2.12.2020 Il pantouflage all’italiana: fra rigore formale e rischi di ineffettività

La parola di origine francese “pantouflage” (letteralmente “mettersi in pantofole”) viene utilizzata nel linguaggio anche corrente per indicare il passaggio di dipendenti pubblici al settore privato.

Si tratta di un fenomeno quest’ultimo che, seppure fisiologico in una società caratterizzata da notevole mobilità nel mondo del lavoro, può essere particolarmente rischioso per le amministrazioni pubbliche, perché può celare comportamenti non corretti del funzionario a favore del suo futuro datore di lavoro prima di lasciare l’impiego e persino rappresentare il compenso postumo di una vera e propria attività corruttiva.

 

In questa prospettiva, la Convenzione ONU contro la corruzione del 2003 aveva raccomandato agli Stati firmatari l’adozione di una specifica disciplina in materia con la previsione di specifiche restrizioni e limiti.

Il legislatore nazionale, che pure in passato aveva prodotto alcune regole sul punto sia pure solo per specifici settori, nel 2012, nell’ambito della prima normativa organica di prevenzione della corruzione, ha introdotto una regolamentazione generale a valere per tutti i dipendenti pubblici.

Lo ha fatto, però, in modo timido innestando la nuova disciplina nel cd testo unico del pubblico impiego (il d.lgs n. 165 del 2001) e dedicandole un unico comma (il 16 ter) di un articolo (il 53), riferito soprattutto ai limiti per l’assunzione di incarichi “extraofficio” dei funzionari pubblici.

La disposizione, pur apprezzabile per avere inserito un tassello importante nella strategia anticorruzione, sta evidenziando, anche per la sua eccessiva sinteticità, non pochi problemi nell’applicazione pratica, che rendono indispensabile ed urgente un tagliando migliorativo.

Sommario1. Le ragioni della regolazione del pantouflage – 2. Le “raccomandazioni” della Convenzione di Merida – 3. La normativa nazionale ante 2012 – 4. L’avvio della strategia di prevenzione – 5. L’introduzione dell’istituto da parte della legge Severino – 6. Presupposti e condizioni delle “restrizioni” – 7. Le sanzioni – 8. Considerazioni conclusive

1. Le ragioni della regolazione del pantouflage

La parola francese pantouflage (il cui significato è “mettersi in pantofole”)o l’omologa espressione inglese revolving doors (“porte girevoli”) vengono in genere utilizzate nel linguaggio internazionale per indicare il passaggio di dipendenti dal settore pubblico a quello privato3.

Si tratta di un fenomeno di osmosi ormai fisiologica in un mercato del lavoro caratterizzato da estrema fluidità e mobilità, da salutarsi per molti aspetti positivamente; chi ha maturato un’esperienza nel settore pubblico è spesso una risorsa assai utile ed appetibile per imprese, professioni e, in generale, mondo del lavoro privato, proprio per le conoscenze in precedenza acquisite sul campo. Per le amministrazioni pubbliche, però, questa situazione può essere foriera di problemi e rischi. In primo luogo, essa comporta un inevitabile depauperamento di professionalità, che hanno acquisito un’esperienza concreta anche grazie alla formazione mirata, per la quale sono spesso investite risorse significative.

In secondo luogo, il passaggio al settore privato rappresenta un pericolo per l’imparzialità dell’azione delle amministrazioni pubbliche, sotto due diversi e speculari profili; il burocrate, infatti, potrebbe strumentalizzare l’esercizio dei propri poteri per guadagnare la benevolenza del proprio interlocutore privato ed ottenerne di conseguenza, dopo la cessazione del rapporto con l’istituzione pubblica, una prospettiva di lavoro vantaggiosa4; il privato potrebbe, dal canto suo, esercitare pressioni o condizionamenti, prospettando al dipendente pubblico una opportunità di assunzione di incarichi, una volta cessato il servizio5. Soprattutto in questa seconda accezione, il pantouflage (o il revolving doors) è diventato già da anni oggetto di attenzione da parte dei legislatori di gran parte dei Paesi del mondo6, con l’obiettivo di sterilizzare o comunque ridurre il rischio del danno anche di immagine che le istituzioni possono riceverne.

In questa stessa prospettiva, il fenomeno, più di recente, è diventato di interesse nell’ambito delle strategie di prevenzione della corruzione. L’approccio preventivo, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni, è fondato sull’idea che anche la corruzione, intesa come mercimonio delle funzioni pubbliche, alla stregua di qualsiasi comportamento umano è frutto di scelte individuali ma può essere favorito da fattori esterni e di contesto7. È quindi possibile, secondo questa impostazione, individuare situazioni di “rischio” che possono agevolare il verificarsi di fenomeni corruttivi e, di conseguenza, agire su di esse contenendole con adeguati strumenti, come avviene in altri campi apparentemente diversi e lontani, quale ad esempio la sicurezza sul lavoro.

Fra i fattori di rischio della corruzione vengono, fra le altre, individuate proprio le situazioni in cui l’esercizio di poteri pubblici può entrare in conflitto con interessi privati, diretti o indiretti, dei singoli funzionari pubblici, dando luogo a quelle strumentalizzazioni delle funzioni, che sono un tratto tipico e

caratterizzante dei fatti delittuosi di cui ci si occupa8. Alla luce di queste considerazioni, non stupisce affatto che del pantouflage tratti la Convenzione cd. Di Merida, il più importante strumento internazionale voluto dall’ONU per contrastare la corruzione, considerata esplicitamente una “minaccia per la stabilità e la sicurezza delle società, minando le istituzioni ed i valori democratici, i valori etici e la giustizia e compromettendo lo sviluppo sostenibile e lo stato di diritto”9.

 

2. Le “raccomandazioni” della Convenzione di Merida

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (indicata con l’acronimo UNCAC), adottata dall’Assemblea generale con la risoluzione n. 58/4 del 31 ottobre 2003 ed aperta alla firma dal 9 all’11 dicembre 2003 a Merida10 non è, a ben vedere, il primo intervento internazionale in materia.

Essa è anzi stata preceduta da altri accordi, parimenti significativi sul medesimo tema, quali ad esempio la Convenzione Ocse del 199711 o le due Convenzioni del Consiglio d’Europa del 199912. Quella ONU, però, oltre che per l’indiscussa autorevolezza dell’organizzazione internazionale che l’ha promossa, è considerata la principale in materia sia per il numero di Nazioni coinvolte (ben 186 Paesi l’hanno ratificata) sia, soprattutto, per avere individuato una strategia a tutto tondo da adottarsi da parte degli Stati aderenti, fondata non solo sulla repressione ma anche su strumenti di natura preventiva. Nella Convenzione è contenuto infatti un intero titolo, il secondo, dedicato esplicitamente alle misure  preventive, che consta di 10 articoli (in particolare gli artt. da 5 a 14) nei quali vengono esplicitati quegli strumenti considerati a livello internazionali vere e proprie best practices per evitare il verificarsi dei fatti delittuosi in esame13.

Fra essi, nell’art. 12 – riferito, come recita la rubrica, al “settore privato” – al par. 2, lett. e) si prevede, fra le misure suggerite14 agli Stati aderenti, “la prevenzione dei conflitti di interesse mediante l’imposizione, se del caso e per un periodo ragionevole, di restrizioni all’esercizio di attività professionali da parte di ex pubblici ufficiali e all’impiego, da parte del settore privato, di pubblici ufficiali dopo le loro dimissioni o il loro pensionamento, quando dette attività o detto impiego sono direttamente collegati alle funzioni che tali ex pubblici ufficiali esercitavano o supervisionavano durante il loro mandato”.

Nel par. 1, per tutte le misure previste dalla norma (e quindi anche per la regolazione del pantouflage) si raccomanda inoltre agli Stati di “prevedere delle sanzioni civili, amministrative o penali, efficaci, proporzionate e dissuasive in caso di inosservanza delle norme”. Nella sua apparente stringatezza, la disposizione sovranazionale fornisce comunque le coordinate minime per la regolazione dei singoli Stati.

In premessa, la norma pattizia individua con chiarezza la ratio dell’intervento, e cioè la necessità che attraverso di essa si prevengano quei conflitti fra l’interesse pubblico e quello individuale del funzionario, nella logica di sterilizzare i rischi di eventi corruttivi. Quanto al contenuto della disposizione da adottarsi, la strada individuata non è di impedire del tutto l’osmosi pubblico/privato ma di introdurre “restrizioni”, sia all’esercizio di attività professionali che all’impiego nel settore privato di chi ha svolto funzioni pubbliche.

Le restrizioni, però, dovranno essere limitate nel tempo (“un periodo ragionevole”), riferite a quei soli casi in cui vi sia stato un collegamento diretto con le attività pubblicistiche in precedenza svolte e accompagnate da un’adeguata sanzione. Si tratta con tutta evidenza di una road map per i legislatori nazionali, cui spetterà, in merito alle restrizioni da introdurre, l’esatta precisazione dell’an e del quomodo, oltre evidentemente agli strumenti per assicurare l’effettività delle prescrizioni15.

