. Decreto correttivo n. 100 del 2017.
 

(*) Presidente di Sezione del Consiglio di Stato – C.G.A.R.S.
(**) Il presente contributo è estratto dal volume (di imminente pubblicazione): C. Contessa (a cura di), Il contenzioso e la giurisprudenza in materia di appalti pubblici, La Tribuna, Piacenza, 2020.
 
[1] Sul tema degli affidamenti in house in generale sia qui consentito richiamare: C. Contessa, L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, in C. Contessa – D. Crocco, Appalti e concessioni. Le nuove direttive europee, Roma, 2015; C. Contessa, Il nuovo in house providing, in: R. Garofoli, G. Ferrari, La nuova disciplina dei contrati pubblici, Roma-Molfetta, 2017.
[2] Fra i contributi di maggiore interesse sistematico che negli anni recenti hanno trattato del tema ci si limita qui a richiamare – e senza alcuna pretesa di esaustività -: E. Michetti, In House providing – Modalità, requisiti, limiti, Milano, 2009; D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2009, passim; A. Cassatella, Partecipazione ‘simbolica’ alle società in house e requisito del controllo analogo, in: Giur. It., fasc. 7/2014, 2588, ss.; C. Volpe, Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi. Relazione svolta al 61° Convegno di studi amministrativi, in: www.giustizia-amministrativa.it.; Giusti, Società in house – I requisiti dell’in house fra princìpi giurisprudenziali e nuove regole codificate, in: Giur. It., fasc. 4/2017, 439, ss.
 
[3] Va tuttavia osservato che la stessa Corte di giustizia con la sentenza sul caso ASI in causa C-371/05 ammise – a talune condizioni – la configurabilità di una relazione in house anche nel caso in cui nell’organismo conferitario esistesse una quota (minoritaria) di partecipazione di fonte privata.
Si tratta – come è evidente – di un orientamento che è infine prevalso nella normativa UE e che ha ispirato la stesura dell’articolo 12 della Direttiva appalti del 2014.
 
[4] Sul punto sia consentito rinviare a C. Contessa, Commento all’articolo 5, in: C. Contessa, D. Crocco, Codice degli appalti e delle concessioni commentato, Roma, 2017.
[5] In base al criterio eee) viene previsto che il decreto delegato assicuri “garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti. L’iscrizione nell’elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l’esistenza dei requisiti. La domanda di iscrizione consente all’ente aggiudicatore, sotto la propria responsabilità, di conferire all’ente con affidamento in house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento diretto”.
 
[6] Si tratta, peraltro, di una previsione dal tenore del tutto simile all’articolo 17 della direttiva Concessioni 2014/23/UE e all’articolo 23 della direttiva Settori speciali 2014/25/UE.
[7] Il riferimento va, naturalmente, alla sentenza della CGUE 18 novembre 1999, in causa C-107/98, Teckal c/ Comune di Viano.
[8] Sentenza in data 11 gennaio 2005, in causa C-26/03.
[9] Punto 49 della motivazione.
[10] Sul punto, D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2009, passim.
[11] Sul punto, v. A. Cassatella, Partecipazione ‘simbolica’ alle società in house e requisito del controllo analogo, in Giur. It., fasc. 7/2014, 2588, ss. L’Autore si concentra sul dibattito giurisprudenziale nazionale che si era soffermato sul se il requisito del controllo analogo dovesse essere indagato in base a elementi di carattere funzionale, ovvero di tipo dominicale.
[12] Si osserva infatti che la mancata previsione nell’ambito dell’originaria formulazione dell’articolo5, comma 1, lett. c), delle parole «le quali non comportano controllo o potere di veto» appare piuttosto il frutto di un ‘salto’ materiale nell’operazione di ‘copyout’ del testo della Direttiva, che non l’effetto di una ponderata scelta normativa.
[13] Sentenza della Quinta Sezione, 11 maggio 2006 in causa C-340/04, Carbotermo.
[14] Sul punto, v. Foà – Greco, L’in house providing nelle direttive appalti 2014: norme incondizionate e limiti dell’interpretazione conforme, in www.federalismi.it, luglio 2015
[15] Sul punto, G. Pescatore, L’inedito modello dell’in house orizzontale, in: Il libro dell’anno Treccani del diritto, Roma, 2015.
[16] Sul punto sia consentito rinviare a: C. Contessa, L’in house providing quindici anni dopo, cit., par. 1.
[17] Ci si limita qui a richiamare la sentenza della CGUE 11 maggio 2006, in causa C-340/04 (Carbotermo) e la sentenza 13 novembre 2008, in causa C-324/07 (Coditel Brabant).
 
