Tratto da: leautonomie.it

di Arturo Bianco

Il procedimento disciplinare deve essere avviato entro i 30 giorni successivi alla piena conoscenza del fatto da parte dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari e non dalla generica acquisizione di informazioni da parte dell’ente. Non vi è incompatibilità tra l’essere responsabile anticorruzione ed il fare parte dell’UPD. Non è indispensabile la pubblicazione del codice disciplinare per potere dare corso alla contestazione di infrazioni che sono strettamente connesse allo svolgimento delle attività dei dipendenti.

Sono queste le più recenti indicazioni dettate dalla giurisprudenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione relativamente ai principi che presiedono ai procedimenti disciplinari.

Siamo dinanzi ad indicazioni che assumono un notevole rilievo sul terreno operativo, individuando gli ambiti entro cui le Pubbliche Amministrazioni devono svolgere l’attività sanzionatoria nei confronti dei propri dipendenti.

LA PIENA CONOSCENZA DELL’ILLECITO

Il termine per calcolare la decadenza dell’avvio di un procedimento disciplinare decorre dalla piena conoscenza dell’illecito da parte dell’Ufficio che presiede alla adozione di tali provvedimenti. E’ quanto ha stabilito la sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione n. 13620/2025.

Leggiamo in primo luogo che “l’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro pubblico è disciplinato dagli artt. 55 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, che non contengono più il rinvio all’art. 7 dello Statuto, in passato disposto dal comma 2 dell’art. 55. I termini per l’esercizio e per la conclusione del procedimento disciplinare sono espressamente indicati dall’art. 55 bis, che individua in modo certo ed oggettivo il dies a quo e fa decorrere quello per la contestazione dal momento in cui l’U.P.D. ha acquisito la piena conoscenza dei fatti di rilievo disciplinare. Va rammentato al riguardo che questa Corte ha costantemente ribadito il principio secondo cui, all’esito della riformulazione dell’art. 55 del D.Lgs. n. 165 del 2001, non assumono alcun rilievo comunicazioni pervenute ad articolazioni dell’amministrazione di appartenenza diverse dall’UPD e dalla struttura alla quale l’incolpato è assegnato. Infatti, la scansione del procedimento stesso e la decadenza dall’azione disciplinare richiedono necessariamente un’individuazione non equivoca del dies a quo, impossibile ove si ritenesse di agganciarlo ad una qualsiasi notizia pervenuta a qualunque ufficio dell’amministrazione. È stato rimarcato che le esigenze di certezza sono poste a tutela di entrambe le parti del rapporto perché, se, da un lato, occorre evitare che il dipendente pubblico possa rimanere esposto senza limiti temporali all’iniziativa disciplinare, dall’altro occorre anche assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, che risulterebbe vulnerato da un’interpretazione che lasciasse nel vago il dies a quo del procedimento, rimettendolo – in ipotesi – anche a notizie informali o pervenute ad uffici privi di competenza quanto alla materia disciplinare e con i quali il dipendente non abbia alcuna relazione diretta”.

Inoltre, “la decorrenza del termine di decadenza di cui all’art. 55 bis, comma 4, del D.Lgs. n. 165 del 2001 presuppone l’acquisizione di una notizia “qualificata” e idonea a supportare l’apertura del procedimento disciplinare con la formulazione della contestazione, sicché il termine medesimo non può decorrere a fronte di una notizia che non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito. Ciò perché, come è stato pure osservato, un fatto è rilevante sul piano disciplinare soltanto se corredato da elementi narrativi e conoscitivi sufficientemente articolati, dettagliati e circostanziati in quanto  è a tutela dello stesso lavoratore evitare che vengano promosse iniziative disciplinari ancora prive di sufficienti dati conoscitivi; né risponde ad un’esigenza di economia ed efficienza dell’agire amministrativo l’apertura di procedimenti disciplinari in assenza di significativi elementi di riscontro della responsabilità”.

Queste indicazioni sono applicabili dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 74/2017, “perché la piena conoscenza che, secondo il testo vigente fa decorrere i termini del procedimento, è solo quella che consente l’immediato avvio dello stesso e si realizza allorquando l’amministrazione è posta in condizione di formulare una contestazione specifica quanto al fatto, al suo autore ed alle modalità di realizzazione della condotta”.

LA PROPORZIONALITA’ E LE INCOMPATIBILITA’ NEI PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

Non sono incompatibili gli incarichi di responsabile anticorruzione e di componente l’ufficio per i procedimenti disciplinari (UPD) e ciò non matura neppure nel caso in cui il procedimento sia aperto a seguito di una segnalazione del responsabile per la prevenzione della corruzione e per la trasparenza. E’ quanto ha stabilito la sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione n. 1818/2025. 

Ci viene detto che “l’eccepita incompatibilità fra la funzione di responsabile prevenzione della corruzione e trasparenza ed il ruolo di componente o titolare dell’UPD, rilevando che l’art. 1, comma 7, della legge n. 190/2012, come modificato dal d.lgs. n. 97/2016, postula una alterità dei due uffici ma non indica espressamente una loro incompatibilità”.

E’ strettamente connessa la seconda indicazione: “l’incompatibilità non sussiste neppure nell’ipotesi (che qui non ricorre) in cui venga in rilievo una segnalazione effettuata dallo stesso responsabile per la prevenzione, atteso che il principio di terzietà dell’ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo con la struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo, rispetto al lavoratore ed alla P.A., potrebbe assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto”.

LA PUBBLICAZIONE DEL CODICE DISCIPLINARE

Non costituisce una condizione essenziale per la legittimità del procedimento disciplinare la pubblicazione del codice disciplinare per le violazioni dei doveri minimi che disciplinano la condotta del dipendente. E’ quanto ci dice la sentenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione n. 8707/2025.

Deve essere “richiamato il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui la pubblicizzazione del Codice disciplinare mediante affissione non è condizione indefettibile dell’azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del cd minimo etico, in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato nelle forme del caso non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare (in sé basato sul disposto dell’articolo 2106 del codice civile ..), ma è invece quella di predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore; detta esigenza non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto minimo etico, proprio perché il lavoratore, come reiteratamente affermato in tali evenienze, non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere”.

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