3. La normativa nazionale ante 2012

A differenza di quanto in qualche occasione si è letto e scritto, la legislazione nazionale non è stata del tutto assente in materia prima dell’adesione alla Convenzione di Merida. È invece intervenuta, sia pure in modo decisamente sporadico, introducendo in alcuni specifici settori dell’amministrazione “restrizioni” alla possibilità che funzionari pubblici potessero assumere impieghi alle dipendenze di privati. La dottrina le ha incasellate in un istituto da sempre utilizzato nell’ordinamento nazionale e cioè in quello della “incompatibilità”16.

Non può essere questa la sede per un esame completo della normativa pregressa17, ma è interessante ricordare come uno dei primi casi di limitazioni nei confronti di soggetti che hanno rivestito cariche pubbliche risale già agli anni ‘50 del precedente secolo, con una legge importante, nota come legge Sturzo dal nome del parlamentare che l’aveva voluta, e cioè la l. 15 febbraio 1953, n. 60, dedicata espressamente alle “incompatibilità parlamentari”. All’art. 6, in particolare, si stabilisce per chi ha rivestito funzioni di governo l’impossibilità di assumere, per un anno, una serie di cariche in alcuni enti (in particolare negli enti culturali, assistenziali o di culto, nelle Università o negli istituti di istruzione superiore), di esercitare o svolgere funzioni di amministratore, presidente liquidatore, sindaco, direttore generale o consulente legale in associazioni o enti che gestiscono servizi per conto dello Stato o della pubblica amministrazione o ai quali lo Stato contribuisce in via diretta o indiretta e, infine, di ricoprire cariche in istituti bancari o in società per azioni che operano in ambito finanziario. Gli accertamenti e le istruttorie sulle indicate incompatibilità sono di competenza della Giunta delle elezioni della Camera di appartenenza dell’ex parlamentare.

A questa ipotesi negli anni successivi, senza seguire una precisa logica, se ne sono aggiunte varie altre in quei settori in cui il legislatore evidentemente ha ritenuto necessaria una particolare tutela dell’imparzialità amministrativa. Le misure previste si sono soprattutto concentrate sugli ex funzionari pubblici, prevedendo un periodo cd. di raffreddamento, ovvero un divieto temporaneo, dalla durata differente a seconda dei casi, ad assumere uffici o svolgere attività professionali, ed accompagnato, in alcune ipotesi, anche da altre sanzioni di varia natura18.

In alcune disposizioni si sono fatte derivare conseguenze, parimenti dalla natura lato sensu sanzionatoria, anche per i privati che avevano offerto l’incarico o il lavoro19.

Le norme, proprio per la loro settorialità, non delineano un procedimento unitario per l’accertamento dell’incompatibilità né individuano un organo ad hoc avente la competenza a vigilare sul rispetto delle regole.

Sono infatti quasi sempre le stesse amministrazioni presso cui ha prestato l’opera il funzionario a controllare ed applicare le sanzioni20. È difficile dare un giudizio sul modo in cui l’impianto normativo pregresso ha funzionato, anche perché mancano dati numerici certi delle incompatibilità accertate21.

Non è tuttavia una semplice impressione la circostanza che – a eccezione per gli ex componenti del governo, la cui notorietà li espone a rischio di segnalazioni anche pubbliche di eventuali loro inosservanze – sia stato effettivamente svolto dalla prevista incompatibilità un ruolo più di monito preventivo che non di effettiva e concreta stigmatizzazione delle violazioni.

4. L’avvio della strategia di prevenzione

Per un lungo periodo l’Italia aveva adottato quale unica strategia di contrasto alla corruzione quella cd. repressiva, fondata su norme penali22; soltanto con queste ultime aveva dunque affrontato negli anni ’90 anche il più grande scandalo della sua storia (divenuto noto come “Tangentopoli” o “Mani pulite”), che aveva coinvolto una parte rilevante della classe dirigente del Paese.

 

Il cambio di passo in materia avviene nella fase finale della XVI legislatura, in particolare in concomitanza col governo tecnico presieduto dal sen. Mario Monti; nell’ambito di un pacchetto di riforme che avrebbe dovuto rilanciare il sistema economico e l’immagine internazionale del Paese25, il Governo decise di occuparsi anche di corruzione. Venne, a tal fine, recuperata una proposta di legge26, già approvata da un ramo del Parlamento (il cui obiettivo principale era dare concreta attuazione alle convenzioni internazionali in materia, fino a quel momento solo ratificate) e la si riscrisse in gran parte, grazie anche al lavoro di una commissione di studio istituita ad hoc27. Il percorso per l’approvazione fu comunque tortuoso28; i tanti articoli in precedenza licenziati (ben 27) furono fatti confluire, attraverso un maxiemendamento su cui fu posta la fiducia, in un unico, lunghissimo articolo di 83 commi29.

La legge 6 novembre 2012, n. 190 divenuta nota come legge Severino dal nome del Guardasigilli che se ne fece promotore, interviene (poco) sul versante penale30 e (molto di più) su quello preventivo, con l’introduzione di un ordito normativo che ha l’ambizione di porsi come un vero e proprio sistema, anche grazie a tre deleghe affidate al governo per completare il disegno riformatore31.

Pur con evidenti limiti nella tecnica legislativa, nella complessiva trama normativa è possibile cogliere tre direttrici di fondo, che caratterizzano il (neonato) sistema della prevenzione, individuato spesso, forse non senza un pizzico di retorica, come il “modello italiano”32.

Nello specifico, un primo piano di interventi si concentra sull’organizzazione delle attività amministrative, richiedendo alle amministrazioni pubbliche di svolgere un ruolo proattivo. A queste ultime, in particolare, si richiede non solo di individuare i rischi di corruzione che possono annidarsi nelle attività svolte ma anche di indicare le misure per prevenire i fatti delittuosi; entrambe queste attività devono essere delineate in un documento di natura programmatica, obbligatorio per tutti gli enti, il Piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC), che l’organo di vertice dell’amministrazione deve adottare su proposta del dirigente cui compete l’attuazione del Piano, il Responsabile della prevenzione della corruzione (RPC) e sulla scorta delle indicazione contenute nel Piano nazionale (il PNA) predisposto dall’ANAC33.

Un secondo livello di interventi previsto dalla legge Severino si struttura su un diverso rapporto fra amministrazione e cittadini; a questi ultimi i funzionari pubblici, sia elettivi che professionali, devono dar conto – principio che in inglese viene felicemente espresso col termine “accountability” – e sono costoro, quindi, che possono (e devono) controllare l’operato dell’amministrazione; in questa prospettiva è però necessario consentire ad essi – capovolgendo la logica della riservatezza dell’azione amministrativa – un’ampia conoscibilità delle attività svolte attraverso la massima trasparenza, ovvero mediante la piena accessibilità agli atti e alle informazioni pubbliche34.

Un terzo piano di interventi si rivolge, invece, al funzionario pubblico, ai suoi doveri e ai suoi comportamenti, con l’obiettivo di rafforzarne l’imparzialità, evitando in particolare situazioni in cui la presenza di interessi privati in conflitto con quelli pubblici possa trasformarsi in un rischio di eventi corruttivi35.

In funzione, infine, di assicurare il rispetto delle regole introdotte, è stato anche istituito un organismo ad hoc, l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), indipendente rispetto all’amministrazione, con il compito non solo di vigilare ma anche e soprattutto di stimolare le amministrazioni all’adempimento dei propri doveri36.

5. L’introduzione dell’istituto da parte della legge Severino

 

Nell’ambito delle misure per garantire l’imparzialità del funzionario non poteva non trovare spazio anche la regolamentazione del pantouflage, istituto che la Convenzione di Merida aveva espressamente indicato come funzionale proprio a prevenire i conflitti di interesse37.

La legge n. 190 del 2012, anche raccogliendo i suggerimenti del testo sovranazionale, supera la pregressa logica degli interventi settoriali ed introduce una disciplina di carattere generale, applicabile

tendenzialmente a tutti i funzionari pubblici, in coerenza con l’idea di fondo di un impianto della prevenzione valido per l’intera amministrazione38.

Vi dedica, in particolare, la (sola) lett. l) del comma 42, dell’art. 1, innestando un unico comma (il 16 ter), formato da due alinea, nell’art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, decreto intitolato “Norme generali

sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni” ed indicato in maniera impropria nella prassi come il testo unico dell’impiego pubblico.

La scelta del legislatore, di certo apprezzabile nel suo intento di dotare finalmente l’Italia di una regolamentazione della materia in linea con quella degli altri Paesi occidentali, nella sua declinazione concreta presta però il fianco a più di una criticità. Partendo dalla collocazione, risulta poco comprensibile, anche sul piano simbolico, perché una novità

normativa così importante finisca quasi per essere occultata in un capoverso di un lunghissimo articolo, che consta di altri 21 commi39 e che, fra l’altro, fa parte di un testo normativo che non si occupa né di contrasto alla corruzione né di conflitti di interesse, se non in misura del tutto marginale40. La stessa sedes materiae dell’articolo prescelto non pare inoltre molto coerente con la materia trattata. L’art. 53 del d.lgs. n. 165, la cui rubrica recita “incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”, è dedicato soprattutto alla delicata materia degli incarichi extra officio in funzione di garantire il principio, di rilevanza costituzionale (art. 98, comma 1 Cost.), di esclusività del rapporto con l’amministrazione dei funzionari, in special modo quelli professionali41. Alcune sue disposizioni sfiorano la tematica dei conflitti di interesse, che però resta sostanzialmente estranea e sullo sfondo della disciplina42.

