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Urbanistica. Sospensione dell’azione penale per sanatoria
Pubblicato: 11 Dicembre 2019

La sospensione dell’azione penale relativa alle contravvenzioni urbanistiche finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, imposta dall’art. 45, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 in relazione al precedente art. 36, comma 3, non può superare i sessanta giorni previsti da tale ultima disposizione.

 
RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 5 dicembre 2018, la Corte d’appello di Palermo – giudicando sul gravame proposto dall’odierna ricorrente – ha confermato la sentenza con cui Viviana Mattiolo era stata condannata alle pene di legge per i reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (d’ora in avanti, T.U.E.) e  181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per aver realizzato opere senza permesso di costruire e senza autorizzazione paesaggistica in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale ed archeologico.

 

2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore  dell’imputata, deducendo con il primo motivo, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 36 e 45 T.U.E. per non aver la Corte territoriale sospeso il giudizio d’appello in attesa della definizione del procedimento amministrativo volto al rilascio del permesso di costruire in sanatoria avviato con istanza del 28 novembre 2018.

3. Con il secondo ed il terzo motivo si lamenta, rispettivamente, violazione degli artt. 3, 6, 31 e 44 T.U.E. e 149 e 181 d.lgs. 42 del 2004 per essere stata ritenuta la necessità del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica con riguardo al restauro di due aperture lignee in pessimo stato di conservazione con trasformazione delle stesse in un’unica apertura a vetri, di dimensioni inferiori a quelle preesistenti. Sul piano urbanistico, si sarebbe trattato di un intervento di manutenzione straordinaria o restauro conservativo non assoggettato a permesso di costruire e su quello paesaggistico non sarebbe stata necessaria l’autorizzazione, rientrando le opere tra quelle disciplinate nell’art. 149 d.lgs. 42 del 2004 e, comunque, nell’art. 2 d.P.R. 31 del 2017, da applicarsi retroattivamente trattandosi di norma più favorevole.

4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 27 Cost. e dell’art. 29 T.U.E. per essere stato ritenuto il concorso morale della ricorrente nel reato in base al solo fatto che ella fosse proprietaria degli immobili e avesse presentato le istanze di sanatoria, in assenza di prove di un effettivo concorso, essendovi anzi in atti elementi di prova di segno contrario, trattandosi di opere eseguite dai suoi genitori.

5. Con il quinto motivo di ricorso si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. per non essere stata dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

    

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

Va ribadito, invero, che in materia di reati edilizi, qualora venga richiesto l’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, la mancata sospensione del procedimento da parte del giudice, in assenza di una espressa previsione normativa, non determina alcuna nullità per lesione del diritto di difesa, potendo l’interessato far valere l’esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva del reato nei successivi gradi di giudizio (Sez.  3, n. 51599 del 28/09/2018, M., Rv. 274095).

Nel caso di specie, peraltro, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria non risulta avvenuto, come si evince dal certificato emesso dal comune di Agrigento del 1° luglio 2019, prodotto dal difensore all’udienza di discussione – che può essere acquisito, trattandosi di certificato successivo al deposito del ricorso e che non richiede alcun vaglio di merito – posto che in esso si attesta come il procedimento per rilascio del permesso di costruire in sanatoria avviato con istanza registrata al Prot. 92311 del 29 novembre 2018 sia tuttora in corso di esame istruttorio.

Né, ovviamente, può qui sospendersi il processo – come in via subordinata richiesto dal difensore in sede di discussione – posto che l’art. 45, comma 1, d.P.R. 380/2001 impone la sospensione dell’azione penale «finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’articolo 36» e quest’ultima disposizione, al terzo comma, sancisce che «sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata». Con il decorso di sessanta giorni dal 29 novembre 2018, sull’istanza si è quindi formato il silenzio-rifiuto – suscettibile d’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa – senza che il processo penale debba necessariamente essere sospeso. Ed invero, il combinato disposto delle due citate norme prevede la sospensione dell’azione penale limitatamente ad un procedimento amministrativo destinato a concludersi nel breve termine massimo indicato e la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in rapporto al principio di obbligatorietà dell’azione penale sancito nell’art. 112 Cost., dell’identica normativa urbanistica disciplinante il rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi degli artt. 22, primo comma, e 13, secondo comma, l. 28 febbraio 1985, n. 47, aveva disatteso l’interpretazione, datane dai giudici a quibus, secondo cui la sospensione necessaria del processo penale doveva estendersi anche oltre il termine dei sessanta giorni, sino alla fase del procedimento giurisdizionale amministrativo in cui si contesti la legittimità del mancato accoglimento dell’istanza di sanatoria (quanto meno sino alla pronuncia del T.A.R.). Per contro, la Corte costituzionale aveva rilevato che se la sospensione limitata al procedimento amministrativo per un massimo di sessanta giorni giustifica il danno inerente al ritardato svolgimento del processo penale, poiché la conclusione del (breve) iter in senso favorevole al richiedente conduce all’immediata definizione del giudizio penale, «il bloccare ulteriormente le attività processuali penali per tempi generalmente imprevedibili (…) non solo incrementerebbe il danno al quale s’è accennato ma rischierebbe di renderlo irreversibile, senza, peraltro, alcuna garanzia sull’esito dei procedimenti giurisdizionali (…) il blocco delle attività processuali penali “per lunghi tempi” non può non violare il principio di cui all’art. 112 Cost., che, invece, la breve, necessaria sospensione dell’azione penale, di cui al primo comma dell’art. 22, sicuramente non lede» (Corte cost., sent. 31 marzo 1988, n. 370, che ha pertanto concluso per l’infondatezza della questione sollevata, osservando che «tra due interpretazioni d’una legge ordinaria dev’essere preferita quella che non solleva dubbi di legittimità costituzionale»).