[18] Corte cost., sentenza 20 luglio 2012, n. 199.
 
[19] E. Codazzi, Rassegna di giurisprudenza – Società in house providing, in: www.iusimpresa.com.
[20] In: Foro it., 2013, 1377.
[21] Sez. Controllo Lazio, 20 gennaio 2015, n. 2.
[22] E. Codazzi, op. loc. cit.
[23] In: www.dirittodeiservizipubblici.it.
[24] Sul punto: C. Contessa, Il nuovo in house providing, in: G. Ferrari, R. Garofoli, La nuova disciplina dei contratti pubblici, Roma-Molfetta, 2017.
[25] Cons. St., sez. V, ord., n. 4793 del 2015.
[26] E. Codazzi, La giurisprudenza sulle società c.d.in house: spunti per una riflessione sul tema tra “anomalia” del modello e (in)compatibilità con il diritto societario, in: Giurisp. Comm., fasc. 2/2015, p. 236, segg.
[27] In tal senso – fra le molte -: Cons. Stato, V, 22 gennaio 2015, n. 257, in Foro amm., 2015, 76; id., VI, 18 maggio 2015, n. 2515, in www.dirittodeiservizipubblici.it; id., V, 10 settembre 2014 n. 4599, ivi; id., V, 27 maggio 2014, n. 2716, ivi; id., VI, 11 febbraio 2013, n, 762, in Foro amm., 2013, 516.
[28] Sul punto: C. Contessa, Recentissime Consiglio di Stato, in: Giurisprudenza italiana, fasc. 12/2017.
[29] In tal senso – fra le molte – Cons. Stato, III, 7 maggio 2015, n. 2291, in www.iusexplorer.it (la sentenza in questione proprio sulla scorta del richiamato carattere di eccezionalità, giunge ad escludere l’ammissibilità dell’in house nell’ambito delle società strumentali); id., II, 30 gennaio 2015, n. 298, in Giur. it., 2015, 1976 (secondo la decisione in questione cui l’in house è un “istituto che resta pur sempre un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario”).
[30] Sul punto: C. Contessa, Recentissime Consiglio di Stato, 2015, in: Giurisp. It.
[31] C. Contessa, L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, in C. Contessa – D. Crocco, Appalti e concessioni. Le nuove direttive europee, Roma, 2015
[32] Sentenza 6 aprile 2006, in causa C-410/04 (ANAV).
[33] In tal senso, la sentenza della Grande Sezione in data 9 giugno 2009, in causa C-480/06, la quale richiama – peraltro – quanto già espresso dai Giudici di Lussemburgo con la sentenza Coditel Brabant del novembre 2008.
[34] In termini ancor più espliciti si è espressa la Commissione europea nella Comunicazione interpretativa sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati – PPPi (documento C(2007)6661 del 5 febbraio 2008). Nel documento in parola, la Commissione europea ha chiarito che “nel diritto comunitario, le autorità pubbliche sono infatti libere di esercitare in proprio un’attività economica o di affidarla a terzi, ad esempio ad entità a capitale misto costituite nell’ambito di un partenariato pubblico-privato. Tuttavia, se un soggetto pubblico decide di far partecipare un soggetto terzo all’esercizio di un’attività economica a condizioni che configurano un appalto pubblico o una concessione, è tenuto a rispettare le disposizioni del diritto comunitario applicabili in materia”.
[35] L’approccio in questione è stato recentemente confermato dal Consiglio di Stato (sez. V, 10 settembre 2014, n. 4599) il quale ha statuito che l’in house providing, lungi dal configurarsi quale modalità di affidamento e gestione di carattere eccezionale e subvalente, rappresenta – al contrario – una delle tre (parimenti legittime) opzioni a tal fine perseguibili (autoproduzione, cooperazione pubblico-pubblico, esternalizzazione).
[36] La lettera eee) della legge di delega, ai fini che qui interessano, ha previsto che, in sede di adozione del decreto delegato, occorresse fornire “garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione (…)”.
 
[37] F. Fimmanò, L’insolvenza delle società pubbliche alla luce del Testo unico, in: Fallimento, fasc. 2/2017, p. 161, ss.
 
[38]Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2013, n. 22209.
[39] Sul punto: G. Lazoppina, Fallibilità delle società a partecipazione pubblica, in: www.altalex.com.
[40] Cass. civ. sez. un., 7 febbraio 2017, n. 3196.
 
[41] G. Lazoppina, op. loc. cit.
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