Lo stesso inquadramento della regolamentazione del pantouflage fra le incompatibilità, pur apparendo in linea con la tesi tradizionale, desta più di un dubbio; se quest’ultima fattispecie si configura – secondo la dottrina e secondo le indicazioni oggi contenute in uno dei decreti legislativi attuativi delle deleghe della Severino, il d.lgs. n. 39 del 2013 – come il contemporaneo svolgimento di due impieghi, che impone l’opzione per uno43, la situazione di cui si occupa la norma è ben diversa.

Il soggetto che passa al mondo privato, infatti, la sua opzione l’ha già effettuata a monte lasciando l’impiego pubblico per passare al privato; e non è un caso che la dottrina più recente preferisca qualificare l’ipotesi contenuta nel comma 16-ter dell’art. 53 come “incompatibilità successiva”44. In realtà, la provenienza dal settore pubblico si configura per l’ex funzionario come una preclusione (sia pure a tempo) ad ottenere un incarico privato, circostanza che più che all’incompatibilità appare molto più affine ad altro istituto, per la prima volta enucleato dal d.lgs. n. 39 del 2013, e cioè l’inconferibilità45. Le critiche maggiori che si possono rivolgere alla nuova norma, però, si concentrano sul suo contenuto, eccessivamente stringato; troppi sono i nodi ermeneutici che un legislatore silente lascia da sciogliere all’interprete, al punto di rischiare di minare l’efficacia della novità, come si avrà modo di argomentare in seguito.

In realtà, la provenienza dal settore pubblico si configura per l’ex funzionario come una preclusione (sia pure a tempo) ad ottenere un incarico privato, circostanza che più che all’incompatibilità appare molto più affine ad altro istituto, per la prima volta enucleato dal d.lgs. n. 39 del 2013, e cioè l’inconferibilità45.

Le critiche maggiori che si possono rivolgere alla nuova norma, però, si concentrano sul suo contenuto, eccessivamente stringato; troppi sono i nodi ermeneutici che un legislatore silente lascia da sciogliere all’interprete, al punto di rischiare di minare l’efficacia della novità, come si avrà modo di argomentare inseguito.

6. Presupposti e condizioni delle “restrizioni

Il capoverso dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 in esame è distinto, come già evidenziato, in due alinea che trattano due diversi aspetti della disciplina.

Il primo individua i presupposti perché scattino le restrizioni ad assumere impieghi o incarichi nel settore privato. Stabilisce, in particolare, che “i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri”.

La disposizione appare in astratto coerente con la Convenzione di Merida, le cui prescrizioni intende nel concreto declinare46. In apertura, individua il “periodo di raffreddamento” che nel complesso è di sei anni; l’attività del funzionario di cui tener conto ai fini delle possibili restrizioni è quella del suo ultimo triennio nell’amministrazione e l’inconferibilità si estende ad un identico periodo post cessazione. Un termine di certo ragionevole perché non impone un sacrificio eccessivo all’ex dipendente pubblico,

non precludendo in via definitiva la collocazione nel settore privato, e fissa un periodo congruo entro il quale poter valutare le azioni considerate a rischio, in modo da rendere più difficile l’elusione dei divieti47.  Dal punto di vista soggettivo, la norma si riferisce ai dipendenti “delle pubbliche amministrazioni di cui

all’articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 165 del 2001”. Questo rinvio consente di individuare con una certa precisione il perimetro, sufficientemente ed opportunamente ampio, delle amministrazioni pubbliche destinatarie degli obblighi48. La lettera della norma del d.lgs. n. 165, con i riferimenti testuali ai “dipendenti” e alla “cessazione del rapporto di impiego pubblico”, appare però applicabile a quei soli soggetti che hanno con l’amministrazione un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, tenendo quindi fuori tutti coloro che operano in base ad un contratto di lavoro subordinato o autonomo ma a tempo determinato e che, proprio per la temporaneità del loro rapporto, possono essere persino più a rischio di condizionamenti esterni49.

Di questa evidente criticità, ci si è accorti quasi subito, tanto che a distanza di qualche mese dall’entrata in vigore della legge Severino è intervenuto il d.lgs. n. 39 del 2013 con un robusto correttivo50.  L’art. 21 del decreto, infatti, testualmente recita: “ai soli fini dell’applicazione dei divieti di cui al comma 16-ter dell’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, sono considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di uno degli incarichi di cui al presente decreto, ivi compresi i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo. Tali divieti si applicano a far data dalla cessazione dell’incarico”. La scelta adottata, condivisibile nella parte in cui intende sanare l’“incrinatura” normativa prodotta,

utilizzando la deprecabile tecnica del rinvio finisce però per estendere a dismisura, sebbene probabilmente senza intenzionalità, l’ambito di applicazione dei divieti, non valutando tutte le possibili ricadute concrete. I soggetti a cui è applicabile il d.lgs. n. 39 sono, infatti, individuabili in base all’art. 1 (che contiene le “definizioni”), ed in particolare attraverso le lett. i), j), k) ed l) del suo comma 2; si tratta, in particolare, dei titolari di “incarichi amministrativi di vertice”, di “incarichi dirigenziali interni”, di “incarichi dirigenziali esterni” e di “incarichi di amministratore di enti pubblici e di enti privati in controllo pubblico”51. Sui primi tre incarichi l’estensione appare del tutto giustificabile in relazione all’obiettivo perseguito; l’ultimo, invece, desta più di una perplessità, poiché finisce per equiparare ai dipendenti pubblici, sia pure ai limitati fini della norma in esame, soggetti al vertice di enti formalmente privati52, rendendo così applicabile anche nei loro confronti la disciplina del pantouflage53.

Una simile conclusione potrebbe essere in astratto condivisibile, atteso che queste entità operano a latere delle amministrazioni per la cura di interessi pubblicistici (e non a caso ad esse è applicabile la normativa anticorruzione54); il punto critico attiene tuttavia alle modalità dell’estensione che, senza una comprensibile logica, avviene a geometria variabile; le restrizioni di cui all’art. 53 si estendono, infatti, ai soli amministratori e non anche a tutte quelle altre figure, pure apicali, che spesso sono i titolari dei poteri decisori, come ad esempio i dirigenti.

Non basta, comunque, la mera qualifica formale perché scattino i limiti imposti dalla norma, essendo necessario che i soggetti in questione abbiano esercitato, nel triennio precedente, “poteri autoritativi o negoziali”. L’espressione legislativa è particolarmente generica e si presta ad una interpretazione ampia, tale da ricomprendervi di certo quei soggetti che emanano provvedimenti amministrativi per conto dell’amministrazione e/o perfezionano negozi giuridici attraverso la stipula di contratti in rappresentanza dell’amministrazione di appartenenza.

In essa possono tuttavia rientrare anche quegli coloro che – pur non esercitando tali poteri – sono competenti ad elaborare atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, certificazioni, perizie, etc.) che incidono sul contenuto del provvedimento finale, ancorché redatto e sottoscritto da altri; in pratica, tutti i dipendenti che con la loro attività contribuiscono alla determinazione del contenuto del provvedimento finale o delle scelte negoziali.55 Quanto, invece, ai destinatari dell’attività dei funzionari come sopra individuati, la norma si limita a definirli “soggetti privati”.

L’endiadi, anch’essa generica e a-tecnica, di sicuro si riferisce a quelle entità e a quei soggetti, persone giuridiche o fisiche, che non hanno connotati pubblicistici e agiscono iure privatorum (imprenditore individuali o in forma societaria, liberi professionisti, etc). 56

L’aggettivo “privato”, però, consente di applicare la disposizione anche a quegli enti che utilizzano forme privatistiche (società, fondazioni, associazioni, etc.) pur operando a latere delle amministrazioni nell’ambito pubblico, in quanto controllate o partecipate57.  In base alla lettera della legge, non sembra essere indispensabile che i soggetti privati siano stati effettivi destinatari di poteri autoritativi e negoziali, essendo sufficiente che essi lo siano anche solo potenzialmente; una diversa interpretazione, infatti, consentirebbe facili elusioni della disposizione, perché anche omettere un’attività può essere funzionale a favorire un soggetto esterno all’amministrazione 58.

Il divieto previsto consiste nella preclusione all’assunzione di incarichi che la norma individua come “attività lavorativa o professionale”; anche in questo caso si è in presenza di una espressione che consente una lettura molto ampia, tale da ricomprendervi ogni genere di incarico, sia di lavoro subordinato che autonomo, di consulenza o di attività di carattere professionale59. La lettera della norma, tuttavia, fa sorgere il dubbio se l’inconferibilità in esame operi anche nel caso in

cui l’offerta dell’incarico giunga durante lo svolgimento del rapporto di impiego con l’amministrazione e sia proprio a seguito di essa che il dipendente interrompa il rapporto con l’amministrazione. Escludere l’applicazione delle “restrizioni” in questo caso avrebbe, però, conseguenze irrazionali che favorirebbero facili elusioni; basterebbe anticipare, infatti, l’offerta dell’incarico a un momento immediatamente precedente la cessazione del rapporto per sterilizzare del tutto l’efficacia preventiva della disposizione60.