     Questa conclusione interpretativa – salvo un risalente precedente contrario (Sez. 3, n. 3190 del 13/02/1989, Falabella, Rv. 180665) – è stata seguita da tutta la successiva giurisprudenza di legittimità e avallata anche dalle Sezioni unite (cfr. Sez.  U, n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv. 190245; più di recente, Sez. U, n. 15427 del 31/03/2016, Cavallo, Rv. 267042, in motivazione; Sez.  3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiariello, Rv. 247692; Sez.  3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293). Del resto – si osserva nella motivazione di una pronuncia che conferma il consolidato orientamento – «il termine assolve ad una duplice funzione: da un lato, conferisce certezza all’aspettativa del privato consentendogli le opportune iniziative di tutela e, dall’altro, evita la sospensione del processo sine die» (Sez.  3, n. 10205 del 18/01/2006, Solis e a., Rv. 233671, in motivazione). Deve, pertanto, ribadirsi il principio secondo cui la sospensione dell’azione penale relativa alle contravvenzioni urbanistiche finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, imposta dall’art. 45, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 in relazione al precedente art. 36, comma 3, non può superare i sessanta giorni previsti da tale ultima disposizione.

2. Del pari inammissibili per manifesta infondatezza sono il secondo ed il terzo motivo.

2.1. Quanto al permesso di costruire – in disparte il fatto che la ricorrente è stata condannata per il reato urbanistico anche in relazione alle altre opere abusive di cui al capo 1 d’imputazione, essendo al proposito intervenuta sentenza di improcedibilità per estinzione soltanto con riguardo al reato paesaggistico di cui al capo 2 – quel titolo era necessario anche con riguardo alla modifica delle aperture effettuata sulla parete esterna dell’edificio, sul lato est.

Diversamente da quel che sostiene la ricorrente, di fatti, l’intervento non è riconducibile né alla categoria della manutenzione straordinaria, né a quelle del restauro o risanamento conservativo, dovendo invece essere qualificato come ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, per la quale è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire a norma dell’art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E., che detto titolo prevede anche quando le opere portino ad un organismo edilizio in parte diverso da quello precedente perché comportante la modifica dei prospetti. Si tratta, del resto, di interpretazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte – con cui la ricorrente non si confronta – essendosi affermato che  l’apertura di “pareti finestrate” sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia “minore”, e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività (Sez.  3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, Rv. 259905; Sez.  3, n. 38338 del 21/05/2013, Cataldo, Rv. 256381; Sez.  3, n. 834 del 04/12/2008, dep. 2009, Rv. 242160).

    2.2. Oltre ad essere certamente soggetta al rilascio del permesso di costruire, stante il pacifico vincolo paesaggistico, l’intervento richiedeva anche il previo rilascio della relativa autorizzazione.

     E’ noto che l’illecito di cui all’art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, trattandosi di reato di pericolo, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l’ambiente, essendo sufficiente l’esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon e a., Rv. 254493), tali certamente essendo gli interventi che incidano sull’aspetto esteriore degli edifici (Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli, Rv. 251244).

Va peraltro osservato come la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione edilizia non solo esclude l’applicabilità dell’art. 149 d.lgs. 42 del 2004, che la ricorrente invoca con evidente riferimento alla lett. a), ma proprio tale disposizione – nel prevedere che non è richiesta l’autorizzazione paesaggistica per gli «interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conversativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici» – conferma l’assoggettabilità al procedimento di valutazione della compatibilità paesaggistica di qualsiasi opera che appunto incida sull’estetica dei fabbricati.