Ciò che conta ai fini della disposizione in esame, del resto, è che l’incarico sia assunto dopo avere cessato il rapporto dell’amministrazione e non il momento in cui è avvenuta l’offerta dello stesso.

7. Le sanzioni

Il secondo alinea del comma 16 ter, più volte citato, individua le conseguenze che derivano nel caso di inosservanza delle “restrizioni”, espressamente prevedendo che “i contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”.

Prima facie, la disposizione sembra introdurre un impianto sanzionatorio assai rigoroso, se non persino draconiano, ossequioso quindi delle indicazioni della Convenzione UNCAC che aveva richiesto per questa fattispecie “sanzioni …efficaci, proporzionate e dissuasive”.

La lettura più attenta della norma smentisce, però, la prima impressione, restituendo un quadro molto più problematico soprattutto sul piano dell’efficacia e della concreta capacità dissuasiva delle conseguenze punitive.

La prima delle tre sanzioni previste consiste nella nullità dei contratti conclusi e degli incarichi conferiti. La previsione della più grave delle patologie previste per i negozi giuridici privatistici – rientrante nella specie delle nullità cd testuali, ex art. 1418, comma 3, c.c. 61– è giustificata dall’essere il contratto concluso in violazione di norme qualificabili come imperative, in quanto poste a tutela di un interesse generale dell’amministrazione quale l’imparzialità dei propri funzionari62.

 

Con la seconda, invece, si irroga il “divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni”.

Si tratta di una pena amministrativa rientrante nella tipologia di quelle a carattere interdittivo, che impediscono cioè lo svolgimento di singole attività ai soggetti che ne sono colpiti 63.

La norma, tuttavia, nella sua eccessiva sinteticità lascia aperti numerosi interrogativi. Il primo riguarda i possibili destinatari dell’interdizione; nella generica dizione “soggetti privati” rientrano di certo coloro che hanno instaurato un rapporto di impiego con l’ex funzionario; ma anche quest’ultimo, a ben vedere, potrebbe essere ricompreso, poiché non rivestendo più un incarico pubblico è ormai considerabile un privato64. favore di questa lettura sembrerebbe, fra l’altro, militare anche l’utilizzo del plurale, che, in questo

senso, si riferirebbe ad entrambe le parti del contratto stipulato. Se, però, si tiene conto che anche nel prima alinea del comma si parla già di “soggetti privati” (e lì l’endiadi appare inequivocabilmente indirizzata a coloro che offrono l’impiego al già dipendente pubblico) si può, di conseguenza, leggere allo stesso modo l’espressione del secondo alinea; ovvero, solo a chi mette a disposizione l’incarico privato è applicabile la pena in esame. L’aspetto più problematico riguarda a ogni modo l’estensione della misura interdittiva; se cioè l’impossibilità di contrattare riguarda la sola amministrazione da cui proviene il funzionario o tutte le amministrazioni. L’assenza di una indicazione nella norma che consenta di circoscrivere gli enti cui ritenere applicabile il divieto e l’utilizzo del plurale “amministrazioni”, impongono di considerare l’inibizione estesa a tutte le amministrazioni65.

Le conseguenze che derivano dalla proposta lettura sono, però, eccessivamente limitative delle facoltà del privato; costui a stretto rigore non potrebbe avere nessun rapporto contrattuale con amministrazioni e non potrebbe procedere nemmeno alla stipula di accordi per ottenere l’erogazione di pubblici servizi.

Per evitare questa conseguenza, decisamente sproporzionata in relazione al comportamento censurato, l’unica strada percorribile può essere attingere alle norme del codice penale che si occupano della fattispecie, analoga circa gli effetti ed il contenuto a quella della legge Severino, della pena accessoria dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione (artt. 32-ter e 32-quater c.p.)66.

In quel caso, il divieto non viene esteso ex lege ai contratti per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio (art. 32 ter, comma 1, ultima parte, c.p.); questa salvezza, in quanto norma in bonam partem, potrebbe estendersi per analogia al caso di cui ci si occupa.

L’ultima questione riguarda, infine, l’entità della misura ed in particolare la possibilità di graduare il tempo dell’interdizione in relazione all’effettiva gravità del comportamento tenuto; è di sicuro più grave offrire una consulenza milionaria ad un ex funzionario, rispetto, ad esempio, ad un incarico professionale di scarso valore economico.

Applicare in entrambe le situazioni l’interdizione triennale potrebbe essere contrario all’esigenza di proporzionalità di una sanzione che comunque è assai afflittiva nelle sue conseguenze.

L’indicazione normativa, con la previsione di una pena fissa, non sembra però consentire, de iure condito, alcuno spazio di valutazione discrezionale del quantum e tale profilo rischia di rendere la disposizione di dubbia costituzionalità per contrasto ai principi di ragionevolezza e parità di trattamento derivanti dall’art. 3 Cost.

La terza sanzione, infine, è quella che comporta la “restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”. L’utilizzo della parola “restituzione” consente ragionevolmente di escludere che quella configurata dal legislatore possa essere una sanzione amministrativa, trattandosi piuttosto di un’obbligazione di natura civilistica che consegue da un fatto illecito67.

E proprio in questa prospettiva essa appare di difficile giustificazione, oltre che di dubbia applicabilità.

Non si comprende, in primo luogo, perché l’ex funzionario dovrebbe restituire i compensi a chi glieli avevi dati; se entrambe le parti hanno posto in essere un comportamento vietato, non si spiega perché il “privato” debba ottenere un beneficio indebito, avendo comunque già ricevuto una prestazione lavorativa o professionale, per quanto non lecita.

La restituzione integrale del compenso non sembra inoltre compatibile con le norme del diritto civile; contrasta con l’art. 2126 (secondo cui “la nullità … del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della

causa”)68 e comunque con il principio generale del divieto di illecito arricchimento, sancito dall’art. 2041 c.c.69

L’aspetto più problematico dell’impianto sanzionatorio costruito dalla legge Severino sta, però, nell’assenza di qualsivoglia indicazione su chi e come debba accertare le violazioni dei divieti ed irrogarele relative sanzioni.

Si tratta di una carenza che rischia di rendere del tutto ineffettiva la nuova disciplina, in contrasto, fra l’altro, con le precise raccomandazioni sul punto della Convenzione UNCAC.

L’omissione risulta ancor più irrazionale se si tiene conto che comunque il neonato sistema della prevenzione della corruzione ha previsto l’istituzione di un’Autorità ad hoc (l’ANAC) con il compito precipuo proprio di garantire l’applicazione delle misure preventive70.

All’ANAC, invece, in materia risulta attribuito soltanto un pur importante potere consultivo facoltativo, dall’art. 1 comma 2, lett. e) della legge 19071.

Allo stato, si potrebbe ritenere la carenza parzialmente compensata dalla circostanza che due delle tre sanzioni previste, per la loro natura civilistica, possono essere oggetto di azione, anche in giudizio, da parte dei soggetti a cui il codice civile riconosce il potere; la nullità, ex art. 1421 c.c., può essere, infatti, fatta valere da chiunque vi abbia interesse; la restituzione può essere richiesta dal privato interlocutore dell’ex funzionario.

Si tratta di una soluzione comunque insoddisfacente perché, a parte la scarsa probabilità concreta che qualcuno eserciti le azioni, resta del tutto inapplicabile ai dipendenti la più significativa e rilevante sanzione, quella di natura interdittiva.

8. Considerazioni conclusive

A conclusione della breve disamina effettuata è possibile tirare le somme per svolgere qualche considerazione conclusiva a margine.

La regolazione del pantouflage si è rivelata ad oggi un innesto nell’ordinamento alquanto difficoltoso, di certo più di quanto fosse lecito immaginare.

Per restare alla metafora arborea, il ramo non sembra essersi adeguatamente sviluppato e ciò è dipeso dalla fretta con cui il legislatore ha approvato nel 2012 la normativa, che non ha consentito, in quel momento storico, di apprezzare tutti i profili problematici che la disposizione avrebbe potuto manifestare in concreto. Nel corso, però, di questi sette anni dall’entrata in vigore della legislazione anticorruzione è cresciuta nel Paese, anche e soprattutto grazie allo sforzo legislativo fatto all’epoca, una nuova cultura della prevenzione della corruzione e, di conseguenza, dell’importanza di preservare l’imparzialità del funzionario da ogni genere di conflitto di interessi72. La stessa norma di cui all’art. 53, comma 16 ter del d.lgs. n. 165 del 2001 è stata oggetto comunque di non irrilevanti applicazioni, grazie al potere consultivo dell’ANAC e alle indicazioni contenute nei vari PNA adottati73. La regolamentazione del pantouflage è inoltre entrata nel regime dei contratti pubblici, essendo stata prevista nei bandi-tipo una specifica clausola che impone ai soggetti che partecipano alle gare pubbliche

l’obbligo di dichiarare di non essere incorsi nei divieti previsti dalla norma74.

È evidente, però, la necessità che la disposizione esaminata sia fatta segno di un robusto “tagliando”. È auspicabile che il legislatore prossimo venturo, nell’ambito di una possibile stesura di un testo unico della normativa sulla prevenzione della corruzione, riconosca all’istituto una sua dignità autonoma, estrapolandola dal d.lgs. n. 165 del 2001, con una regolamentazione più diffusa che si occupi ex professo di tutti i problemi emersi nell’applicazione pratica. Con la riforma dovrebbe anche essere rivisto l’impianto sanzionatorio, rendendolo adeguato alle indicazioni sovranazionali e individuando chi debba accertare le violazioni ed irrogare le sanzioni. In questa prospettiva, l’opzione certamente preferibile sarebbe quella che se ne occupi un unico organo, in modo da garantire anche l’uniformità di trattamento, attraverso un procedimento strutturato con il rispetto delle garanzie del contraddittorio e dei diritti di difesa dei soggetti coinvolti. Vi è anche un’ultima esigenza che pure sarebbe opportuno venisse tenuta presente in un futuro intervento riformatore: l’opportunità di superare le discipline settoriali del pantouflage. Ad oggi l’interprete, fra i tanti dubbi ermeneutici, dovrebbe anche scioglierne uno ulteriore, e cioè quale disposizione applicare in quegli ambiti, sia pure numericamente limitati, che godono di una normativa speciale della disciplina del post employment75Potrebbe, infatti, optare per la tesi di ritenere le pregresse norme superate per abrogazione implicita o, al contrario, ancora vigenti, come sembrerebbe preferibile, e quindi le uniche applicabili in caso di assunzioni di incarichi nel settore privato, in quanto norme speciali resistenti anche all’entrata in vigore di leggi successive. Sarebbe opportuno, per evitare un’eccessiva frammentazione della disciplina, riportare le eventuali normative settoriali sotto un unico cappello legislativo, eventualmente prevedendo, in relazione alla peculiarità di alcune funzioni pubbliche rivestite, regole ad hoc su singoli aspetti, quale ad esempio una diversa modulazione temporale del periodo di raffreddamento. Nel complesso è possibile affermare che la posta in gioco – rappresentata dall’esigenza di garantire l’imparzialità dei funzionari pubblici e prevenire i rischi di uno sviamento dell’azione amministrativa a fini personali – è troppo alta perché non si ponga un correttivo ad una normativa per il resto oltremodo avanzata.

 

Sull’origine del termine pantouflage, utilizzata nel gergo in uso all’École polytechnique, si v. C. Pepe, Lo “strano caso” dell’art. 53 c. 16 ter del d.lgs. 165/01: criticità tra anticorruzione ed efficienza della legge, in Federalismi.it, 13 settembre 2017, p. 1

Nel senso che anche in Italia le due “locuzioni esterofile” vengono utilizzate per far riferimento al passaggio degli alti funzionari statali a ditte private, D. Andracchio, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, in www.giustamm.it, Settembre 2016, p. 3

In termini analoghi, B.G. Mattarella “Il pantouflage in Francia: i rapporti d’attività delle Commissions de déontologie delle fonctions publiques, in Riv. trim. dir. pubblic. 2004, p. 623 secondo cui le “imprese possono essere attratte, oltre che dalla qualità professionale dei funzionari, dalle loro conoscenze riservate e dalla rete di relazioni da essi intessute per ragioni di ufficio; i funzionari possono essere indotti a favorire indebitamente le imprese presso le quali aspirano ad avere .. un rapporto di lavoro o di collaborazione”; secondo, B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., in AA.VV., La legge anticorruzione, a cura di B. G. Mattarella, M. Pellisero, Giappichelli, 2013, p. 186 la regolazione del pantouflage mira a scongiurare che la promessa futura di un posto di lavoro possa essere il prezzo di favori fatti durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.

A questo specifico rischio fa esplicito riferimento l’ANAC con l’Aggiornamento al PNA 2018 (approvato con delibera n.

1074 del 22 novembre 2018, in www.anticorruzione.it), in cui viene dedicato un intero paragrafo all’argomento, in particolare il n. 9, intitolato “Il pantouflage”; per maggiori riferimenti al contenuto sul punto del PNA si v. M. Lucca, Poteri decisionali e inconferibilità successiva (c.d. pantouflage), in www.lexItalia, 3 novembre 2018, p. 2

Per maggiori dettagli all’esperienza francese e all’evoluzione della normativa in quell’ordinamento, B.G. Mattarella “Il pantouflage in Francia: i rapporti d’attività delle Commissions de déontologie delle fonctions publiques, cit., p. 624; per riferimenti ad altre esperienze normative si v. Dossier Camera dei deputati, Conflitto di interessi e cariche di governo in Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti (A.C. 275, A.C. 1059, A.C. 1382) in www.camera.itper riferimenti all’esperienza giapponese, C. Pepe, Lo “strano caso” dell’art. 53 c. 16 ter del d.lgs. 165/01: criticità tra anticorruzione ed efficienza della legge, cit., p. 3, n. Sull’approccio preventivo fondato sul “rischio corruzione” si v. E. Carloni, L’anticorruzione fra prevenzione, manette e buon senso, in www.penalecontemporaneo.it, 4 marzo 2019, p. 2 e, sia consentito il rinvio, R. Cantone, E. Carloni, Corruzione ed anticorruzione. Dieci lezioni, Feltrinelli, 2018, p. 82

Il conflitto di interessi è un concetto che è trasversale ai vari settori del diritto; ad esso fa riferimento, nel nostro ordinamento, il diritto civile (in materia di rappresentanza di interessi, di condominio degli edifici e, soprattutto, societaria) il diritto penale (con fattispecie punitive in materia di reati societari o reati “comuni”, come l’abuso di ufficio), oltre che il diritto pubblico ed amministrativo (sul punto, per maggiori riferimenti, A. Lalli, Conflitti di interessi nel diritto privato e nel diritto pubblico. Una rassegna,  in Riv. trim. dir. pubbl., 2016, p. 155). Una definizione dell’endiadi capace, di essere considerata valida in tutti gli ambiti, viene fornita in assenza di una indicazione normativa soprattutto dalla giurisprudenza (”un contrasto di interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di istituzionale ed un altro di tipo personale”; così Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2012, n. 3133 ed in termini analoghi, Cass. civ., sez. II, 18 maggio 2001, n. 8853, CED Cass. n. 546804-01). La considerazione che il conflitto di interessi nel settore pubblico sia uno dei principali fattori di rischio per l’imparzialità dei funzionari e per possibili fatti corruttivi è ormai dominante in dottrina; ex plurimis, S. Frego Luppi, L’obbligo di astensione nella disciplina del procedimento dopo la legge n. 190 del 2012, in Dir. amm., 2013, p. 671

La parte fra virgolette è tratta dal preambolo della Convenzione ONU

10 La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la legge 3 agosto 2009, n. 116.

11 La Convenzione è stata promossa dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ed approvata il 17 dicembre 1997 a Parigi ed ha ad oggetto la corruzione nelle transazioni internazionali; ad oggi è stata ratificata da 44 Paesi e l’Italia vi ha provveduto con la legge 29 settembre 2000, n. 300.

12 Le Convenzioni penale e civile contro la corruzione sono state promosse dal Consiglio d’Europa, adottate a Strasburgo

rispettivamente il 27 gennaio ed il 4 novembre 1999 e ratificate da 45 Paesi; l’Italia lo ha fatto con le leggi 28 giugno 2012, n. 110 e 112.

13 Il capo si apre con una disposizione che, pur non definendo esplicitamente cosa sia la prevenzione, né indicando un modello vincolante per gli stati, lasciati invece liberi di individuarlo “conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico”, individua alcuni aspetti della strategia preventiva, in particolare, gli obiettivi da perseguire (“la buona gestione degli affari pubblici”, l’“integrità” e la “responsabilità”) ed alcuni mezzi da utilizzare (la “trasparenza” e soprattutto “la partecipazione della società”) (l’art. 5); le disposizioni successive, invece, prevedono, in estrema sintesi, la creazione di uno o più organi deputati ad occuparsi della prevenzione, dotati di specifiche caratteristiche per garantire l’indipendenza e l’efficacia dell’azione (art. 6); l’adozione, il mantenimento ed il rafforzamento di un sistema di assunzione e gestione del personale appartenente alla Pubblica amministrazione incentrato sui principi di efficacia, trasparenza di valutazione del merito, equità retributiva (art. 7); l’adozione di norme e/o codici di condotta utili a favorire l’integrità, l’onestà e la responsabilità dei propri funzionari pubblici, nonché di misure disciplinari efficaci per il caso di violazioni di queste disposizioni (art. 8, c. 1, 2 e 6); l’adozione di misure utili a favorire la segnalazione da parte dei funzionari pubblici di condotte di corruzione delle quali si venga a conoscenza nell’esecuzione delle proprie funzioni (art. 8, c. 4); la predisposizione di misure che obblighino i dipendenti pubblici a dichiarare doni o vantaggi di natura sostanziale che potrebbero determinare situazioni di conflitto di interesse (art. 8, c. 5); l’adozione di un sistema di contratti pubblici ed, in generale, di gestione delle risorse pubbliche, basato sui principi di trasparenza, concorrenza, di efficacia e di efficienza (art. 9); l’accoglimento del principio di trasparenza in tutta la P.A., attraverso la previsione di un diritto di accesso alle informazioni sull’organizzazione, il funzionamento ed i processi decisionali, la semplificazione delle procedure, la pubblicazione di informazioni (art. 10); la previsione di regole idonee a garantire l’integrità e l’indipendenza dell’apparato giudiziario (art. 11); l’estensione al settore privato di misure di prevenzione della corruzione (art. 12); la promozione della partecipazione della società civile nell’azione di prevenzione della corruzione (art. 13); l’adozione di misure  volte a prevenire il riciclaggio di denaro (art. 14); così, N. Parisi, Il contrasto alla corruzione e la lezione derivata dal diritto internazionale: non solo repressione, ma soprattutto prevenzione, in Dir. com. e sc. intern. 2016, p. 191.