Del tutto generico, poi, è il riferimento al disposto di cui all’art. 2 d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), che, avendo natura secondaria, è peraltro subordinato al rispetto della legislazione primaria più sopra richiamata.

3. Manifestamente infondato è anche il quarto motivo di ricorso.

La sentenza impugnata – come già quella, conforme, di primo grado – argomenta le ragioni a sostegno del riconosciuto concorso della ricorrente nella commissione del reato e la decisione non è manifestamente illogica ed è conforme ai principi di diritto applicabili in materia.

Quanto a questi ultimi, va ribadito che l’individuazione del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell’abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di sanatoria, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall’interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra il materiale responsabile dell’abuso ed il proprietario (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a., Rv. 261522; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253065).

Nel caso di specie – dopo aver rilevato l’inverosimiglianza delle dichiarazioni al proposito rese dal padre dell’imputata, che, non già nella fase delle indagini preliminari, ma soltanto nel corso del giudizio si era assunto la responsabilità dell’abuso sostenendo che la figlia non ne fosse partecipe – la sentenza impugnata ha ritenuto che l’imputata, avendo piena disponibilità giuridica e di fatto dell’immobile ed avendo mostrato interesse alla conservazione delle opere abusive presentando plurime istanze di sanatoria, era da ritenersi corresponsabile dell’abuso quantomeno a titolo di concorso morale. Si tratta di valutazione di merito non manifestamente illogica e qui non sindacabile, in assenza, peraltro, di specifica deduzione del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.

4. Del pari inammissibile perché implicante valutazioni di merito non consentite nella presente sede di legittimità è l’ultimo motivo di ricorso.

La ricorrente deduce violazione della legge penale, ma non specifica per quale ragione sarebbe stata violata od erroneamente applicata la disposizione di cui all’art. 131 bis cod. pen., limitandosi ad osservare che nel caso di specie sussisterebbero i presupposti per l’applicazione della disposizione, tenendo anche conto che l’imputata aveva demolito la tettoia ed il muro oggetto di contestazione e si era attivata per la regolarizzazione formale dell’ulteriore abuso commesso sulla facciata dell’edificio.

    Osserva dunque il Collegio che la valutazione circa la particolare tenuità del fatto sul piano dell’esiguità dell’offesa – l’unico evocato dalla ricorrente – è giudizio di merito non suscettibile di sindacato in sede di legittimità se non con riguardo alla mancanza di una logica motivazione, ciò che non ha tuttavia formato oggetto di motivo di ricorso. La sentenza impugnata, peraltro, ha dato atto con motivazione non manifestamente illogica della gravità tutt’altro che trascurabile della lesione dei beni penalmente protetti dalle due norme incriminatrici violate, considerata anche la pluralità degli abusi edilizi perpetrati, posto che, come si è osservato, con riguardo al reato di cui al capo 1 la responsabilità è stata riconosciuta per tutte e tre le opere abusive realizzate.

5. Nonostante l’inammissibilità del ricorso, la Corte deve d’ufficio rilevare l’illegalità della pena connessa alla disposizione di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. – come modificato dall’art. 1, comma 44, l. 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 4 agosto 2017 – nella parte in cui dispone che nel caso di giudizio abbreviato, «in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà se si procede per una contravvenzione». Questa Corte ha al proposito già riconosciuto che tale disposizione, nella parte in cui prevede che, in caso di condanna per una contravvenzione, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà, anziché di un terzo come previsto dalla previgente disciplina, si applica anche alle fattispecie anteriori, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen., in quanto, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole seppure collegato alla scelta del rito (Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752). La rilevabilità d’ufficio della questione s’impone anche nel caso d’inammissibilità del ricorso, come ripetutamente ritenuto da questa Corte nella sua più autorevole composizione (cfr. Sez.  U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593; Sez.  U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111).

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio e l’annullamento può avvenire senza rinvio, ai sensi dell’art. 620, lett. l), cod. proc. pen., potendo procedersi in questa sede ad applicare la corretta diminuzione della metà – anziché di un terzo – sulla pena di giorni 15 di arresto e 11.400.000 Euro di ammenda inflitta dal giudice di primo grado. La pena finale deve pertanto essere rideterminata in giorni 7 di arresto e 5.700,00 Euro di ammenda.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio che ridetermina in giorni sette di arresto ed Euro 5.700,00 di ammenda.

Dichiara inammissibile il ricorso nel resto.

Così deciso il 2 luglio 2019.

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