14 Nella Convenzione si possono distinguere misure imposte agli Stati aderenti (e per esse la norma internazionale di riferimento utilizza il verbo all’indicativo) e misure, invece, solo raccomandate (in questo caso le norme utilizzano il verbo all’infinito accompagnato dall’ausiliare “possono”). Nel paragrafo 2 dell’art. 12 vengono enumerate una serie di misure che gli Stati “possono includere” per il raggiungimento degli obiettivi indicati nel par. 1 (prevenire la corruzione del settore privato, rafforzare le norme in materia di contabilità e di revisione dei conti); si tratta di misure che vengono quindi solo raccomandate e fra esse è inclusa anche quella relativa alla regolazione del pantouflage.

15 Per ulteriori riferimenti alla norma convenzionale, C. Pepe, Nuovi appunti sul divieto di pantouflage (art. 53 c.16-ter del D. Lgs. 165/01): tra origini, figure affini e frontiere giurisprudenziali, in www.giustamm.it, febbraio 2009, p. 2.

16 Nel senso dell’inquadrare, ad esempio, l’ipotesi di cui all’art. 6 della legge n. 60 del 1953 fra le incompatibilità, si v. V. Di

Ciolo, voce Incompatibilità, in Enc. dir., vol. XXI, 1971, p. 59.

17 Senza alcuna pretesa di esaustività, oltre all’ipotesi di cui all’art. 6 della l. 15 febbraio 1953 n.60, si ricordano gli artt. 49 del

d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 e 63 del d.P.R, 29 settembre 1973, n. 600 che riguardano soggetti che hanno fatto parte dell’amministrazione finanziaria o della guardia di finanza; l’art. 22 della l. 9 luglio 1990, n. 185 (recante “Nuove norme sul

controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”) relativo ai dipendenti pubblici civili e militari, preposti a qualsiasi titolo all’esercizio di funzioni amministrative connesse all’applicazione della legge; l’art. 4 del d.lgs. 12 febbraio 1993 n. 39, ora abrogato, relativo ai componenti del CNIPA; l’art. 2, comma 9, della legge 14 novembre 1995, n. 481 relativa agli ex componenti o ex dirigenti delle Autorità di regolazione, cessati dall’incarico (ipotesi che è stata oggetto di ampie modifiche da parte dell’art. 22 del d.l. n. 90 del 2014); l’art. 2 della legge n. 20 luglio 2004, n. 215 del 2004 relativo ai titolari di cariche di governo; per maggiori riferimenti si si v. M. Calcagnile, Inconferibilità amministrativa e conflitti di interesse, Bup, 2017, p. 84 e C. Pepe, Nuovi appunti sul divieto di pantouflage, cit., p. 4

18 L’art. 63 del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede, ad esempio, per i dipendenti dell’amministrazione finanziaria, oltre al divieto di esercitare funzioni di assistenza e di rappresentanza presso gli enti impositori e davanti le commissioni tributarie per un periodo di due anni dalla data di cessazione del rapporto d’impiego, anche la sanzione amministrativa da euro mille a euro cinquemila; l’art. 2, comma 9 della l. n. 481 del 1985 prevede una sanzione pecuniaria a carico degli ex componenti dell’autorità di regolazione per i servizi di pubblica utilità che può arrivare quale massimo al corrispettivo percepito o comunque alla somma di 500 milioni di lire.

19 L’art. 22 della l. n. 185 del 1990 stabilisce, in particolare, la sospensione per due anni dal registro nazionale delle imprese abilitate al commercio estero di armamenti che abbiano assunto ex dipendenti in violazione dei divieti stabiliti; l’art. 2, comma 9 della l. n. 481 del 1985 prevede a carico dell’imprenditore che abbia violato il divieto la sanzione pecuniaria pari allo 0,5 % del fatturato e comunque non inferiore a 300 milioni di lire e non superiore a 200 miliardi, a cui si aggiunge, nei casi più gravi, la revoca dell’atto concessivo o autorizzativo.

20 A titolo esemplificativo, era l’amministrazione finanziaria nell’ipotesi di cui all’art. 63 del del d.P.R. n. 600 del 1973 ad irrogare la sanzione pecuniaria; pur in assenza di una indicazione esplicita, era invece certamente il Ministero della difesa a disporre la sospensione dal registro nazionale delle imprese abilitate al commercio estero di armamenti

21 In dottrina, C. Pepe, Nuovi appunti sul divieto di pantouflage, cit., p. 4 con riferimento alla l. n. 185 del 1990 evidenzia come della norma non risultino concrete applicazioni.

22 Così, M. Clarich, B.G Mattarella, La prevenzione della corruzione” in AA.VV, La legge anticorruzione (a cura di B.G. Mattarella – M. Pelissero), cit., p. 61; in termini analoghi B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione: i profili amministrativistici, in AA.VV., Il contrasto alla corruzione nel diritto interno e nel diritto internazionale, (a cura di A Del Vecchio, P. Severino)Cedam, 2015, p. 301.

23 Sulla difficoltà di far emergere i fatti corruttivi, ex plurimis, N. Fiorino, E Galli, La corruzione in Italia, Il Mulino, 2013, 17; sulle questioni, invece, che attengono alla misurazione della corruzione, sia permesso il rinvio a R. Cantone, E. Carloni, “Percezione” della corruzione e politiche anticorruzione, in www.penalecontemporaneo.it, 18 febbraio 2019, p. 1 ss 24 Possono essere considerate in questa prospettiva l’istituzione dell’Alto commissario per la prevenzione della corruzione (art.1 della legge 16 gennaio 2003, n. 3) o l’avvio del programma della trasparenza con l’attribuzione da parte del D.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, alla Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT), di alcune competenze nella materia della trasparenza e del contrasto alla corruzione.

25 Sul contesto politico-sociale nel quale maturò la legislazione anticorruzione, G. Leotta, Introduzione generale al fenomeno, in AA.VV., Riflessioni in tema di lotta alla corruzione, (a cura di M. Nunziata), Carocci, 2017, p. 29.

26  Il disegno di legge A.S. n. 2156, “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella

pubblica amministrazione”.

27 Ci si riferisce alla “Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione”, costituita con decreto del 23 dicembre 2011 dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi e coordinata dal suo capo di gabinetto, il consigliere di Stato Roberto Garofoli. La commissione ha poi prodotto un rapporto conclusivo dal titolo “La corruzione in Italia. Per una politica di prevenzione. Analisi del fenomeno, profili internazionali e proposte di riforme”.

28 Il testo originariamente approvato al Senato, fu approvato con modifiche alla camera il 14 giugno 2012, poi nel ritorno al

Senato fu approvato il 17 ottobre 2013 nel testo attuale riformulato con il maxiemendamento, per poi essere definitivamente

licenziato dalla Camera il 31 ottobre; sull’evoluzione dell’originario disegno, F. Merloni, La legge anticorruzione e le garanzie dell’imparzialità dei pubblici funzionari, in AA.VV., Corruzione: strategie di contrasto, in (a cura di F. Cingari), Firenze University press,

2013, p. 11.

29 La legge consta di due articoli, ma l’art. 2 contiene la sola clausola di invarianza finanziaria con la previsione, al comma 1,

che “dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica” e al

comma 2 che “le amministrazioni competenti provvedono allo svolgimento delle attività previste dalla presente legge con le

risorse umane, strumentali e finanziarie, disponibili a legislazione vigente”. In senso critico rispetto alla legge, P. Clarizia,

L’ambito soggettivo di applicazione della normativa anticorruzione, in Nunziata (a cura di), Riflessioni in tema di lotta alla corruzione, Carocci,  2017, p. 40 che evidenzia come essa disciplina istituti e plessi normativi radicalmente diversi non necessariamente collegati alla materia dell’anticorruzione.

30 Con i commi da 75 a 80 dell’art. 1 della legge 190 si interviene su alcune norme del codice penale, introducendo la corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318), l’induzione indebita (art. 319 quater), il traffico di influenze illecite (art. 346 bis) ed incrementando le pene edittali di quasi tutte le altre fattispecie di reati contro la P.A.

31 A seguito delle deleghe contenute nella l. n. 190 del 2012 sono stati approvati il d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (“Testo

unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi”), il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (“Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”) ed il d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39, (“Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico”).

32 Nel senso che sono tre gli assi portati della strategia anticorruzione, F. Merloni, La legge anticorruzione e le garanzie

dell’imparzialità dei pubblici funzionari, cit., p. 15; in termini analoghi anche, sia consentito il rinvio, R. Cantone, Il contrasto alla corruzione. Il “modello italiano”, in www.penalecontemporaneo.it, 2 ottobre 2018, p. 5.

33 Le norme relative a questo primo piano di interventi sono contenute in vari commi dell’art. 1 della l. n. 190 del 2012, molti dei quali oggetto di modifiche ed integrazioni da parte del d.lgs. 25 maggio 201, n. 97; disposizioni in materia, però, si individuano anche in altre leggi; ad esempio nel d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014 n. 114 (cd

decreto Madia) è contenuta, nell’art. 14, la norma che prevede la sanzione pecuniaria per il caso della mancata adozione dei piani di prevenzione.

34 La disciplina della trasparenza è sostanzialmente tutta contenuta nel d.lgs. n. 33 del 2013, significativamente emendato dal d.lgs. n. 97 del 2016, un testo unico che nella pratica viene per questa ragione definito codice della trasparenza

35 Le disposizioni che sono riconducibili a questo terzo piano di interventi sono sparse in varie leggi; alcune sono rimaste nella l. n. 190 del 2012; altre sono confluite nel d.lgs. n. 165 del 2001 (su cui v. infra), altre sono contenute nel d.lgs. n. 39 del 2013.

36 L’introduzione di un organo che avrebbe dovuto occuparsi della prevenzione della corruzione è imposta dall’art. 6 della Convenzione UNCAC ed a questo specifico articolo della Convenzione fa riferimento il comma 1 dell’art. 1 della l. n. 190 del 2012 come fonte di innesco dell’intera normativa. Le disposizioni, però, relative all’Autorità anticorruzione sono disseminate in numerose norme; oltre alla l. n. 190 del 2012 si reperiscono, fra le altre, soprattutto nel d.l. n. 90 del 2014, nel d.lgs. 27 ottobre 209, n. 150.

37 La dottrina è concorde nel ritenere che le regole del pantouflage sono strumentali a sterilizzare conflitti di interesse; ex

plurimis, G. Iudica, Il conflitto di interessi nel diritto amministrativo, Giappichelli, 2016, p. 131 secondo cui il conflitto di interessi che si vuole in questo caso evitare è meramente ipotetico: si vuole, infatti, garantire l’integrità del funzionario ed eliminare qualsiasi sospetto della collettività sul suo operato, ipotizzando che l’accettazione di un certo incarico successivamente all’esercizio delle sue funzioni sia una ricompensa per non averle esercitate imparzialmente.

38 Nel senso che alla norma della legge Severino va riconosciuto il “merito” di aver generalizzato per la pressoché totalità del mondo pubblico la regolamentazione del pantouflage, C. Pepe, Nuovi appunti sul divieto di pantouflage, cit., p. 6

39 L’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 consta formalmente di 16 commi, a cui si aggiungono alcuni commi “bis” (1-bis, 3–bis, 7– bis, 16– bis) ed un “ter” (appunto il 16-ter).

40 Nel d.lgs. n. 165 del 2001, la legge Severino ha innestato vari strumenti riconducibili alla prevenzione della corruzione, quali, ad esempio, alcuni limiti agli incarichi extra officio di cui al medesimo art. 53, la disciplina del cd whistleblower nel nuovo art. 54 bis o i codici di comportamento, nel completamente riscritto art. 54.

41 In termini parzialmente diversi, B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., cit., p. 185 secondo cui la disciplina recata dal comma 16-ter dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 indirettamente completa il quadro dei meccanismi a presidio della dedicazione esclusiva del funzionario, non occupandosi, però, dell’attuale sottrazione delle energie lavorative (come avviene per gli altri istituti regolati nello stesso articolo) ma delle interferenze/condizionamenti che non sono coincidenti con il periodo di servizio.

42 L’espressione “conflitto di interessi” è, in particolare, contenuta nei commi 5 e 7 (ed inserita in essi espressamente proprio dalla legge Severino) come uno dei limiti di cui l’amministrazione deve tener conto al momento dell’autorizzazione di incarichi extra officio

43 In questo senso, ex plurimis, F. Merloni, Istituzioni di diritto amministrativo, III ed., 2018, Giappichelli, p. 133; l’art. 1, comma 2, lett. h) del d.lgs. n. 39 del 2013 definisce l’“incompatibilità” sia pure limitatamente all’applicazione delle norme del medesimo d.lgs, come “ l’obbligo per il soggetto cui viene conferito l’incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di quindici giorni, tra la permanenza nell’incarico e l’assunzione o lo svolgimento di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, lo svolgimento di attività professionali ovvero l’assunzione della carica di componente dio organi di indirizzo politico”

44 Nel senso che le misure che regolano il pantouflage rientrino fra le ipotesi di incompatibilità successive, si v. ex plurimis, M. Calcagnile, Inconferibilità amministrativa e conflitti di interesse, cit., p. 86; M. Lucca, Poteri decisionali e inconferibilità successiva (c.d. pantouflage), cit., p. 2

45 L’art. 1, comma 2, lett. g), del d.lgs. n. 39 del 2013 definisce l’“inconferibilità” sia pure limitatamente all’applicazione delle

norme del medesimo d.lgs., come “ la preclusione, permanente o temporanea, a conferire gli incarichi previsti dal presente decreto a coloro che abbiano riportato condanne penali per i reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o svolto attività professionali a favore di questi ultimi, a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico”; per maggiori riferimento all’istituto dell’inconferibilità, ex plurimis, F. Merloni, Il regime delle inconferibilità e incompatibilità nella prospettiva dell’imparzialità dei funzionari pubblici, in Giorn dir. amm., p. 806 ss.

46 Nel senso invece che la norma nazionale si differenzierebbe su molti aspetti da quella sovranazionale, C. Pepe, Nuovi appunti sul divieto di pantouflage, cit., p.4

47 A conclusioni analoghe, D. Andracchio, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, cit., p. 9.

48 Il capoverso dell’art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le

amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed

amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane. e loro

consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria,

artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale”.

49 Così, B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., cit., p. 188

50 In senso adesivo rispetto alla scelta del legislatore, B. Ponti, La vigilanza e le sanzioni, in Giorn dir. amm. 2013, p. 826

51 Il comma 2 dell’art. 1 definisce, in particolare, con la lett. i) agli «incarichi amministrativi di vertice» (“gli incarichi di livello

apicale, quali quelli di Segretario generale, capo Dipartimento, Direttore generale o posizioni assimilate nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto privato in controllo pubblico, conferiti a soggetti interni o esterni all’amministrazione o all’ente che conferisce l’incarico, che non comportano l’esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione”), con la lett. j) agli «incarichi dirigenziali interni» (“gli incarichi di funzione dirigenziale, comunque denominati, che

comportano l’esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione, nonché gli incarichi di funzione dirigenziale nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, conferiti a dirigenti o ad altri dipendenti, ivi comprese le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, appartenenti ai ruoli dell’ amministrazione che conferisce l’incarico ovvero al ruolo di altra pubblica amministrazione), con la lett. k) agli «incarichi dirigenziali esterni» (“gli incarichi di funzione dirigenziale, comunque denominati, che comportano l’esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione, nonché gli incarichi di funzione dirigenziale nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione,

conferiti a soggetti non muniti della qualifica di dirigente pubblico o comunque non dipendenti di pubbliche amministrazioni”; con la lett. l) agli «incarichi di amministratore di enti pubblici e di enti privati in controllo pubblico» (“gli incarichi di Presidente con deleghe gestionali dirette, amministratore delegato e assimilabili, di altro organo di indirizzo delle attività dell’ente, comunque denominato, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico”).

52 La categoria degli «enti di diritto privato in controllo pubblico» è pure definita dalla lett. c) del comma 2 dell’art. 1 del d.lgs.

n. 39 del 2013 ( “le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di

beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi

dell’articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche

amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi”).

53 A queste conclusioni è giunta più volte l’ANAC che, in particolare, con delibera n. 766 del 5 settembre 2018, in

www.anticorruzione.it, ha ritenuto che si applicasse l’art. 53 comma 16 ter all’amministratore delegato di una società in house al ministero della difesa che aveva ricevuto un’offerta di lavoro da una società privata che aveva avuto rapporti contrattuali con la società pubblica medesima; alle stesse conclusioni, è giunto con la delibera n.647 del 10 luglio 2019 in www.anticorruzione.it, relativamente ad una società in house della RAI, sia pure precisando che i divieti di cui all’art. 53 sono destinati ad operare con riferimento a quelle attività di carattere pubblicistico svolte dalla società.

54 Alle società in controllo pubblico si applica la disciplina in materia di anticorruzione in virtù del comma 2 bis dell’art. 1 della l. n. 190 del 2012, come modificata dal d.lgs. n. 97 del 2016; per maggiori riferimenti all’argomento sia consentito il rinvio a R. Cantone, La prevenzione della corruzione nelle società a partecipazione pubblica; le novità introdotte dalla “riforma Madia” della pubblica amministrazione, in Riv. soc. 2018, p. 233 ss.  

55 A queste conclusioni è giunta in più occasioni l’ANAC con il già citato aggiornamento del PNA 2018 nonché con le delibere n. 88 dell’8 febbraio 2017 e n. 207 del 21 febbraio 2018 (entrambe in www.anticorruzione.it) individuando fra i provvedimenti che producono effetti favorevoli per il destinatario (e come tali da cui derivano le restrizioni ex lege), gli atti di autorizzazione, concessione, sovvenzione, sussidi, vantaggi economici di qualunque genere; alle stesse conclusioni, in dottrina, D. Andracchio, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, cit., p. 3; in senso critico, invece, A Marra, L’amministrazione imparziale, Giappichelli, 2017, p. 141 secondo cui tale lettura amplierebbe eccessivamente l’ambito applicativo dell’istituto

56 Nella pratica si è poi posto il problema fra i “privati” destinatari dei divieti di cui all’art. 53 potessero annoverarsi anche soggetti diversi da quelli nei cui confronti erano esercitabili le attività autoritative e negoziali, che appartengono però allo stesso gruppo societario. Una interpretazione strettamente letterale imporrebbe la soluzione negativa, che, però, finirebbe per consentire facili elusioni della disposizione (basterebbe far assumere il funzionario presso una società controllata); in questa prospettiva sembra, invece, possibile una lettura estensiva e sostanziale del concetto di “destinatari”, che consideri tale non la singola società ma l’intero gruppo su cui, di fatto, si riverbera l’attività amministrativa; a questa conclusione è giunta l’ANAC con la delibera n. 207 del 2018 cit; con riferimento ad un dirigente di una autorità portuale che, dopo la cessazione dell’incarico, era stato assunto da una società facente parte di un importante gruppo operante nel settore della navigazione e destinatario di provvedimenti autoritativi da parte della medesima autorità portuale.

57 In termini, D. Andracchio, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, cit., p. 8 secondo cui questa opzione finisce per creare un meccanismo a doppia serratura per le società pubbliche, che rivestono la doppia funzione sia di pubblica amministrazione (in base all’art. 21 del d.gs n. 39) che di privati possibili destinatari dell’attività negoziale dell’amministrazione

58 In termini, B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., cit., 187, secondo cui una interpretazione che restringesse l’applicazione ai soli soggetti effettivamente destinatari di provvedimenti amministrativi sarebbe disfunzionale rispetto allo scopo preventivo della norma.

59 In una recente decisione, l’ANAC (delibera n. 537 del 5 giugno 2019, in www.anticorruzione.itha escluso, con riferimento al caso di un’associazione di volontariato che intendeva avvalersi di una ex dipendente della Presidenza del Consiglio dei ministri nell’ambito dei comitati scientifici del proprio consiglio direttivo, che il divieto di assumere impieghi presso privati possa riguardare incarichi di collaborazione soltanto occasionale.

60 A queste stesse conclusioni, C. Pepe, Lo “strano caso” dell’art. 53 c. 16 ter del d.lgs. 165/01: criticità tra anticorruzione ed efficienza della legge, cit., p. 17.

61 Sulla distinzione delle nullità in testuali, strutturali e virtuali, ricorrendo la prima ipotesi nel caso in cui la comminatoria della nullità è stabilita dalla legge, sui v., ex plurimis, A Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, XXIII ed. (a cura di F. Anelli, C. Granelli), Giuffrè, 2017, p. 676; secondo gli autori, le norme imperative, la cui violazione dà luogo a nullità virtuale, sono quelle che fissano un limite esterno all’autonomia dei privati.

62 Analogamente, G. Iudica, Il conflitto di interessi nel diritto amministrativo, cit., p. 133

63 Sulle sanzioni interdittive come tipologia di sanzioni amministrative, F. Merloni, Istituzioni di diritto amministrativo, cit., p. 236

64 A questa conclusione sembra giungere D. Andracchio, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, cit., p. 7, laddove afferma che la sanzione interdittiva si applica al lavoratore o al professionista.

65 Nel senso che l’interdizione riguarda tutte le amministrazioni, si v. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., cit., p. 187

66 Le pene accessorie nel diritto penale sono quelle che conseguono una condanna, che si aggiungono alla pena principale, detentiva o pecuniaria e che incidono su diritti e facoltà del condannato. La pena accessorie dell’incapacità a contrattare con

la pubblica amministrazione, originariamente non prevista nel codice penale, ed aggiunta con l’innesto degli artt. 32 ter e 32 quater nel codice penale, con la legge n. 689 del 1981, n. 689 e successivamente modificata da ultimo con la legge n. 3 del 2019, consiste nel “divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un ter, 319 quater, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis, 353, 356 ed altri) commessi in danno a vantaggio di un’attività imprenditoriale e può avere una durata non inferiore ad un anno e non superiore a 5 anni ma può diventare perpetua – secondo quanto previsto dall’art. 317 bis – nel caso di condanna per una serie di reati (314, comma 1, 317, 318,319,319 ter, 319 quater, comma 1, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis) quando la pena principale irrogata è di almeno due anni di reclusione.

67 Negli stessi termini, B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., cit., p. 190 che critica la scelta del legislatore di non essere ricorso nel caso di specie ad una sanzione amministrativa, ricordando come in una situazione analoga (quella di cui al comma 9 dell’art. 2 della l. n. 481 del 1995), il legislatore aveva invece correttamente optato per una sanzione pecuniaria, sia pure commisurata all’emolumento ottenuto dal dipendente.

68 Così, B. Ponti, op. ult. cit., p. 190 che oltre a richiamare l’art. 2126 c.c. ritiene che la restituzione si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale di cui all’art. 36.

69In termini analoghi, D. Andracchio, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, cit. p., 7 secondo cui seppure dovesse intervenire la restituzione all’ex funzionario andrebbe riconosciuta la possibilità di 16 ter trattenere l’utiliter conceptum e cioè quanto il privato ha comunque tratto dall’utilizzo dell’opera prestata in suo favore

70 L’ANAC nell’aggiornamento del PNA 2018, cit. (par. 9) ha rivendicato a sé il potere di vigilare sul rispetto della norma di cui al comma 16 ter del d.lgs. n. 165 del 2001, escludendo, però, di poter irrogare le sanzioni ivi previste. Alle medesime conclusioni era già giunta con la delibera n. 207 del 2018, cit. con la quale aveva accertato una violazione dei divieti previsti

dalla norma del d.lgs. 165 a carico di un presidente di un’autorità portuale; il Tar Lazio, Roma, sez. I, 27 novembre 2018, n.

11494 (in www.quotidianogiuridico.it, 7 gennaio 2019, con breve nota di C. Di Seri, Poteri di accertamento dell’ANAC: il Tar Lazio ne chiarisce l’ampiezza) che ha annullato la delibera in questione escludendo che potesse competere all’ANAC qualunque potere di accertamento in materia; la decisione è stata impugnata dall’Autorità ed il consiglio di stato non ha ancora deciso l’appello.

71 L’art. 1, comma 2, lett. e) della l. n. 190 del 2012 prevede espressamente fra i poteri dell’ANAC quello di esprimere “pareri

facoltativi in materia di autorizzazioni, di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive

modificazioni, allo svolgimento di incarichi esterni da parte di dirigenti amministrativi dello Stato e degli enti pubblici nazionali, con particolare riferimento all’applicazione del comma 16 ter introdotto dal comma 42 lett. l), del presente articolo”. L’ANAC ha adottato con delibera 21 novembre 2018 n. 1102 (in www.anmticorruzione.itil “Regolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 6 novembre 2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del

decreto stesso” nell’ambito del quale ha anche regolato l’esercizio del potere consultivo previsto con riferimento al comma dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.

72 La problematica del conflitto di interessi è oggetto, nella legislatura in corso, di una serie di iniziative legislative all’attenzione delle competenti commissioni parlamentari; per maggiori riferimenti sia consentito il rinvio a R. Cantone, F. Merloni, Prime note in materia di prevenzione dei conflitti di interesse, scritto depositato in sede di audizione, alla 1^ Commissione affari costituzionale della Camera dei deputati su proposte di legge C. 702 Fiano, C. 1461 Macina e C. 1843 Boccia, recanti

“Disposizioni in materia di conflitti di interessi il 25 giugno 2019, in www.anticorruzione.it; in esso si fa riferimento anche a possibili interventi sulla disciplina del pantouflage.

73Sono numerosi i pareri e le pronunce dell’ANAC in tema di pantouflage che possono essere reperiti sul sito dell’Autorità

(www.anticorruzione.itcosì come possono ivi essere reperiti i PNA adottati dal 2013, in ognuno dei quali vi è una parte, più o meno ampia dedicata al tema in esame

74 Per più precisi riferimenti a questo specifico aspetto si rinvia a C. Pepe, Lo “strano caso” dell’art. 53 c. 16 ter del d.lgs. 165/01: criticità tra anticorruzione ed efficienza della legge, cit., p. 17 e ss.

 

 

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto